Probabilmente una certa consapevolezza sul fatto l’agricoltura industriale devasta i territori, l’ambiente e la salute, con il passare degli anni, si è diffusa quasi ovunque. Quel che, purtroppo, si è diffuso assai meno è il sogno che diventa progetto di poterne fare a meno. Eppure, le esperienze e pure le reti di agricolture che rispettano la terra, le acque e le risorse – perché fatte da persone che quelle terre le abitano -, che salvaguardano la biodiversità animale, agricola e culturale e che producono cibo sano e fresco minimizzando gli sprechi, in Italia non sono certo poche. Un’importante occasione per rendersene conto è quella del 22 ottobre a Bologna, quando la Convergenza Contadina e Agroecologica sarà in piazza – rispondendo a un invito del Collettivo di Fabbrica GKN, di Fridays for Future, dell’Assemblea No Passante Bologna e della Rete Sovranità Alimentare Emilia-Romagna – anche per gridare che una diversa relazione tra città e campagna è ben più che possibile. Tra gli obiettivi essenziali spicca, poi, la volontà di costruire insieme una piattaforma contadina da portare nella più generale “convergenza” promossa alla GKN di Firenze. La giornata del 22 sotto le due torri felsinee è infatti in stretta relazione con quella che il 26 marzo ha visto manifestare nel capoluogo toscano decine di migliaia di persone arrivate da tutta Italia e determinate a uscire dalla testimonianza e a insorgere. Questo l’appello che ha dato vita a un appuntamento da non perdere

Quando andiamo a fare la spesa nei supermercati incontriamo i prodotti della filiera agricola industriale. Una filiera che crea un sistema alimentare globale in mano a poteri finanziari sempre più accentrati, che consuma i suoli e le acque e inquina l’aria, che per nutrire il 30% della popolazione mondiale è responsabile dell’85-90% delle emissioni di gas serra complessivamente imputabili all’agricoltura. Che è responsabile di un crollo drammatico di biodiversità, che crea sfruttamento di lavoratrici e lavoratori e annientamento delle popolazioni indigene. Che produce cibo alterato dalla catena industriale, non salutare o dannoso, che per una percentuale che va dal 30 al 50% viene sprecato nei vari passaggi della filiera. Che produce profitti per le poche imprese transnazionali che controllano gli input quali sementi e pesticidi, la trasformazione industriale e la commercializzazione nella Grande Distribuzione Organizzata e nelle catene del Fast Food.
Questa agricoltura industriale produce evidenti danni ai territori, all’ambiente, alla salute delle persone. E spesso comporta anche un brutale sfruttamento di braccianti agricoli, migranti e comunità più deboli. Braccianti, contadini e altre persone che in nome del rispetto, dell’autodeterminazione, di condizioni di lavoro migliori si sono in questi anni opposti in maniera visibile allo sfruttamento e alle logiche di una politica emergenziale e paternalista.
Nonostante le ingiustizie sociali che questo sistema agroindustriale promuove, viene favorito dalle politiche pubbliche locali, nazionali e internazionali. Riceve finanziamenti pubblici diretti, investimenti pubblici per le infrastrutture di cui necessita, viene favorito da leggi e regolamenti che trascurano sistematicamente le piccole aziende contadine e le reti di cui fanno parte.

Esistono poi agricolture fatte da persone che coltivano e vendono i propri prodotti ad altre persone nei mercati contadini o presso le proprie aziende, a gruppi di acquisto solidali o a cooperative di consumatori che gestiscono negozi e locali di prossimità. Esistono agricolture fatte da persone che coltivano orti urbani e terreni per i propri fabbisogni e per quelli della propria famiglia e comunità.
Esistono persone che si riuniscono in cooperative per coltivare insieme e rispondere ai propri fabbisogni. Esiste la piccola agricoltura contadina di basso o nessun impatto ambientale, orientata ai valori di benessere, ecologia, giustizia e solidarietà oltre che al giusto reddito per chi la pratica.
Sono agricolture che rispettano la terra, le acque e le risorse, perché fatte da persone che quelle terre le abitano, che salvaguardano la biodiversità animale, agricola e culturale perché fatte da milioni di persone in relazione tra loro e con i propri territori. Sono agricolture che producono cibo sano, fresco, che non ha bisogno di viaggiare per migliaia di chilometri o di essere conservato attraverso metodi che ne alterano profondamente il valore nutritivo. Sono agricolture che minimizzano gli sprechi, che non necessitano di inutili imballaggi destinati a incrementare le montagne di rifiuti che soffocano le terre e gli oceani. Sono agricolture frutto di scelte di milioni di persone che si connettono in comunità fluide e diversificate. Queste persone, contadine e contadini, coproduttrici e coproduttori, costituiscono le reti alimentari contadine, settore fondamentale e dinamico di quell’agricoltura contadina di piccola scala che, anche secondo la FAO, sfama il 70% della popolazione mondiale.
La crisi climatica sta mettendo a dura prova questa agricoltura contadina.
La siccità dei mesi scorsi ci ha fatto percepire le nostre produzioni e i nostri campi come sempre più fragili e in balia di eventi improvvisi e difficili da controllare. A ciò si aggiunge un aumento dei prezzi del gasolio e dei fattori necessari all’attività agricola che erodono sempre più il reddito agricolo e ci espongono, come piccol* produttor*, al debito o ci costringono all’aumento dei prezzi dei nostri prodotti. Un aumento che è anche il risultato di politiche agricole che favoriscono le grandi aziende e costringono i piccoli produttori a scaricare sul prezzo alla vendita i costi di un’attività sempre più instabile, povera e precaria.

C’è dunque un problema di sostenibilità economica delle piccole attività agricole inserite in un’economia di mercato diretta da competitività, prezzi a ribasso e finanziarizzazione, ma c’è anche un problema di reddito dei conduttori e conduttrici delle piccole aziende schiacciati dal ricatto di tenere in piedi la propria attività di qualità e di prossimità o di chiuderla. Essere un contadino e una contadina in Italia significa lavorare nell’abbandono istituzionale e politico a causa di una PAC costruita sulle grandi imprese agricole e con un difficile accesso al credito per gli investimenti, necessari per affrontare la crisi climatica in atto; significa coltivare prodotti di qualità ma non sempre riuscire a percepire un reddito dignitoso.
La produzione agricola di piccola scala è tutela e presa in cura del territorio, è conservazione di prodotti e culture locali, è relazione e vendita diretta; ma il riconoscimento del valore del nostro lavoro sembra sempre essere lontano da chi comanda questo Paese.
Il 22 ottobre le persone che fanno vivere, difendono, promuovono queste agricolture contadine saranno a Bologna – nelle strade insieme a chi difende la propria vita dallo sfruttamento: sfruttamento del lavoro e sfruttamento dell’ambiente.
Noi ci saremo anche per chiedere sostegno e riconoscimento del nostro lavoro, per un reddito dignitoso, per una politica agricola nazionale ed europea capace di rispondere alle nostre esigenze, difficoltà e problematiche, per un accesso alla terra di giovani che vogliono prendersi in cura i nostri territori svincolando dall’obbligo d’impresa la produzione del cibo agroecologico localmente distribuito, per un’agricoltura piccola, sostenibile e agroecologica, unica via di salvezza dalle crisi attuali. Perché è ormai chiaro che non può esistere una vera e reale transizione ecologica se non partiamo dall’obbiettivo primario della produzione locale del cibo in maniera agroecologica.
Noi saremo in piazza il 22 ottobre per la convergenza di chi è consapevole che il cambiamento climatico, la distruzione dei territori e dell’agricoltura contadina, lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori, la mancanza di reddito e di prospettiva di vita sana e socialità sono tutte causate da un sistema economico-finanziario nel quale “i loro profitti valgono più delle nostre vite”. Noi ci saremo perché serve un cambio radicale di politiche pubbliche, per difendere e promuovere l’agricoltura contadina, l’economia circolare e di comunità, una profonda trasformazione dell’uso delle risorse energetiche e del sistema produttivo – perché finalmente siano territori e comunità a decidere cosa, come e per chi produrre.
Noi ci saremo perché serve che la relazione tra città e campagna che crea reti territoriali auto-organizzate sia riconosciuta, incrementata e sostenuta dalle politiche pubbliche, e sia rafforzata dalla consapevolezza di chi consuma e di chi produce, al fine di garantire a tutt*, in maniera trasversale, il diritto al cibo salutare e sano, prodotto nel rispetto della terra, dell’umanità e dell’ambiente.
Intanto noi tutte e tutti pratichiamo una convergenza anche delle pratiche quotidiane, verso una reale autodeterminazione alimentare e dei territori come prospettiva in cui si usa il mutualismo conflittuale per difendere il lavoro e allo stesso tempo costruire e difendere processi e meccanismi di partecipazione a partire dalla centralità del cibo che non lasci nessuna e nessuno sola/o e sostenga reciprocamente le alternative sociali che ognuna/o di noi cerca di costruire
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