
Una enorme portaerei per controllare il Mediterraneo e il Nord Africa, con decine di basi della Nato. Una piattaforma per produrre ed esportare energia nel continente. Un progetto di industrializzazione monco, che ha affossato l’economia di sopravvivenza dei pastori. La Sardegna è un’isola colonizzata, annessa all’Italia circa un secolo e mezzo fa, che resiste e si guarda allo specchio degli indipendentisti catalani. A fine giugno, Raúl Zibechi è stato invitato dal Coordinamento dei Comitati Sardi per riflettere insieme sulle esperienze di lotta contro l’ordine coloniale e la militarizzazione del territorio in due luoghi del pianeta molto più vicini di quel che si potrebbe credere: il Sudamerica e l’isola dei Nuraghi. Questo è il reportage che ci ha inviato
“Ulivastri”, esclama Alessia, mentre l’auto si inerpica lentamente sul monte di San Sisinnio, coronato da un eremo dove ogni anno si celebra la festa patronale la prima domenica di Agosto, a poca distanza da Villacidro, un grande paese nella pianura a un’ora da Cagliari. I giganteschi e millenari ulivi, chiamati “ulivastri” dai sardi, sono una delle caratteristiche identitarie di quest’isola colpita dalla piaga delle basi militari della NATO che appaiono in zone insospettabili, vicino alle spiagge o dentro le città.
Invevitabile informarsi su questo strano vocabolo. Si tratta di grandi ulivi silvestri che possono raggiungere e superare i 500 anni di vita, con tronchi grossi e ritorti che superano i cinque metri di diametro. Sulla cima, una chiesa del 1600 che compete in austerità e bellezza con il monte di ulivi che la circonda. Ci ripariamo dal sole impenitente sotto un enorme ulivastro, i cui rami offrono riparo per quasi venti metri di diametro ospitando un circolo di mezzo centinaio di persone.

Esportare energia
Sin dall’arrivo in Sardegna i membri dei comitati sardi che ci ospitano, denunciano la militarizzazione dell’isola e ripetono una volta e un’altra ancora concetti che ci suonano molto latinoamericani. “Siamo un’isola colonizzata”. In effetti, l’isola fu provincia dell’impero romano che mise fine alla civiltà nuragica, il cui splendore viene svelato dalle migliaia di torri-fortezza chiamate in sardo nuraghi.
Successivamente fu occupata dalla corona di Aragona che divenne successivamente il regno di Castiglia, per passare alla casa Savoia con il Trattato di Utrecht. Solo nel 1861 è stata annessa all’Italia, appena un secolo e mezzo fa. Perciò buona parte dei sardi non si considera italiana, conserva la propria lingua e i propri costumi, e sente il governo di Roma straniero e, naturalmente, lontano.
Molte altre parole ci riportano al continente del sud, come l’enfasi sul concetto di comunità. Nel febbraio scorso, i pastori hanno lanciato una protesta durissima per l’aumento del prezzo del latte ovino che producono. Il costo di produzione è di circa un euro al litro, ma ne recuperano appena la metà, cifra che sono riusciti ad aumentare del 40 per cento circa dopo quasi un mese di blocchi stradali, trascorsi a rovesciare il latte dei grandi produttori e a fronteggiare la repressione. Comunità è quella che sostiene la sopravvivenza dei pastori, transumanti per mesi in cerca di pasture in questa terra disidratata.
Le comunità sarde subiscono lo sviluppo e la presunta modernizzazione. A venti chilometri scarsi da Cagliari, girando per spiagge dalle acque diafane e dalle sabbie luminose, si erge imponente la raffineria Saras, a pochi metri da Sarroch, un paese di poco più di cinquemila anime. Si tratta della seconda raffineria d’Europa e della più grande del Mediterraneo, lavora 15 milioni di tonnellate di petrolio all’anno.
Il suo proprietario, Angelo Moratti, era un tipo polemico. Imprenditore aggressivo e opportunista, presidente dell’Inter di Milano, padrone dello storico Corriere della Sera assieme al capo della Fiat, Gianni Agnelli, nel 1962 fondò la petrolchimica in Sardegna, considerandola un sito strategico per la commercializzazione nel continente. Forse perché previde che i pochi abitanti dell’isola (1,6 milioni) avrebbero potuto subire le conseguenze ambientali e sanitarie delle sue attività con ripercussioni politiche minori rispetto a qualunque altra area industriale italiana. Errore di calcolo.
Nel maggio del 2013 la prestigiosa rivista scientifica Mutagénesis* dell’Università di Oxford, ha pubblicato un rapporto stroncante che sostiene che le emissioni contaminanti prodotte dalla raffineria (che cominciò a funzionare poco più di mezzo secolo fa, nel 1966), hanno provocato “Significativi aumenti dei danni e alterazioni del DNA rispetto al campione di confronto estratto dalle aree rurali”. Si fa riferimento ai 75 bambini e bambine della scuola primaria e secondaria di Sarroch, che rappresentavano un campione della ricerca messo a confronto con campioni provenienti da altrettanti bambini delle aree rurali.
La stessa area industriale ospita un impianto con il più grande ciclo di gassificazione combinato al mondo, che impiega i rifiuti di raffinazione per la generazione di energia. Produce una miscela di inquinanti atmosferici, tra cui benzene, etilbenzene, formaldeide e toluene, nonché metalli pesanti come cadmio, cromo, piombo e composti di nichel. I ricercatori sostengono che i risultati sono in linea con quelli ottenuti nella centrale elettrica di Taichung a Taiwan e nel centro petrolchimico di Pancevo in Serbia.
L’articolo di Mutagénesis riporta un “aumento dei livelli di stress ossidativo”, che implica una rottura dell’equilibrio in un organismo vivente tra produzione ed eliminazione cellulare. Chi subisce questo tipo di danno al DNA, avrà per tutta la vita più probabilità di ammalarsi di cancro ai polmoni e di leucemia, il che è confermato nel caso di Sarroch con una deviazione statisticamente significativa dai valori attesi.
A Sarroch c’è il 30% in più di casi di leucemia rispetto al resto dell’isola. I membri dei comitati sardi affermano che questa è una delle conseguenze della “monocultura energetica” alla quale è stata condannata la Sardegna, che ha una potenza energetica installata tre volte e mezzo superiore rispetto a quella necessaria.

Militarizzazione
“Il processo di spoliazione della Sardegna cominciò sistematicamente con i Savoia alla fine del 1800” si può leggere in un documento del Coordinamento dei Comitati Sardi, che raggruppa circa 60 gruppi: contro l’occupazione militare, in difesa dell’ambiente, contro la tecnologia 5-G, per la salute e la biodiversità, in difesa delle periferie urbane e contro l’estrattivismo. La principale differenza rispetto ad altri gruppi di attivisti del sud riguarda la lotta per l’indipendenza promossa da alcuni comitati.
In un lungo viaggio lungo la costa occidentale, in cui le insenature si intercalano con ripide montagne, ci siamo imbattuti in un’enorme recinzione che corrisponde alla base militare di Teulada, la seconda nell’isola per dimensioni. Anche se alla fine della seconda guerra mondiale gli alleati decisero che la Sardegna sarebbe rimasta un’isola neutrale, ben presto la NATO decise di trasformarla in una gigantesca base militare e a metà degli anni 1950, con la scusa della guerra fredda, cominciò la realizzazione di di poligoni di esercitazione e tiro.
Il poligono di Teulada ha una superficie di 7.500 ettari e occupa 30 chilometri di costa, dove i Marines si esercitano con sbarchi e bombardamenti. In quattro anni, tra il 2009 e il 2013, solamente in questo poligono sono stati esplosi 24 mila ordigni di artiglieria pesante, missili e razzi. A questa opprimente attività militare (quasi 20 bombe al giorno in media) si devono aggiungere le tonnellate di rifiuti lasciati dalle esplosioni e dalle esercitazioni.
Il poligono di Quirra, il più grande della Sardegna, supera i 13 mila ettari e viene utilizzato principalmente dall’aviazione. L’isola è costellata di installazioni militari di ogni tipo, tra cui una base per i sottomarini atomici nel nord, stazioni radar e poligoni dove le tre forze possono esercitarsi all’aria aperta. In sintesi, uno scenario di grande valore per l’esercito italiano e statunitense, ove sperimentano guerre che scateneranno poi contro altri popoli.
L’insieme delle installazioni militari occupa non meno di 35 mila ettari: quasi il 70 per cento della totalità delle installazioni militari italiane è concentrato in Sardegna. L’occupazione di vaste aree intorpidisce l’attività economica dei contadini e dei pastori, come conseguenza l’80% del cibo consumato è importato. L’altro aspetto dell’occupazione militare è l’emigrazione, poiché le basi non occupano manodopera locale e l’industria non ha più fiato.
Un valido esempio della militarizzazione dell’isola è la fabbrica di bombe, mimetizzata tra gli uliveti nel sud dell’isola. Hanno scelto il posto giusto, il piccolo comune di Domusnovas, dove metà dei giovani non ha un lavoro. La fabbrica è di proprietà della tedesca Rheinmetall, la principale compagnia di armi della Germania che divenne famosa sotto il nazismo per i suoi fucili Mauser.
Nel dicembre del 2017 un’indagine del New York Times ha rivelato che l’Arabia Saudita utilizza le bombe prodotte in Sardegna per attaccare la popolazione dello Yemen. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha vietato la vendita di armi alla monarchia saudita, ma quelle esportate dall’Italia, cioè dalla Sardegna, non sono state colpite dal divieto.
Le proteste contro la fabbrica sono continue e promosse da organizzazioni pacifiste e antimilitariste come il comitato No Basi. Il giorno in cui, accompagnati da Edoardo e Rosalba, abbiamo attraversato i boschi che la circondano, per raggiungere una collina dalla quale poter vedere gli stabilimenti, siamo stati avvicinati da due auto di guardie private pesantemente armate. Non hanno attraversato il recinto di filo spinato, ma hanno dato sufficiente mostra fisica e verbale per non passare inosservati.

Comitati Sardi
Sotto l’enorme ulivastro che corona San Sisinnio, ci disponiamo in un cerchio di oltre una cinquantina di persone. Tutti rappresentano comitati di base provenienti da diversi angoli della Sardegna. Alessia apre l’incontro e libera la parola che inizia a circolare a tutto tondo. Antonio, Claudio, Rosalba e Edoardo, incoraggiano la partecipazione che rapidamente cresce.
Gli argomenti di discussione sono l’occupazione militare, la repressione e l’autodeterminazione dell’isola. Un doppio sentimento domina gli attivisti: l’oppressione storica dovuta all’occupazione e la distruzione delle economie locali. Gli sguardi si posano spesso su Bainzu Piliu, 84 anni, il più noto indipendentista sardo, un uomo magro e ritto che nel 1971 fondò il Fronte per l’indipendenza della Sardegna. Laureato in farmacia, è stato sindaco e perseguitato come “cospiratore” per la sua difesa dell’indipendenza.
Qualcuno cita la “subalternità del territorio e delle amministrazioni locali” e l’immaginazione vola verso il sardo più conosciuto al mondo: Antonio Gramsci. Il suo concetto di “subalternità”, fondamento delle correnti teoriche anti o de-coloniali, non sarebbe stato formulato se non fosse nato in territori colonizzati. Quando aveva quindici anni l’isola fu scossa dalle lotte operaie e dalle rivolte contadine, rimase colpito dal grande movimento “sardista” che portò nella sua valigia e nel suo cuore quando emigrò nella Torino proletaria.
Il dibattito fa imbastire idee. L’isola è passata da una “monocultura mineraria”, andata in crisi negli anni ’60, ad una sorta di “monocultura militare”, anche se ora la stella è il turismo. “Le basi”, dice una sociologa sarda di nome Aide, “sono invisibili, ma negli ultimi anni è cominciato un processo di lotta contro la presenza militare”. Laura rappresenta il comitato No Metano, e afferma che “la produzione energetica ha trasformato l’isola in un tubo di scappamento il cui motore sta a Milano“.
La critica al neoliberismo è un altro ponte con l’America Latina. Isabella lavora per “telefono rosso” creato con l’Unione Sindacale di Base, che raccoglie le denunce degli abusi sul lavoro. “I più sfruttati sono i lavoratori temporanei che arrivano a lavorare 18 ore al giorno per stipendi di soli 450 euro al mese. Alcuni lavorano gratis perché sono in prova, specialmente gli immigrati che non hanno accesso al sindacato”. Quindi mette in relazione la paura degli operai con l’eredità coloniale e il super-sfruttamento.
Le due principali richieste del movimento sardo ruotano intorno alla “moratoria sulle industrie produttrici di energia” e “la chiusura delle basi militari e la restituzione delle delle terre alle comunità”, per compensare i danni all’ambiente e il blocco delle economie agricole locali. Sanno che sono obiettivi lontani quanto lo è l’indipendenza di un’isola sotto il controllo della NATO.
Si ispirano in qualche modo alla rivolta di Pratobello, dalla quale è trascorso mezzo secolo. Nel 1969, sulle mura del paese, le autorità affissero dei manifesti con l’invito rivolto ai pastori di sgomberare il bestiame dai pascoli di Pratobello, perché l’area sarebbe stata trasformata in un campo di tiro dall’esercito italiano. Il 9 giugno, i 3.500 abitanti di Orgosolo iniziarono la mobilitazione occupando le terre.

Donne e bambini affrontarono i soldati, faccia a faccia, pacificamente, con notevole fermezza. La mobilitazione divenne una rivolta popolare pacifica guidata da un’assemblea popolare permanente, con la partecipazione di migliaia di persone provenienti dai paesi della regione. Dopo diverse settimane, l’esercito si ritirò e i pastori rioccuparono le terre comunali con il loro bestiame. Fu il 68 sardo.
“L’estrattivismo è un’economia d’assalto basata sulla devastazione e il saccheggio, il cui unico scopo è lo sfruttamento del territorio senza limiti, che, in nome del profitto, distrugge l’ecosistema e gli esseri umani che lo abitano“, afferma un documento del Coordinamento dei Comitati Sardi, scritto con la lucidità di coloro che sopportano le disgrazie. Trascorse le ore, l’ombra dell’ulivastro continua a proteggerci dal sole, con i suoi rami infiniti che si abbassano fino ad accarezzare la terra. Di sotto si respira serenità e calma, quella calma necessaria per affrontare le forti pendenze della vita, come la militarizzazione e il colonialismo.
- Mutagénesis, Volume 28, pp. 315-321 (2013)
*Raul Zibechi è ricercatore, scrittore e giornalista urugayano, redattore della rivista “Brecha” e Doctor honoris causa presso l’Universidad Mayor de San Andrès (La Paz, Bolivia). Autore di numerose pubblicazioni tradotte in tutto il mondo sulle dinamiche dei movimenti sociali sudamericani.
Ospite in Sardegna del
Coordinamneto dei Comitati Sardi tra l’11 e il 21 giugno, periodo durante il
quale ha incontrato movimenti, associazioni, e organizzazioni di lotta e
resistenza sardi ad Iglesias, Cagliari, Villacidro, Sassari, Olzai, Nuoro e
Siniscola.
Questo articolo è stato pubblicato anche dal manifestosardo
l’economia circolare ,quella
che propone e vuole essere ” banner”per una nuova cotura dei cittadini,paesani sardi,sostiene le loro ricgieste…fermezza degli abitanti contro le trasformazioni militari del terreno con la qualità che è la loro forza di abitanti della realtà locale.
I sardi,nei gruppi in cui esprimono la loro dignità nella difesa del territorio torna a vantaggio loro e di rimbalzo di tutti che vogliono una restituzione negli equilibri del pianeta.
ogni campo deve essere difeso e restaurato perchè ,cosi facendo,torniamo nel rispetto che dobbiamo
al mondo migliore che in ognuno offre per tutti il passo per vincere ,nell’umiltà del sapere,quello spazio comune di tempo e di luoghi per i diritti e i doveri dove insegnamo i confini che ci permettono di riconoscere la fede che ci guida insieme.
Bellissimo e illuminante articolo. Complimenti e continuiamo a lottare…