Un insegnante di filosofia ha avviato in classe una discussione sul diritto di voto ai sedicenni. Un bel modo per scardinare prima di tutto i luoghi comuni sul rapporto fra i giovani e la politica e magari per scoprire come fare politica va molto oltre le urne. “Gli studenti desiderano sempre più una scuola dinamica e aperta – scrive Matteo Saudino -, che si occupi in modo critico del mondo in cui vivono…”

Dalla privilegiata, ma al contempo parziale, posizione di insegnante l’ipotesi di estendere il diritto al voto ai sedicenni rappresenta una imperdibile e fertile occasione per fare una sana esperienza di educazione alla cittadinanza, dando vita ad animate discussioni con i ragazzi del triennio delle superiori.
Dal confronto con loro e tra di loro sono emerse, come era ampiamente prevedibile, interessantissime riflessioni che scardinano, in profondità, una serie di luoghi comuni sul rapporto fra i giovani e la politica, primo fra tutti quello secondo cui alle nuove generazioni importerebbe poco o nulla delle grandi e impellenti questioni del nostro tempo. Dialogando con le ragazze e i ragazzi, infatti, si può facilmente percepire come tale assunto sia privo di un concreto fondamento e sia, in gran parte, figlio di una stanca e comoda litania che gli adulti, imperterriti, continuano a ripetersi, forse per celare le loro responsabilità rispetto ad un quadro politico francamente misero e deprimente, del tutto privo di quello slancio vitale ed ideale necessario per costruire un futuro in cui provare a vivere liberi e felici.
Durante i dibattiti in classe gli studenti si sono divisi abbastanza equamente tra contrari e favorevoli alla proposta di abbassare l’età per votare e scegliere i propri rappresentanti da mandare in parlamento.
I primi hanno supportato la loro contrarietà con argomentazioni quali: la scarsa maturità, l’influenzabilità e le poche conoscenze dei giovani per potersi occupare in modo attivo e responsabile di politica. I più machiavellici si sono addirittura spinti a sostenere che tale proposta sia nata proprio adesso solo per accaparrarsi i voti della Greta’s generation, ma non per valorizzarla, bensì per depotenziarla e incanalarla dentro lo status quo. I favorevoli, invece, hanno sostenuto che l’estensione del diritto al voto aumenterebbe la responsabilità dei giovani, dando ad essi la possibilità di fare sentire la propria voce su ambiente, scuola e lavoro, bilanciando almeno parzialmente una forbice elettorale ormai del tutto a vantaggio delle istanze dei cittadini over sessanta.
Al di là delle stimolanti divergenze, entrambi gli schieramenti, però, erano concordi nel riconoscere alla scuola una decisiva centralità nella formazione e nella preparazione della vita politica dei cittadini. Il vivace dibattito che è emerso non guarirà certamente la nostra democrazia, sempre più malata di apatia e scarsa partecipazione, ma è comunque un buon ricostituente, un segnale importante che mette in luce una frizzante e sottovalutata curiosità nei confronti delle grandi questioni politiche da parte degli studenti, i quali desiderano sempre più una scuola dinamica e aperta, che si occupi in modo critico del mondo in cui vivono. Gli studenti di oggi, infatti, non rifiutano la politica per principio, semplicemente la conoscono poco e per questo vogliono un’istruzione che dia loro delle chiavi per poter interpretare e decodificare la molteplicità della realtà.
Di fronte a tali eterogenee richieste e sollecitazioni, che sorgono dal basso, urge fare della scuola pubblica un luogo in cui esercitare la dimensione politica dell’apprendimento, soprattutto se si vuole edificare una società fondata sulla promozione e sul rispetto dei diritti umani. Altrimenti si corre il rischio di soffocare ogni istanza di partecipazione e cambiamento, in nome di una fedeltà a un passato aureo, quasi sempre mitizzato, e che comunque ora non c’è più. La scuola, essendo una nave sempre in mare aperto non può e non deve pretendere di restare immobile, bensì deve provare ad incidere nel presente senza rimpiangere le età perdute, fonte di ogni conservatorismo. Infine, va ribadito che la scuola democratica è tale solo nel momento in cui si sforza di dare concretezza, nella quotidianità, ai valori di libertà, uguaglianza, laicità, solidarietà su cui si fonda la Costituzione, perché, come sosteneva il grande Paulo Freire, educare è credere nella possibilità del cambiamento e della giustizia.
Mi sbagliero’, ma forse l’alleanza che potrebbe funzionare e’quella 16-60. Anche noi sessantenni siamo diventati maggiorenni per legge, parlavamo a scuola del diritto al voto, seguivamo corsi di storia dei partiti politici per informarci, difendevamo il pensiero critico, mettevamo in discussione il mondo intorno…..
La scuola ha una responsabilità enorme su questo tema, soprattutto nell’eduzazione al confronto non-violento, orientato a criticare razionalmente gli interessi sostanziali nel rispetto soggettivo delle emozioni e dell’identità altrui.
Noi la chiamiamo mediazione.