Il colonialismo e la crisi climatica raccontati attraverso una pianta che dà vita a minuscole spezie capaci di prendere la parola e svelare passaggi essenziali della storia umana: dai processi politici di portata mondiale a quella rovinosa idea di disprezzo della terra che permette a un sistema fondato sull’accumulazione di minacciare l’esistenza di molte delle specie del pianeta e generare il cosiddetto collasso climatico. Rebecca Rovoletto recensisce “La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi“, l’ultimo libro di Amitav Ghosh, grande scrittore e antropologo indiano, uno degli autori contemporanei più brillanti e insieme profondi nello sviluppo della critica alla narrazione dominante della terra, dei fiumi e delle foreste come forme inerti prive di soggettività, e dunque di voce come di diritti. Colonialismo, spiega Rebecca, non significa soltanto occupare una terra, avvelenarla e depredarla delle risorse, deportare o massacrare le popolazioni umane e alterumane che la abitano. Significa anche spezzarne le relazionali originarie con chi ci vive, dissipare conoscenze e abilità, imporre regimi di dominio, indebitamento, dipendenza per ridurre la vita stessa alle sole logiche di mercato: merci e manodopera
“Perché è nata questa crisi? Perché per due secoli i colonialisti europei hanno attraversato il mondo, vedendo la natura e la terra come qualcosa di inerte, da conquistare e consumare senza limiti, e gli indigeni come selvaggi la cui conoscenza della natura era priva di valore” [1].
Per aggiungere un ulteriore tassello all’idea che non esiste un “post-colonialismo” (semmai un de-colonialismo permanente), per stimolarci a fare i conti con la nostra alienazione dalla vitalità del pianeta, che ci sta presentando il conto, Amitav Ghosh si rimette in modalità pistage [2]. È appena uscito con Neri Pozza il suo ultimo libro – La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi – nel quale seguiamo le tracce di un’innocua spezia che, nel suo viaggio lungo le rotte della logistica planetaria, svela traiettorie e implicazioni ecologiche, umane, commerciali e politiche di portata mondiale, diventando emblema di ciò che avviene per ogni “cosa” in circolazione nel sistema capitalista e di quanto contribuisce al collasso climatico.
Molti anni fa, pungolata da Günter Grass e dalla sua badessa Margarete Rush [3], mi misi a seguire per un po’ la “via del pepe” e l’impatto stupefacente che ebbe nello sviluppo di potentati economico-politici (e culturali) nell’Europa medievale e rinascimentale. E’ il caso della Repubblica di Venezia, ad esempio, che ne ha detenuto il monopolio per oltre tre secoli: utilizzò il pepe (chiamato “oro nero”) come vera e propria moneta di scambio costruendoci sopra buona parte della sua ricchezza, della sua organizzazione sociale, politica e commerciale nonché intessendo su di esso dinamiche geopolitiche inimmaginabili [4].
Storie analoghe si possono ripercorrere con relativa facilità, seguendo le rotte di prodotti e commodities di ogni genere che, nelle diverse epoche e geografie, agiscono da driver di terraformazione (fenomeno al quale l’autore dedica un intero capitolo), modificando morfologie e habitat in modo irreversibile. Meno immediato, tuttavia, è tracciare una mappa di come la violenza coloniale europea – in Asia, Americhe, Australia, Nuova Zelanda e Africa – e lo sterminio sistematico dei popoli indigeni, abbia gettato le basi per la crisi climatica che minaccia il mondo di oggi.
Con la sua scrittura lucida e ben documentata, Ghosh ci racconta quel mondo attraverso la lente della noce moscata, la spezia originaria delle isole Banda in Indonesia, mirabilia di terre vulcaniche e di foreste tropicali. Lo scenario del XVII secolo vede, in quelle piccole isole, l’olandese Venerabile Compagnia delle Indie Orientali (Verenigde Oost-Indische Compagnie – Voc) sottrarre il monopolio della spezia al Portogallo e farsi protagonista di uno dei più efferati massacri della storia del colonialismo. Nella cornice del proto-mercato globale, gli innocenti semi di Myristica fragrans funzionano da epitomi dell’andazzo planetario, che allora prese avvio e che tuttora accelera, in termini di accaparramento di risorse, di accumulazione capitalista, di ecocidio e di genocidio.
Lo sguardo di Ghosh parte dai margini dell’impero, dalla periferia dei mercati, dai coni d’ombra di remote aree del pianeta per raggiungere i gangli del capitalismo globale. Che lo si guardi al microscopio o dal James Webb, mostra sempre lo stesso pattern: qualsiasi sia la sua “intensità” o scala, il modello capitalista ha un’intrinseca invarianza, ovvero che l’azione predatoria prenda spunto da una noce o da una miniera di litio, il suo comportamento frattale diventa sistemico.
Un’operazione narrativa simile a quella di Ghosh, seppure diversa e decisamente più poetica, l’ha intrapresa Anna Tsing, nell’inoltrarsi sulle orme del Tricholoma matsutake, uno dei funghi commestibili più ricercati al mondo, che vive e prospera in ambienti disastrati [5]. I due testi sembrano speculari nella misura in cui una modesta “risorsa naturale” diventa causa in un caso e conseguenza nell’altro di devastazione socio-ambientale, ma in entrambi si trasforma in asset per dinamiche di tipo capitalistico. Detto altrimenti: come la costruzione surrettizia (virtuale) di valore attribuita a una risorsa del tutto superflua e inutile, in termini di necessità (reali) diffuse, trasformi un bene in vettore geopolitico, motore di speculazione, di saccheggi, di violenze. Trasformi i viventi in vittime di “quella che si potrebbe chiamare la maledizione delle risorse”.
Già nel suo precedente La grande cecità – benché lì il focus riguardasse la postura della letteratura di fronte al surriscaldamento globale – insiste su quello che qui diventa il punto centrale: l’indissolubilità del trinomio: capitalismo – imperialismo coloniale – crisi climatica. “(…) fenditure interconnesse” [6]: il colonialismo, con la sua base razziale e il suo portato schiavista, come hanno dimostrato studiosi e storici neri in particolare, è connaturale al capitalismo (il secondo non esisterebbe senza il primo), o meglio sono co-emersivi. come spiega appunto Ghosh, e la loro miscela incendia il pianeta.
Colonialismo non significa soltanto occupare una terra, depredarla delle risorse, deportare o massacrare le popolazioni sussistenti (umane e alterumane), non preoccuparsi di inquinare o contaminare i luoghi. Significa anche spezzare i legami relazionali originari con quella terra e tra i suoi abitanti, dissipare conoscenze e abilità, imporre regimi di dominio, indebitamento, dipendenza e scarsità. E per poterlo fare è necessario privare di soggettività gli esseri, rendendoli inerti, inferiori o morti, affinché rispondano alle sole logiche di mercato (merci e manodopera). Nel genocidio della popolazione bandanese, perpetrato dagli olandesi all’inizio del Seicento, come in tante situazioni analoghe, è andata distrutta la preziosa relazione di “parentela” con quella terra.
Il colonialismo, per Ghosh, è infatti “soggiogare e ridurre al mutismo un intero universo di esseri che un tempo si pensava avessero agentività, potere di comunicazione e capacità di dare significato: animali, alberi, vulcani, noce moscata”[7] e cita Ben Ehrenreich, che ha osservato che “solo una volta che abbiamo immaginato il mondo morto, potremmo dedicarci a renderlo tale”.
Questo introduce il secondo livello di lettura del testo. Al di là del ristabilire la verità storica di alcune vicende che ci hanno condotto sin qui (dall’approdo ai “Nuovi Mondi” all’apertura di rotte commerciali attraverso l’Oceano Indiano), la preoccupazione di Ghosh è quella di affrontare il collasso degli ecosistemi planetari e della sopravvivenza dei loro abitanti. La priorità è ritornare a interagire con la Terra come essere vivente da ascoltare, comprendere e rispettare, su cui radicare le epistemologie: “I popoli indigeni delle Americhe hanno detto per decenni che il loro passato è il nostro futuro ed è esattamente quello che si sta verificando ora”.
Come Tsing, Ghosh fa una delle operazioni più essenziali del momento: fare luce sulle ecologie “oscure”, quelle del non-visto, del reale ma ignorato. È questa tensione tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, o meglio tra ciò che viene mostrato e ciò che resta occultato, a spostare la percezione sulle perturbazioni intricate che si srotolano tra specie diverse e nello spazio-tempo, in modi che disturbano il nostro senso di linearità, di direzionalità causa-effetto, di distanza, di separazione dai complessi fenomeni che derivano dall’essere immersi nella biosfera.
Ma fare luce non basta, è tempo di immaginare e percorrere altri sentieri. Che cosa abbiamo perso oscurando la vitalità del nonumano? Attraverso quale lavoro collettivo possiamo rivitalizzare il nostro rapporto con il pianeta? Ed ecco che Ghosh ritorna, come ne La grande cecità, sulla centralità della narrazione, perché la saggezza tradizionale di “gestione della terra”, esiste nel contesto del racconto, nel contesto dei canti. Ma non solo di voce umana si deve raccontare, non solo l’umano è senziente e non solo l’umano ha capacità di dare senso.
Una chiave, dice Ghosh, è quella di spostare la narrazione dall’umano e ricentrarla sulle storie della terra, dei luoghi e degli esseri visibili e non-visibili che vi dimorano, sentono, comunicano, agiscono costruendo mondo assieme a noi [8]. Riconoscere che la Terra è viva, riconoscere la necessità di riguadagnare la capacità di ascoltare il nonumano e di esprimerlo attraverso le storie. Dovrebbe essere un processo in cui gli esseri umani possono “essere nuovamente assimilati nei paesaggi”, come lo sono stati per migliaia di anni e lo sono tutt’ora altrove.
Ed proprio su questo generativo “paesaggificarsi”, sul fare (e narrare) “territà” che si incentra l’ultimo saggio di Matteo Meschiari Landness [9]: una ricomposizione con la nostra antropologia primaria di Sapiens. La Terra va ri-pensata e ri-membrata, e noi in lei, seguendo i passi di chi “ha potuto sperimentare la potenza eversiva della landness” e assumersene una responsabilità politica. Figure come Élisée Reclus, Pëtr Kropotkin, Mosè Bertoni, geografi anarchici dell’Ottocento, e più recenti “scrittori della Terra” come James Kilgo, Lorand Gaspar e Kenneth White, seguendo linee ecotonali tra i saperi e la vita, sulle quali cammina lo stesso Meschiari, possono raccontare molto e vicariare altrettanto per rimappare dai bordi e alimentare un “ritorno quasi biologico della speranza”.
Note
[2] Già con la sua Trilogia dell’Ibis – Mare di papaveri del 2008, Il fiume dell’oppio del 2011 e Diluvio di fuoco del 2015, tutti per Neri Pozza – Ghosh aveva seguito le vicende del papavero da oppio e il suo impatto nel trasfigurare il mondo.
[3] Günter Grass, Il rombo, Giulio Einaudi, 1999
[4] Per farsi un’idea della storia del pepe nero, un recente articolo ne fa una buona sintesi http://www.storiain.net/storia/loro-nero-doriente/
[5] Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller Editore, 2021
[6] Amitav Ghosh, La grande cecità, BEAT, 2019, p. 177
[8] Vale la pena citare Il sussurro del mondo di Richard Powers, La nave di Teseo, 2019
[9] Matteo Meschiari, Landness. Una storia geoanarchica, Meltemi 2022
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