Oggi in Spagna si torna alle urne. Il voto di dicembre, appena sei mesi fa, ha generato una situazione di stallo, le quattro forze politiche che si contendono il governo non hanno trovato un accordo. Non c’è stato verso. Fra loro c’è anche Podemos, che questa volta corre con quel che resta di Izquierda Unida. Strano, perché meno di un anno fa, prima del voto, Pablo Iglesias aveva detto: “Si tengano le bandiere rosse e ci lascino in pace. Io voglio vincere”. A dicembre non ha vinto, pur avendo ottenuto un gran risultato. Dal lontano Messico Gustavo Esteva era stato caustico. “Iglesias ha vinto quel che ha vinto: il sacro diritto a sgomitare. Non si tratta di cinismo, è la realtà del gioco elettorale: per vincere è indispensabile vendere l’anima, una volta arrivati in cima non è consentito tenersela. E’ per questo che la lotta è altrove”. “Ma come?”, dice oggi con sincera esasperazione un nostro amico lettore: “Posso capire che non vi entusiasmi la creatura di Grillo e Casaleggio ma perché non vi va bene nemmeno Podemos? Allora, ditelo! Ditelo che non vi piace niente!”. Non è vero. Qualche giorno fa, un altro nostro amico, Amador Fernández-Savater, ci ha mandato un dossier dedicato a pensare il “comune” in spazi complessi realizzato da Alexia. Già a partire dal nome, che sta lì ad indicare una lesione cerebrale che provoca la perdita parziale o totale della capacità di leggere e scrivere, Alexia s’interroga in modo straordinario sul senso di quel che la galassia dei mezzi di comunicazione del nostro tipo potrebbe o dovrebbe inventare per raccontare i mondi nuovi che si affacciano o esistono in potenza. Sono le bandiere rosse, per dirla con Iglesias, che vorremmo tenerci strette. Quella che segue è la prima parte del dossier, la Spagna che ci piace e oggi non vincerà ma inventa nuove relazioni sociali ogni giorno, un regalo prezioso dedicato ai nostri lettori più curiosi e pazienti, a quelli esasperati e a quelli più convinti di dover lottare per riprendersi la politica
di Amador Fernández-Savater
Ci sono spazi che sono microcosmi, vale a dire, mondi su scala ridotta. Lì troviamo, in forma concentrata, i problemi e le sfide di un’epoca. A Madrid ce ne sono due, la Tabacalera e il Campo de Cebada, posti giusti da dove pensare il mondo.
La storica rivendicazione verso l’amministrazione affinché cedesse l’antica fabbrica di tabacco del quartiere Lavapiés alle reti sociali e di prossimità, ha finalmente trovato un’eco positiva nel 2010. Così, si è dato avvio al progetto de La Tabacalera, l’autogestione, né più né meno, di 9mila metri di edificio, abitati e attraversati ogni giorno da innumerevoli forme di vita: skaters, trapezisti e artisti di palcoscenico, vicine, migranti con o senza documenti, persone senza casa, attivisti vecchi e nuovi, ecc.
Qualche tempo dopo viene aperto il Campo de Cebada (Campo d’Orzo, ndt). Si tratta della cavità lasciata dalla demolizione della vecchia piscina di La Latina e che l’amministrazione municipale del Partido Popular ha ceduto alla gestione cittadina. A differenza de La Tabacalera, il Campo de Cebada è uno spazio all’aperto, però, allo stesso modo, fa dell’apertura il suo segno distintivo. Hipsters, bengalesi che vendono birra, musicisti, ragazzi pazzi per il basket, giardiniere, spacciatori, architetti-attivisti … Mille diverse tribù abitano la Cebada come luogo d’incontro, socializzazione e attività non mediata dal consumo, dalla polizia o dalla burocrazia istituzionale.
Questo impegno radicale a favore dell’apertura spiega due delle più grandi sfide che entrambi i progetti affrontano: la convivenza tra modi di vita molto eterogenei e il processo decisionale per le incombenze quotidiane. Come si governano da sé gli spazi plurali e complessi, senza ricorrere ad alcuna autorità centrale? Come possono convivere pratiche, consuetudini e forme di vita molto diverse senza respingersi? Quello che succede in questi luoghi, sia i loro successi così come i loro fallimenti, può interessare e interpellare chiunque si ponga queste domande per ciò che è in comune.
Nell’estate del 2015, Alexia ha organizzato una conversazione tra entrambe le esperienze, con persone che vivono o hanno fatto vissuto uno dei due progetti. Il dossier che si può leggere di seguito, raccoglie i materiali di questi incontri e altri testi elaborati successivamente, cercando di concludere quanto era rimasto aperto. Questo dossier è una scommessa per fare dell’esperienza, una memoria utile e ispiratrice. Una scommessa per pensare il cosmo a partire dai microcosmi.
Il Campo de Cebada: radiografia di un essere vivo. Conversazione con Flavia Totoro (I)
Nel quartiere La Latina di Madrid c’è una recinzione che circonda, dal 2009, l’enorme buca lasciata dagli escavatori nella demolizione di una piscina coperta e di una polisportiva comunale. Il piano urbanistico che si voleva realizzare non è mai stato portato a termine per mancanza di soldi. E, con il tempo e lo sforzo di molti residenti, questa cavità si è trasformata in una delle piazze più vive di Madrid.
Se si attraversa la porta e si scende la rampa, si possono vedere ragazzi che giocano a basket, un cinema in estate, gruppi che ascoltano musica, vicini che portano a passeggio il cane, bengalesi che vendono birra o vecinos (gente del quartiere, ndt), come Flavia Totoro, che curano il giardino.
Se si va alla pagina Facebook del Campo de Cebada, si vede una sua foto che dice: Flavia è per la Cebada, quello che l’acqua è per un orto, è la maggiore sostenitrice, la presidenta, la custode, l’amministratrice, l’ispiratrice, l’amica, la mediatrice, la ballerina di flamenco, la pittrice.
Conversiamo con lei perché ci dia i primi accenni su come è sorto il Campo de Cebada e su come oggi funziona.
Pepe: Come ha avuto inizio il Campo de Cebada?
Flavia: Il Campo di Cebada è iniziato cinque anni fa. In questo spazio c’erano un impianto polisportivo e una piscina, ma li hanno rimossi ed è rimasta una buca. È stato chiesto di organizzare un’attività durante la Notte Bianca: è andata benissimo e allora i residenti hanno visto che si potevano organizzare cose simili. A partire da questo, si è formato un gruppo che ha fatto richiesta dello spazio al municipio, che è stato ceduto ai residenti attraverso l’associazione AVECLA (Asociación de Vecinos de Centro-La Latina). In seguito, AVECLA si è distaccata dalla responsabilità del Campo e quindi è stato necessario costituire la Asociación Cultural Campo de Cebada, per essere rappresentati di fronte all’amministrazione comunale.
Al momento della cessione, è stata data una somma di denaro per la costruzione di alcune cose di base, come il campo da basket, l’orto, un container per riporre gli attrezzi … E così è iniziato il Campo de Cebada, con un gruppo caotico di persone che scendeva a fare delle cose e associazioni, come Zuloark, che pure hanno voluto partecipare. È coinciso anche con il periodo del 15M, molte delle sue attività si sono svolte al Campo, così come eventi come il Piscinazo, con la rivendicazione, che ancora sosteniamo, che ri-costruiscano il polisportivo che veniva utilizzato da molti residenti.
Pepe: Com’è la quotidianità nel Campo de Cebada?
Flavia: Il Campo è un essere vivo. Non c’è una routine molto precisa. Cerchiamo di fare in modo che il Campo sia aperto ogni giorno, dalle undici o dodici del mattino fino alle dieci e mezza o undici della sera. Se c’è bel tempo, la gente scende, ma se la giornata è piovosa non scenderà nessuno. La domenica ci sono più persone che vengono da fuori, turisti che passano di qua e che si fermano. Dipende molto, anche se di solito c’è sempre gente.
Pepe: Che tipo di persone partecipano al Campo de Cebada?
Flavia: C’è di tutto. Per scendere, scendono tutti, ma non tutti hanno sempre partecipato alla sua gestione. Quelli che se ne occupavano di più erano quelli dell’orto, quelli che portavano il problema logistico e i Cantamañanas, che sono quelli che cantano alla domenica … Altre persone che lo utilizzano, come il padre che porta giù i bambini, i ragazzi del basket o quello che scende a fumare ogni giorno, hanno cominciato a occuparsene a poco a poco, e questo è stato fondamentale. Non so se si stava avendo un problema di comunicazione ma ci tenevamo, per esempio, che le persone non sporcassero: non sapevano come funzionava, credevano che dipendesse dal Municipio, ecc.
Questo cambiamento è stato importante perché adesso sono i ragazzi che spargono la voce, alle persone più giovani o che sono più apatiche, spiegando in cosa consiste questo spazio. Hanno capito che anche loro possono prendere la chiave e in modo responsabile chiudono e aprono; dicono “Questo è nostro, guarda, domani vado ad aprire io” e si danno importanza davanti al gruppo. È importante dare responsabilità alle persone. E non hanno motivo di presenziare sempre, fisicamente, all’assemblea. Attraverso whatsapp possono accordarsi su chi chiude, chi apre; questo tipo di comunicazione ha reso i ragazzi più partecipi.
Pepe: Come si gestisce il Campo?
Flavia: È uno spazio completamente autogestito da un numero molto ridotto di persone, in rapporto alle caratteristiche di questo luogo, nel centro di Madrid, e al numero di persone che passa da qui. In estate, il rapporto tra la gente che passa da qui rispetto alle persone che partecipano abitualmente è molto più alto e alle volte diventa più complicato. Di persone attive costantemente, nel Campo, siamo cinque o sei.
Pepe: Qual è il ruolo dell’assemblea?
Flavia: L’ assemblea del lunedì è importante perché lì si gestiscono alcune cose di base sull’utilizzo dello spazio e ci mettiamo in contatto tra noi per dire “ehi, dammi una mano nell’orto”, “organizziamo una giornata di pulizie perché è uno schifo” o “quanto è bello, quanto siamo bravi”. È quel momento in cui ti puoi vedere con altre persone, ma l’assemblea non è il gruppo di persone che decide “domani si apre, domani si chiude”, ossia non è una struttura che funziona con una gerarchia, non è il Capitano del Campo. L’assemblea è importante, ma non fondamentale per l’esistenza del Campo. Quello che è fondamentale sono le persone, quelli che lo utilizzano, anche fregandosene completamente dell’assemblea.
Amador: Si dice che la composizione del Campo sia cambiata, che all’inizio c’era un gruppo più ampio di attivisti e che questo è andato scomparendo mentre adesso vengono più persone alle quali non importa molto della politica. È così’ ?
Flavia: Sì, perché l’apertura ha coinciso con il 15M, tutta una rivoluzione nella città, di pensiero, del fare, e il Campo era visto come lo spazio fisico di rivendicazione. Ma in seguito molte persone si sono indirizzate verso attività con un impatto sociale più forte, come può essere la PAH.
E poi, nel Campo, c’è anche un gruppo importante, come ad esempio i ragazzi del basket, che non sono attivisti, anche se io li ritengo attivisti dal punto di vista sociale perché sono lì e fanno delle cose. Però questo gruppo, se arriva Red Bull e gli chiede il Campo, non hanno nessun problema a cederlo e sono entusiasti della vita sia che gli sistemano il campo o che gli danno dei soldi. Non c’è in loro un interrogativo etico di fronte a questo mentre invece c’è un altro gruppo di persone che pone dei veti a questo tipo di attività.
Per questo, ho sempre detto che è importante non lasciare che il Campo vada alla deriva, perché è un posto socialmente importante, anche se non si può politicizzare come si vorrebbe.
Quando la Red Bull ha proposto di fare un torneo di basket alla Cebada, si è tenuta un’assemblea e c’erano molte persone che non volevano, con molto rispetto si sono scambiate argomentazioni e, alla fine, si è deciso che non si sarebbe fatto. Io sono d’accordo perché credo che bisogna aver cura degli spazi, perché altrimenti vengono assorbiti da questi grandi marchi che se ne appropriano.
Pepe: Abbiamo sentito che il Campo de Cebada è un pezzo di strada: se è così, in che senso pensi che lo sia?
Flavia: Una cosa che lo differenzia da altri spazi è che si trova all’aperto ed è trasparente. Non ci sono luoghi chiusi, non ci sono sale. È strada quando la porta è aperta, ma smette di essere strada quando si chiude la porta. È strada perché nessuno osserva con cosa entri, con cosa esci e cosa porti. È strada nel senso del movimento, ma non è strada perché ha un orario, una recinzione e un lucchetto.
Come si misura La Felicità Interna Lorda di uno spazio? Conversazione con Flavia Totoro (II)
Dopo aver fatto un giro attorno ai diversi problemi, domande e sguardi relativi al Campo di Cebada e della Tabacalera, continuiamo la conversazione con Flavia Totoro, pittrice e abitante del Campo, perché ci parli degli elementi che sostengono uno spazio così, le ragioni per cui una persona come lei è ancora coinvolta, il ruolo del giardino, i rapporti con il comune e la ricerca della formula per raggiungere un più alto tasso di Felicità Interna Lorda.
Pepe: Alle volte ci fissiamo sui problemi e non sulle cose buone che fanno sì che qualcosa duri. Se tutto fosse costituito solo da problemi, non ci sarebbe nulla che durerebbe. Perché pensi che il Campo possa continuare a durare e perché continui ad andarci, dopo tanto tempo?
Flavia: So che alle volte si vivono momenti difficili e non sempre si è felici quando si va al Campo, però sento che è un modo diverso di fare quartiere. Io lavoro sola in casa e per me è importante avere un luogo dove scendere, rasserenarmi, curare le piante, prendere il sole e bere una birra, parlando con amici. E non si tratta della piazza-strada, come può essere Los Carros. Il quartiere è pieno di terrazze e di bar, però deve avere qualcosa in più. Non è la stessa sensazione. Nel Campo, sento che è anche un pochino mio, è un posto dove partecipo, è la mia seconda casa. Inoltre, per me rappresenta quello che io ritengo dovrebbe essere un quartiere. Altrimenti, dovrei scendere sola, con il cane, a Las Vistillas, sedermi e tornare a casa.
E perché continuo a insistere quando, alle volte, voglio buttare via tutto e mi viene voglia di piangere quando vedo che è tutto una merda? Perché credo che l’insistenza della formichina giorno dopo giorno, lo scendere, il guardare le piante, raccogliere le quattro lattine che trovi, la gente che vede che tu fai delle cose: questo, crea nelle persone un’attitudine diversa, l’ho verificato. Penso che questo piccolo lavoro è rivoluzionario, è iniziare dal piccolo, il tuo quartiere, perché il quartiere sia diverso.
Pepe: Quale ruolo hanno i diversi spazi, i gruppi che li utilizzano, affinché il Campo rimanga vivo? Ad esempio, l’orto, il campo di basket, lo schermo del cinema …
Flavia: Gli interessi sono diversi a seconda dello spazio che uno usa di più, anche se si muove attraverso vari spazi. Per me è il giardino, anche se, ad esempio, posso pure sedermi sui gradini ad ascoltare un concerto. Per i ragazzi, è l’angolo dove si riuniscono con il loro gruppo e si fumano i loro spinelli; per quelli del basket, è il campo. È il luogo in cui vai e ti dici “questo è il mio”, perché ti è più affine.
Amador: Quanta gente c’è nel giardino?
Flavia: In modo costante, siamo due persone, però se tu chiami perché c’è l’urgenza di fare qualcosa, vengono altre otto persone. Tutti partecipano, ma è necessario che ci siano alcune persone in maniera costante, che si incarichino di irrigare, di concimare.
Tira e molla con il Municipio
Pepe: Come sono stati gli ultimi mesi nel Campo?
Flavia: Sta andando in maniera fenomenale, sono impressionata, e io lo attribuisco ai ragazzi che sono molto più coinvolti. Anche il passaggio dall’orto al giardino ci ha alleggeriti molto, noi e lo spazio. Ci si deve adattare alle esigenze, non si può imporre. Inoltre, nei mesi autunnali e invernali, quelli che ci fermiamo lì, siamo i più costanti. Sono mesi con molta armonia.
Dall’altro lato, dall’estate abbiamo avuto due o tre riunioni con il Comune.
Amador: È cambiato il rapporto con la nuova amministrazione?
Flavia: Anche prima ci ricevevano, nelle stesse sale, ma la verità è che non si procede proprio e di questo siamo un po’ stufi. Sappiamo che è la lentezza dei procedimenti, che il Comune deve affrontare migliaia di altre cose prima di questi problemi, però ci sono tante parole e pochi fatti che, per noi, sono fondamentali e per l’amministrazione comunale non costituirebbero un grosso problema. Ma è tutto questo protocollo burocratico che rende impossibile che le cose si facciano. Per fare un esempio, qualcosa che stiamo chiedendo da anni e adesso con più insistenza, sono i cassonetti per la raccolta della spazzatura, un cassonetto giallo, un cassonetto blu, uno per le lattine, cassonetti grigi per poter mettere la spazzatura perché se la metti nei sacchetti non la raccolgono e ti fanno la multa. E ancora è impossibile. Arriva un ispettore, guarda e dice “qui no, perché il camion non può salire”. C’è un sacco di piccoli dettagli che rendono impossibile una cosa che è tanto semplice, che non richiede soldi. E non chiediamo che scendano gli operatori ecologici, vogliamo spazzare noi, però chiediamo delle scope, e questo è ancora impossibile.
Un altro esempio: siamo collegati alla luce e all’acqua. Prima o poi ci può arrivare una multa o avere un problema ma il municipio dice “usateli, se non c’è problema”; questo però non va bene. Se dobbiamo mettere un contatore e pagare una certa somma una volta l’anno allora ci arrangeremo, faremo una festa e troveremo il denaro, ma non vogliamo questa situazione.
Armonia tra diversi
Flavia: Un’ultima cosa, prima di chiudere. Ieri su You Tube ho visto un video dove si cercava di misurare la Felicità Interna Lorda di un paese. Non è facile. Ci sono certi aspetti che devono essere risolti: la salute, l’educazione, quello che è alla base di una società, che non significa che si avranno persone felici, però bisogna iniziare da lì.
Il Campo è un po’ così, è molto difficile da capire, valutare perché funziona ancora, perché è da cinque anni che c’è la “buca” ed è ancora un piacere stare lì. Ed è perché ci sono certi aspetti che, per fortuna, si adattano bene tra di loro. Magari, ad un certo punto, si potrà fare una specie di guida su come conseguire la felicità in spazi come il Campo, una formula. È molto complicato però, magari, si possono vedere quali sono le cose che assieme confluiscono affinché uno spazio possa avere il rispetto e il livello di vita che ha il Campo.
Amador: E quali sarebbero, secondo te, questi aspetti?
Flavia: Per me è fondamentale la volontà di rispetto, di ascoltarsi. Non voler imporre qualcosa, bensì ascoltare lo spazio e le persone che hai attorno. E la volontà di continuare a credere che quel piccolo gesto, quella piccola abitudine quotidiana di andare, di raccogliere quattro lattine, di pulire, genera un cambiamento. E se non credessi in questo, non ci andrei mai più. Che raccolgano loro, la loro merda.
Amador: La felicità dello spazio, secondo te, passa attraverso questo ascolto o attraverso più cose?
Flavia: E attraverso questo rispetto: perché c’è un gruppo nel suo angolo che ascolta la sua musica e che si fuma il suo spinello e c’è un altro ragazzo che gioca a basket e la palla cade di lato e non succede nulla. E poi ci sono altri che suonano la chitarra, io che lavoro nel giardino, e arriva uno e mi dà una mano. E c’è un’armonia che funziona. Un’armonia tra diverse età, diversi gusti, diverse abitudini. Anche quando ci sono attività, che siano i Cantamañanas, un teatro o il circo: ci sono persone che stanno lì, mentre ci sono pure altre persone che fanno qualcos’altro. E pensano in modo diverso. Non c’è necessità di conformarsi, non c’è necessità di pensare allo stesso modo.
Per gentile concessione di Alexia
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
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