Lo sforzo poco visibile di tante associazioni, gruppi di studio, persone comuni, comitati e organizzazioni politiche ha consentito negli anni la maturazione in Sardegna di una consapevolezza diffusa contro le servitù e le esercitazioni militari nell’isola. Oggi quella consapevolezza è più alta che in passato, del resto i danni ambientali e sulla salute delle persone sono enormi. “Dopo settant’anni e passa di asservimento militare della Sardegna, è lecito pretendere che esso sia messo radicalmente, pubblicamente e democraticamente in discussione. Sia per ciò che rappresenta, sia perché il mondo ci manda ormai chiari segnali della necessità storica di mutare drasticamente i nostri paradigmi produttivi, di consumo, sociali e dunque anche giuridici e politici…”. Un documento (firmato, tra gli altri, da Wu Ming e Michela Murgia) e un appuntamento
Si torna a manifestare sabato 12 ottobre a Capo Frasca (Cagliari) contro le servitù e le esercitazioni militari in Sardegna. Di seguito, un documento sottoscritto da uomini e donne di cultura e di spettacolo, tra cui Michela Murgia e Wu Ming.
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In Sardegna è ubicata la maggior parte del territorio italiano sottoposto ad attività militari. Sono decine di migliaia di ettari, in terra e in mare, su cui, tutti gli anni, da più di settant’anni, vengono svolte esercitazioni e sperimentazioni di vario tipo. Decine di migliaia di ettari sottratti all’uso civile, alle attività economiche e alle comunità locali per molti mesi all’anno e in certi casi permanentemente.
Nessuno ha mai chiesto il permesso o il consenso di chi in Sardegna vive, lavora, produce, ha i propri interessi e i propri affetti. Mai, né in passato, né oggi. La Sardegna è stata trattata come una pedina di scambio, un mero oggetto storico, nel grande gioco delle relazioni di potere della geo-politica, senza alcun riguardo per la sua popolazione, la sua storia, la sua bellezza.
Le servitù militari in Sardegna servono a tenere in esercizio le forze armate italiane e dei paesi alleati (NATO in primis), e non solo. Ma soprattutto sono una condizione necessaria al giro di affari che l’industria degli armamenti muove da sempre. Per altro le aree sarde adibite a sperimentazioni belliche sono affittate dal ministero della Difesa italiano anche ad aziende private, non necessariamente legate all’apparato militare e non necessariamente italiane. Un giro di soldi impressionante, che ha in Sardegna solo la sede operativa, ma per tutto il resto fa capo al ministero e al Governo. Nell’isola arrivano, quando arrivano, le briciole, sotto forma di “compensazioni”, “indennizzi”, usati per lo più come strumento di persuasione e di controllo sociale.
Le popolazioni locali sono state persuase che le attività militari sono la loro unica possibile fonte di reddito in quello che altrimenti sarebbe un deserto. Questo non è vero. Esistono le alternative. La nostra terra stessa ci offre mille opportunità diverse dalle esplosioni, dalle esercitazioni, dai test di materiali pericolosi, dalle polveri velenose e dalle conseguenze che esse hanno sulla natura e sulla salute umana.
I problemi ambientali e sanitari causati dalle attività militari in Sardegna sono emersi solo in parte e solo negli ultimi anni, grazie all’opera tenace di associazioni e comitati, spesso isolati e ignorati, e infine anche tramite le inchieste della magistratura.
Quel che sta emergendo basta a considerarlo un disastro di proporzioni storiche. Di cui in tanti hanno pagato e stanno pagando le conseguenze. Ma sono reali e tangibili anche le conseguenze negative sul tessuto sociale locale, vincolato alla monocoltura della guerra. Un tessuto sociale reso fragile e precario, esposto a interessi e volontà su cui le comunità interessate non hanno alcun controllo. E sono reali e tangibili le conseguenze sul tessuto culturale dell’intera isola, dato l’impatto molto forte del militarismo, già a partire dalla scuola, sull’immaginario, le aspettative e la visione del mondo dei sardi. Le servitù militari hanno dunque un loro peso concreto, di indole sociale e ambientale, ma ne hanno anche uno politico, morale e simbolico.
La Sardegna, che non è in guerra con nessuno, deve ospitare la guerra sul suo suolo, nei suoi cieli e nei suoi mari per intere stagioni ogni anno. Partecipa dunque, sia pure passivamente, alla grande industria della morte, spesso come tappa decisiva di operazioni belliche che poi si dispiegano, con tutta la loro portata devastatrice, su altre terre e su altri popoli.
Senza dimenticare che in Sardegna si assemblano ordigni che poi vengono venduti a stati belligeranti, in contrasto esplicito con la stessa legislazione italiana.
I governi, la NATO, le grandi aziende che guadagnano dall’industria bellica hanno senz’altro il loro interesse a usare la Sardegna in questo modo. Possiamo arrivare a comprendere – in un’ottica geopolitica – le esigenze di alleanze internazionali e di convenienza che spingono lo Stato italiano a mettere a disposizione la Sardegna per tali attività, a cui l’Italia stessa prende parte. Possiamo comprendere questa logica, ma non dobbiamo per forza accettarla. La prospettiva geopolitica non può comprimere e annullare i diritti civili e umani, né prevalere sulla democrazia, sulla salute dei cittadini e sull’equilibrio ecologico.
Ribadiamolo: nessuno ha mai chiesto il permesso e nemmeno il parere dei sardi in proposito. Dopo settant’anni e passa di asservimento militare della Sardegna, è lecito pretendere che esso sia messo radicalmente, pubblicamente e democraticamente in discussione. Sia per ciò che rappresenta, sia perché il mondo ci manda ormai chiari segnali della necessità storica di mutare drasticamente i nostri paradigmi produttivi, di consumo, sociali e dunque anche giuridici e politici.
Il modello economico dominante, votato al profitto privato, alla competizione sfrenata, all’individualismo e alla legge del più forte, incurante di qualsiasi conseguenza sulle persone, su interi popoli, sul pianeta medesimo, ha negli apparati militari delle grandi e medie potenze un suo elemento costitutivo. Si può e si deve discutere dell’asservimento militare della Sardegna anche dentro questa cornice più ampia, non più eludibile.
Appellarsi alla politica istituzionale non basta. Serve un’assunzione di responsabilità collettiva, a partire da chi ha più strumenti per comprendere quel che accade.
È del tutto inutile, come sappiamo per esperienza, affidarsi all’azione di controllo e di interlocuzione della politica sarda. Tale azione non è mai stata realmente esercitata. Non sistematicamente, né con l’attenzione e la severità necessarie.
La politica italiana, dal canto suo, ha ben poco interesse per la Sardegna, che costituisce una porzione lontana e marginale del territorio statale e rappresenta meno del 3% della popolazione. Dobbiamo essere coscienti di questa realtà, per spiacevole che appaia ai nostri occhi.
Come sardi, in qualità di cittadini di uno stato formalmente democratico e di un’Unione Europea formata da stati anch’essi nominalmente democratici, non possiamo né dobbiamo continuare ad accettare questa situazione passivamente. Dobbiamo fare in modo che essa sia conosciuta e riconosciuta come un problema di democrazia, di giustizia e di salvaguardia ambientale dalle opinioni pubbliche di tutto il continente e anche oltre lo spazio europeo.
Dobbiamo pretendere di sapere quel che si fa sul territorio sardo, di avere voce in capitolo in questa come in altre questioni fondamentali e di vedere riparati i danni ambientali e materiali causati dalle attività militari (laddove ancora possibile).
Non è una pretesa esosa. È una pretesa democratica. Da rivendicare davanti allo Stato italiano e alla comunità internazionale, in tutte le sedi. È il minimo che possiamo fare per cercare di recuperare voce in capitolo sulla nostra sorte collettiva, oltre che una dose accettabile di dignità. Non si tratta di sostenere posizioni ideologiche o di alimentare retoriche politiche di parte. Non è nemmeno una questione di rivendicazioni localiste. Si tratta semplicemente di una situazione intollerabile, ingiusta, anti-democratica e pericolosa, che deve finire al più presto.
La Sardegna ha bisogno di una democrazia compiuta e pienamente dispiegata. Ha diritto a decidere con piena competenza sulle partite strategiche che la riguardano. Ha diritto alla pace. Ha diritto a un’economia sana, non assistita, non asservita a interessi costituiti esterni.
Chi abita e vive la Sardegna ha diritto di poter usufruire collettivamente delle proprie risorse e del proprio territorio, liberamente e in relazione proficua e solidale con i popoli e i territori vicini. Ha diritto alla salute, ossia, prima ancora che alle cure, a vivere in modo sano.
Tutto ciò è incompatibile col perdurante asservimento militare di ampie porzioni di territorio sardo.
La mobilitazione permanente di tante associazioni, gruppi di studio, comitati e organizzazioni politiche interessate al tema ha consentito negli anni la maturazione di una sensibilità diffusa in merito a questo problema. Oggi è più alta che in passato.
Oggi sono meno efficaci le argomentazioni con cui i vertici militari italiani e la politica, sia italiana sia sarda, giustificano questo stato di cose insopportabile. Oggi è il momento di dare loro un segnale forte. Un segnale libero, dignitoso, pacificamente intransigente, democratico, collettivo. Riappropriamoci del nostro status di cittadini e rigettiamo quello di sudditi.
Ribadiamo la nostra ferma opposizione all’uso bellico del territorio sardo e alle sue nefaste conseguenze. A partire dalla manifestazione in programma il 12 ottobre 2019, presso il Poligono di Capo Frasca.
Così come abbiamo già fatto con la grande mobilitazione del 13 settembre 2014, a cui presero parte migliaia e migliaia di sardi, militanti, organizzazioni, singoli, famiglie, anziani, bambini.
Poniamoci come obiettivo una Sardegna che sia terra di pace, di accoglienza, di democrazia, di bellezza e di benessere diffuso.
Facciamolo insieme. Per l’oggi e per il domani.
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