Chi ci governa, intimandoci di restare in casa, sposta sul piano individuale la responsabilità di anni di tagli al sociale, ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, alla sanità e all’istruzione pubblica. Nel farlo, poi, si guarda bene dal pensare a chi da una casa deve scappare per non essere massacrata di botte o a chi una casa non ce l’ha, oppure a chi viene ammazzato in mare mentre è alla disperata ricerca di una casa dove stare. Perché continuare a perseguire soluzioni che permettono esclusivamente di correggere delle ingiustizie, di rattoppare un sistema non più migliorabile? Potremmo invece, finalmente, lasciare che i pilastri su cui poggia l’intera organizzazione simbolica e materiale del sistema patriarcale capitalistico crollino. Abbiamo l’opportunità di cambiare rotta, di immaginare un cambiamento in profondità, se ricominciamo ad avere fiducia che ciò possa avvenire. E possiamo ispirarci alla spudoratezza del pensiero femminista. Mutuando uno slogan in difesa della Casa Internazionale delle Donne, possiamo dire che “il debito non lo paghiamo perché noi donne siamo in credito”. Possiamo, ancora una volta, rendere esemplare un’esperienza femminista e dire, per esempio, che il grande inganno del debito per uscire dal baratro economico finanziario alle porte non lo accettiamo
Il 25 febbraio 2020 una partecipata assemblea ha dichiarato pubblicamente che la città non avrebbe perso la casa delle donne Lucha y Siesta. Da lì un presidio permanente ha mantenuto viva la casa. E poi un elemento imprevedibile. Una pandemia. Come nelle migliori distopie. Il mondo conosciuto fino ad oggi cambia, quasi va in pezzi ma la Lucha ancora non si spegne. Si rimodula, nel migliore dei modi possibili si adatta al cambiamento imposto, per mettere e metterci in sicurezza dal contagio; i corpi si allontanano ma continuano ad esserci, sebbene tutt’attorno e dentro di noi si sgretolino le certezze, i punti di riferimento, cambi la quotidianità e con essa la percezione di sé stesse e degli altri, mutino le relazioni.
Il presente diventa poco sopportabile e l’orizzonte futuro, con tutti i progetti che ad esso si accompagnano, si spinge ogni giorno un po’ più in là. Persino il potere taumaturgico dei nostri medici sembra essere spazzato via; i ripetuti tagli inferti alla sanità pubblica da tutti i colori politici nel corso di decenni hanno trasformato i presidi ospedalieri in epicentri del contagio, non abbiamo sufficienti ospedali, attrezzature, protezioni e personale. A Roma ci arrivano gli echi di una Lombardia spettrale. Cosa succederà, ci chiediamo; quanto durerà, e se tutto questo finirà, come ci auguriamo, che ne sarà di noi, delle nostre vite già precarie? Persone a noi vicine soffrono, alcune se ne vanno.
Una non troppo sottile ansia ci pervade.
E non solo perché la pandemia ci sottopone a un costante confronto con il nostro più grande rimosso, la morte, che se così non fosse, rimossa, renderebbe insopportabile il vivere quotidiano, ma anche perché ci pone davanti agli occhi la possibile fine dell’intera organizzazione economica, politica sociale e culturale che conosciamo su scala globale. Il possibile totale collasso del paradigma su cui si fondano le nostre vite, anche di chi, come noi, lo ha costantemente messo in discussione, denunciandone la profonda e violenta ingiustizia.
Di fronte a tale prospettiva si apre un vuoto.
Eppure in questo vuoto c’è una grande opportunità, che, se chiudiamo gli occhi, è quasi possibile scorgere, oltre la preoccupazione e la disperazione dell’oggi, oltre le misure intermedie che ci serviranno nel breve e medio periodo per sopravvivere, un’opportunità di profondo cambiamento.
Qualche mese fa capeggiava sui palazzi cileni una frase “no volveremos a la normalidad porqué la normalidad era el problema”, il movimento popolare cileno da mesi lotta contro le politiche neoliberiste del presidente Pinera e ora, nel marzo del 2020, un’emergenza sanitaria sta mostrando chiaramente a tutto il mondo il senso di quella frase. Le profonde contraddizioni di quel paradigma, così tanto pervasivo e incorporato da ciascuna e ciascuno di noi che è quasi impossibile immaginare un altro mondo al di fuori di esso.
Un paradigma che ha ridotto le nostre esistenze a variabili economiche, che ci fa “spendere” il tempo invece che godercelo, che ha al suo centro, come divinità apicale del pantheon, il Profitto, nel cui nome sono state rese schiave intere popolazioni, si sono eretti muri, compiuti genocidi, saccheggiate e depredate le terre di ogni risorsa così da distruggere la biodiversità e causare disastri ambientali senza precedenti; in suo nome si è considerato tutto ciò che è pubblico e sociale una “spesa” e non un investimento. Una forma di potere economico che da secoli ha riprodotto l’organizzazione sociale e l’impostazione culturale del patriarcato che da millenni pone la donna in una posizione subordinata, perpetuando un sistema di dominio che opprime tutti i generi non riconducibili al maschile.
La spudoratezza del pensiero femminista, in continua liberazione da assolutismi e naturalizzazioni, ha fatto luce sul rapporto strutturale esistente tra oppressione di genere e capitalismo, evidenziando ad esempio il reiterarsi della divisione sessuale del lavoro che assegna alle donne le attività riproduttive e di cura o le vede confinate solo in alcune categorie lavorative o le carica sia del lavoro domestico che del lavoro al di fuori delle mura domestiche. Per le donne la normalità del pre – Covid 19, a cui si vorrebbe tornare, era una strada lastricata di intermittenza lavorativa, di contratti precari, di discriminazioni, di licenziamenti perché in gravidanza, di lavori sottopagati e da segregazione come nel caso delle lavoratrici della cura (colf, badanti ecc), di salari ridotti.
Quella stessa normalità ha causato la perdita dei 14 posti che da sola Lucha y Siesta riusciva a garantire a donne e minori in fuga dalla violenza di mariti, padri, compagni. Su scala locale e nazionale, ben prima della pandemia, le politiche di contrasto alla violenza maschile sulle donne erano scarse e superficiali; il caso di Lucha, per quanto lo si voglia ridurre ad un’esperienza di quartiere, con il suo lavoro gratuito e volontario, con l’accanimento della giunta Raggi per ottenerne lo smantellamento, è emblematico della situazione nazionale: pochi finanziamenti e sfruttamento di chi lavora nella rete antiviolenza, misure emergenziali, come ci mostra il codice rosso, ed assenza di un piano programmatico e strutturale, scarsità di interventi capillari per una formazione di genere nelle scuole e nelle università, troppo spesso demandati alla buona volontà di poche istituzioni o del corpo docente, la costante minaccia di chiusura degli spazi femministi quali i consultori o, due esempi su tutti, della casa Internazionale delle donne e della casa delle donne di Milano.
L’agenda politica non ha mai avuto al centro delle proprie preoccupazioni la prevenzione e il contrasto alla violenza maschile sulle donne e di genere, anzi il più delle volte gli interventi istituzionali sono stati relegati all’interno di provvedimenti volti a garantire “sicurezza” in situazione di emergenza. In questi giorni solo la tenacia e determinazione della rete antiviolenza nazionale, supportata dalla Commissione Femminicidio in un lavoro sinergico, hanno reso possibile l’approvazione parlamentare di fondi aggiuntivi da destinare al contrasto alla violenza sulle donne. Senza tale pressione questo governo, nei decreti prodotti finora, non ha fatto la minima menzione a misure volte alla tutela delle donne in questa quarantena forzata, anzi, paradossalmente, la retorica istituzionale ufficiale del “restiamoacasa” richiama proprio quelle mura domestiche in cui avvengono la maggior parte dei casi di violenza.
E lo ribadiamo, a Roma 14 preziosi posti per ospitare quelle stesse donne che vengono invitate a usufruire dell’applicazione creata ad hoc in questa fase d’emergenza sanitaria mondiale, sono a rischio perdita, proprio ora che ce ne sarebbe bisogno come l’ossigeno, quello stesso ossigeno di cui necessitano le nostre terapie intensive. Se non fosse drammatico, apparirebbe quasi grottesco. Chi ci governa, intimandoci di rimanere in casa, sposta sul piano della responsabilità individuale la responsabilità di anni e anni di tagli al sociale, ai diritti dei lavoratori e lavoratrici, alla sanità e all’istruzione pubbliche; e nel farlo non pensa a chi da una casa deve scappare per non essere massacrata di botte o a chi una casa proprio non ce l’ha o a chi viene ammazzato in mare mentre è alla disperata ricerca di una casa dove stare.
A questo punto ci chiediamo perché continuare a perseguire soluzioni che permettono esclusivamente di correggere delle ingiustizie, di rattoppare un sistema non più migliorabile. Potremmo finalmente lasciare che i pilastri su cui poggia l’intera organizzazione simbolica e materiale del sistema patriarcale capitalistico crollino. In questo mare in tempesta come collettività abbiamo l’opportunità di cambiare rotta, se ricominciamo ad avere fiducia che ciò possa avvenire.
Vogliamo ispirarci alla spudoratezza del pensiero femminista.
Chi dice che non possiamo permetterci il lusso di pretendere una diversa scala di priorità per il nostro vivere insieme? Chi ci impone di guardare attraverso le lenti del realismo?
Vogliamo una società che si ricostruisca a partire dalle relazioni, in cui la vita, intesa in ogni sua forma componente l’ecosistema, venga posta al centro delle preoccupazioni, delle decisioni, della politica; immaginiamo che possa essere smantellata del tutto la divisione sessuale del lavoro e che la cura diventi una priorità, che il benessere collettivo lo diventi; immaginiamo anche solo per un attimo di uscire dalla logica economicista di cui ogni cosa, persino noi, è impregnata e che rende ogni fattore economico un totem indiscutibile, riscattiamo categorie quali il desiderio e il piacere .
Mai come ora abbiamo risorse tecniche per poter fare molto, la discriminante non è l’aver dato nel corso degli ultimi secoli priorità all’avanzamento tecnologico ma l’aver messo tale avanzamento a servizio del Profitto e non del benessere collettivo. Se al centro della nostra scala dei valori ci fosse la vita, ampiamente intesa, perché non immaginare di mettere al servizio tanto progresso affinché il lavoro sia una scelta e non una schiavitù, il benessere dei pochi sia finalmente il benessere dei molti;da questa prospettiva non sarebbe più nemmeno immaginabile la volontà di chiudere e smembrare Lucha y Siesta ma di Lucha y Siesta ne nascerebbero altre mille!
In una fase delle nostre vite personali e collettive così complicate, non vogliamo cedere alle lusinghe del realismo pragmatico, lo lasciamo ai quei passi intermedi funzionali a raggiungere uno scopo maggiore. Abbiamo già mostrato come sia possibile scardinare i sigilli dell’immaginazione quando qualche genio visionario ha sognato di volare e ora viaggiamo in poche ore da un continente all’altro; oppure quando i movimenti di liberazione delle donne ci hanno mostrato che ciò che sembrava impossibile ora è un diritto acquisito, per le nuovissime generazioni a dir poco scontato; quando al termine della seconda grande guerra, in uno dei momenti più oltraggiosi e bui della storia, è stata scritta la carta universale dei diritti dell’uomo come antidoto alle barbarie vissute.
Questi esempi appena appena accennati raccontano che non è “nella possibilità di” ma nella “volontà di” il problema e che se diamo spazio “interno” ed “esterno” a esempi di solidarietà, mutualismo, di “agency” e “empowerment” possiamo ricominciare nel credere che nulla è impossibile e pretendere ciò che ci spetta. In tempi passati, in cui il futuro ci appariva meno chiuso e soffocante ma al contrario ci orientava un orizzonte rivoluzionario, alcune proposte sono state fatte; possiamo ora riproporle perché molto attuali come ad esempio il blocco e la riconversione dell’industria bellica e l’immissione dei fondi ad essa destinati in sanità pubblica, istruzione pubblica e diritti sociali; oppure la tassazione della rendita finanziaria, anche da piccole tassazioni si potrebbe destinare molto nel potenziamento della ricerca; inoltre se chi ci governa cominciasse a farlo secondo logiche di sviluppo sostenibile e noi pretendessimo oltre che una redistribuzione delle ricchezze, un reddito universale, se non immediatamente ottenibile, almeno ci metterebbe in una differente prospettiva.
Mutuando uno slogan in difesa della Casa Internazionale delle Donne, “il debito non lo paghiamo perché noi donne siamo in credito”, possiamo ancora una volta rendere esemplare un’esperienza femminista e dire che il grande inganno del debito per uscire dal baratro economico finanziario alle porte, non lo accettiamo.
Ci auguriamo che questo nostro sentire sia un sentire diffuso, chissà che per davvero non si possa imparare e cambiare a partire da questo ennesimo trauma collettivo, e che parole e azioni sparse si alzino come vento per spazzare via le macerie del disastro che ci ha portato fin qui.
Nel frattempo Lucha continua a vivere ed è pronta a sostenere e accogliere come sempre, così come continuano a vivere tante altre realtà femministe o del mondo dell’associazionismo e dei movimenti.
Siamo come spiragli di luce che, disseminando solidarietà e mutuo aiuto, trasformando la rabbia in lotta e speranza, illuminiamo il futuro che sarà.
*Casa delle donne Lucha y Siesta
Roberto Renzoni dice
Delizioso articolo, lo condivido pienamente