C’è un filo nero che unisce l’enfatizzazione postnovecentesca dell’individualismo, la violenta messa in discussione della stessa idea di comune e di interesse generale, la retorica delle opportunità versusl’eguaglianza, il declino dell’universalismo, la sfiducia nella politica, la sua verticalizzazione, la nascita e l’affermarsi, a destra come a sinistra, di “partiti personali” e, infine, la convinzione di una superabilità della democrazia come fatto concreto, partecipativo, fondativo di cittadinanza e di legame sociale.
La rottura dell’idea di uguaglianza e dei doveri sociali che essa comporta è alla base della scollatura profonda che il turboliberismo degli ultimi trent’anni ha prodotto tra la base della piramide sociale e il vertice. È d’uopo annotare che questo processo degenerativo ha utilizzato tra i suoi grimaldelli anche la preoccupazione della sicurezza; non quella sociale o delle condizioni di lavoro, naturalmente, ma quella intesa come difesa dalla criminalità e dal disordine. Una problematica nata “a destra”, ma in Italia presto cavalcata dalla sinistra e che ha visto per vent’anni una folta schiera di imprenditori politici della paura strumentalizzare i fenomeni di devianza e marginalità a fini di facile consenso. Uno degli effetti è stato quello di sostituire progressivamente lo Stato sociale con quello penale, ovvero di privilegiare le risposte repressive a quelle di integrazione, prevenzione e recupero, così che tossicodipendenti, immigrati, poveri, malati psichici hanno iniziato a ingolfare le carceri e a costituire dai primi anni Novanta del secolo scorso una vistosa curva di crescita delle presenze carcerarie, mentre calava simmetricamente la curva dei reati. A partire dagli Stati Uniti per arrivare all’Italia.
Un altro degli effetti è stato quello delle cosiddette gated communities, un fenomeno meno noto, ma crescente. Si tratta di quartieri protetti e fortificati dove vivono ricchi e classi dirigenti, dove possono entrare solo i loro invitati. Una forma di privatizzazione dello spazio pubblico, un piccolo mondo antico separato dal resto della società. È stato calcolato che ben 10 milioni di americani vivano in questi luoghi, che ora sono diffusi in diversi altri Paesi.
La politologa Nadia Urbinati le giudica «un esempio pionieristico di secessionismo dei pochi dalla società “larga”, anticipando uno degli aspetti più appariscenti della mutazione oligarchica che oggi sperimentiamo in tutti i Paesi occidentali». Quelle comunità chiuse, motivate da ragioni di protezione e sicurezza, «sono state invece ideate e costruite soprattutto per vivere in disparte dagli altri, per non essere contaminati dai “diversi” e, molto più crudamente, per sottolineare di non voler avere nulla a che fare con il mondo degli “eguali non eguali”, cioè con persone differenti per classe sociale, religione, cultura o colore della pelle» (Nadia Urbinati, La mutazione antiegualitaria – Intervista sullo stato della democrazia, Laterza, 2013).
Razzismo e classismo, di fondo, sono gli antichi e onnipresenti sentimenti che stanno alla base anche di una concezione elitista della democrazia, così come della convinzione che la ricchezza sia un merito non divisibile, perché destinato solo ai forti, agli adatti. Che non ci sia insomma da vergognarsi che un manager guadagni quanto 400 suoi sottoposti, perché ciò è naturale. Quindi giusto.
«La democrazia, il potere della maggioranza non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati efficaci a torto o ragione», scriveva Simone Weil in un intervento, pubblicato postumo nel 1950, dal titolo eloquente e, secondo alcuni, attuale: Manifesto per la soppressione dei partiti politici (Castelvecchi, 2012). Il bene, in una logica darwiniana, quale quella che va silenziosamente diventando pervasiva, tuttavia, è ciò che si afferma, ciò che è più adatto a prevalere e imporsi. Se l’uguaglianza è diventata non un valore, ma un ostacolo da rimuovere, ne consegue che il destino di interi popoli è irrilevante, di fronte alla necessità di affermare i propri interessi, elevati a visione.
I programmi di aggiustamento strutturale hanno avuto effetti «genocidi», per usare le nette e argomentate parole di Ugo Mattei, che ha avuto modo di documentare da vicino quelli prodotti sul Mali. Occorre infatti riflettere sul fatto – che richiamavamo già all’inizio di questo nostro ragionamento – che tutto ciò rimanda non principalmente ai temi e alle dispute dell’economia ma attiene direttamente alla grande, e sempre più trascurata, questione dei diritti umani. Questione propriamente globale, che riguarda i conflitti armati e le guerre (almeno 36 quelle in corso a fine 2012, anno nel quale le spese militari mondiali sono ammontate a 1.753 miliardi di dollari), le povertà, la fame, la salute, le discriminazioni vecchie e nuove, le migrazioni, ma anche e sempre direttamente il lavoro.
Mentre stiamo scrivendo, le cronache raccontano di almeno 912 lavoratori tessili uccisi e molti altri feriti a Dacca, nel Bangladesh (leggi il dossier «Una strage senza precedenti»), vittime del crollo di un palazzo che da giorni presentava vistose crepe, una fabbrica trasformata in un cimitero dall’imperativo del taglio dei costi e dei tempi, dallo sfruttamento intensivo; non ci si consoli la coscienza con la distanza: quegli operai producevano anche per imprese europee e italiane. È questo uno dei tanti episodi che in Occidente provocano a malapena una stringata notizia sui media. Come del resto le molte decine di sindacalisti uccisi ogni anno, le molte centinaia di lavoratori arrestati, le molte migliaia di quelli discriminati, come documenta l’osservatorio del sindacato mondiale, l’International Trade Union Confederation, e come scrive nella prefazione a questo volume il suo segretario generale Sharan Burrow.
Ridare voce e diritti ai posteri
La crisi, etimologicamente, ha anche una valenza di opportunità. Il 2007-2008 avrebbe potuto – avrebbe dovuto – diventare un punto di svolta per i destini dell’umanità. Dopo i primi momenti di smarrimento dei macropoteri finanziari che dominano il mondo globalizzato, invece, si è imposta un’assoluta continuità con il modello del predominio della finanza-capitalismo, della libertà totale dei mercati, della crescita infinita e incontrollata, del consumismo onnivoro, del workalcoholism, della demenziale obsolescenza programmata di merci e prodotti.
Una follia suicida, quest’ultima, che solo un sistema seriamente malato e inguaribilmente irresponsabile poteva inventare. «Si può resistere alla pubblicità, rifiutarsi di contrarre un prestito, ma si è disarmati di fronte al deperimento tecnico dei prodotti. In capo a periodi sempre più brevi, macchine e attrezzature diventate protesi indispensabili del nostro corpo, dalle lampadine agli occhiali, si guastano per la rottura intenzionale di un elemento. Impossibile trovare un pezzo di ricambio o un riparatore. Se riuscissimo a scovare l’uno o l’altro, la riparazione ci costerebbe più cara del prodotto nuovo, fabbricato a prezzi stracciati nel lager del Sud-Est asiatico. E così montagne di computer, in compagnia di televisori, frigoriferi, lavastoviglie, lettori di DVD e telefoni cellulari finiscono nelle pattumiere e nelle discariche, creando ogni tipo di inquinamento (Serge Latouche, Usa e getta – Le follie dell’obsolescenza programmata, Bollati Boringhieri, 2013).
Assieme ai prodotti, però, questo sistema impazzito sta imponendo di buttare in discarica anche i meccanismi e la cultura della democrazia. (…)
Se il sistema è impazzito, parti crescenti di cittadini stanno però rinsavendo, imparando a cambiare stili di vita, a chiedere nuovi modelli di produzione, a difendere il proprio habitat, a promuovere culture di sobrietà e di responsabilità individuale, a riscoprire l’economia di territorio e così via. La presa di coscienza individuale, la tensione a organizzare i gruppi di interessi, le comunità di scopo, i movimenti single issue costituiscono una vitalità fondamentale e una premessa necessaria. Ma occorre avere consapevolezza che le soluzioni vanno pensate, organizzate e perseguite a livello globale. Lì si gioca la partita per una nuova democrazia, per nuovi percorsi di eguaglianza e di giustizia sociale e ambientale: a livello macro e di sistema. Altrimenti, al massimo, può esserci resistenza e recinto, che sarebbero tuttavia una sconfitta e non offrirebbero alcuna garanzia a chi verrà dopo di noi.
È per questa tensione che il Rapporto sui diritti globali 2013, oltre alla prefazione del segretario generale della CGIL Susanna Camusso, ospita l’intervento di Sharan Burrow, segretario generale del sindacato mondiale, l’International Trade Union Confederation, quello di Ignacio Fernández Toxo, presidente del Confederazione Europea dei Sindacati, quello di Ricard Bellera i Kirchhoff, responsabile Internazionale delle Comisiones Obreras della Catalogna (che da quest’anno figurano tra le organizzazioni co-promotrici di questo Rapporto) e di tanti altri interlocutori di diversi Paesi.
La speranza e l’intenzione è che questo nostro piccolo lavoro, faticosamente giunto all’undicesimo anno di vita, possa diventare uno strumento maggiormente utilizzato e condiviso anche fuori dal nostro Paese, promuovendo sinergie, partecipando a reti, contribuendo a creare luoghi e occasioni di scambio e confronto, di elaborazione e pratica comune.
* Coordinatore del Rapporto sui diritti globali. Questo articolo contiene alcuni stralci dell’introduzione del Rapporto 2013, intitolato; la versione pdf completa dell’intriduzione è scaricabile qui: Rapporto/introduzione Sergio Segio.
Foto: un momento della grande manifestazione di Francoforte del 1 giugno 2013 contro l’austerity targata Ue.
Rapporto sui diritti globali 2013: Il mondo al tempo dell’austerity
Il Rapporto sui diritti globali, da undici anni propone analisi e documentazione sulla globalizzazione in una chiave di lettura del l’interdipendenza dei diritti. La struttura del Rapporto 2013 (presentazione, martedì 4 giugno, ore 11,30 ore 11.30, Cgil nazionale, corso d’Italia 25, Roma) è articolata in macro-capitoli tematici dove viene documentata la situazione relativamente all’anno in corso e vengono delineate le prospettive. L’analisi e la ricerca sono corredate da cronologie dei fatti, da schede tematiche, da quadri statistici, da un glossario, da una bibliografia e sitografia, dalle sintesi dei capitoli e dall’indice dei nomi e delle organizzazioni citate. Ideato e realizzato dall’Associazione Società INformazione onlus, è co-promosso con la Cgil nazionale, in collaborazione con ActionAid, Antigone, Arci, Comisiones Obreras della Catalogna, Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglien za, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente, Sbilanciamoci!, vale a dire con le associazioni tra le più autorevoli, rappresentative e territorialmente diffuse che sono concretamente impegnate sulle problematiche trattate dal Rapporto. L’indice completo del Rapporto 2013 è questo: Rapporto/indice.
Lascia un commento