Uno dei prezzi da pagare, dopo cinque secoli di razionalismo cartesiano, è l’affermarsi delle reazioni identitarie insieme all’omologazione del pensiero unico. In questo scenario va di moda cercare inesistenti purezze e nel migliore dei casi proporre il multiculturalismo, che resta però l’esatto contrario del meticciato. Le identità culturali, ricordano François Laplantine e Alexis Nouss ne libro Il pensiero meticcio (elèuthera), non esistono. Un capitolo del libro
Il pensiero ancora oggi largamente dominante è un pensiero della separazione che procede tanto a un’organizzazione binaria del nostro spazio mentale quanto a una ripartizione dualista delle persone e dei generi: il civilizzato e il barbaro, l’umano e l’inumano, la natura e la cultura, gli aborigeni e gli allogeni, il corpo e lo spirito, il ludico e il serio, il sacro e il profano, l’emozione e la ragione, l’oggettività e la soggettività. Questo pensiero trova una delle sue espressioni nella costituzione di forme pure distribuite attorno ai due poli del sapere razionale e della finzione artistica, che non devono frequentarsi e ancor meno mischiarsi. Michel Serres ha riassunto così questa posizione, criticandola: «Non c’è mito nella scienza e non c’è scienza nel mito».
La logica delle separazioni a «cascata» appena evocate e alle quali aggiungeremo ancora le opposizioni tra l’astratto e il concreto, il generale e il particolare, ha condotto a un ritrarsi di ciascuno dei protagonisti sulle proprie posizioni e alla conferma rassicurante che gli spazi (culturali, ma anche mentali) dovevano restare tramezzati. A dispetto delle smentite subite (spesso sanguinose), il positivismo è lontano dall’essere morto. Permane il presupposto dell’oggettività assoluta come modello della razionalità scientifica, con il suo pigro ronfare abitudinario che caratterizza quello che il filosofo della scienza Thomas Kuhn chiama «lo stato normale della scienza». Questo stato di cose non può che confortare e alimentare in permanenza il movimento di rivolta romantica così caratteristico di quest’ultima fine secolo, che trova parecchie delle sue espressioni negli ambiti separati dell’arte, della letteratura, della religione, così come in tutti i movimenti di rivendicazione differenziale.
Certo, anche durante le epoche più dogmatiche dei tempi moderni, che possiamo considerare retrospettivamente come uno specifico modo di rapportarsi al tempo nel corso del quale la storia ha separato drasticamente il qui e l’altrove, il presente e il passato, tutto questo ribollimento della soggettività era ben lungi dal restare inattivo.
Ma ciò a cui assistiamo oggi è molto differente. Infatti si tratta di un ritorno in forza del soggettivismo e delle reazioni identitarie. Questo riflusso del passato che ci sale in gola, questo dilagare di radici e di origini – «inondazione tanto possente che non è possibile individuarne la sorgente», sostiene Michel Serres – è il nostro male del secolo. Stiamo pagando il prezzo di cinque secoli di razionalismo cartesiano. Quest’ultimo, riciclatosi poi nel positivismo, in nome della grande divisione dei saperi aveva eliminato dal campo dello scibile legittimato dalla scienza un certo numero di «oggetti» (il corpo, la sensualità, l’amore, la passione, la morte, le relazioni dell’uomo con il passato, la magia…). Ora, questi «oggetti» tanto sbeffeggiati e screditati sono riusciti a trasformarsi in «soggetti», ed eccoli che insorgono e si manifestano ovunque, rivendicando un potere esclusivo.
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Le delusioni indotte dalle promesse dell’universalismo astratto hanno condotto a contrazioni particolariste di cui continueremo a sentir parlare:
l’assoluto della purezza religiosa, l’affermazione culturale esclusiva attraverso il radicamento restrittivo nel territorio o nella memoria, la tesi dell’etnicità che veicola sovente in maniera larvata il razzismo.
In un simile contesto il culturalismo* (termine utilizzato per designare l’antropologia culturale nord-americana) può ben essere mobilitato a legittimazione di tutte le rivendicazioni di monoappartenenza identitaria e di rigetto degli «stranieri». Per quanto riguarda il multiculturalismo (la political correctness nord-americana, la rivendicazione dei diritti delle minoranze e delle «comunità etniche», l’apologia del pluralismo terapeutico…), vedremo come esso sia l’esatto contrario del meticciato. Esso si fonda sulla coabitazione e la coesistenza di gruppi separati e giustapposti, decisamente rivolti verso un passato che si deve proteggere dall’incontro con gli altri.
Il discorso del puro, del semplice, del chiuso, del distinto e della frontiera (ciò che è chiaramente identificato, concepito come ciò che deve restare identico, l’essere che è solamente se stesso senza mischiarsi con nient’altro, l’appartenenza a un campo e il suo corollario, la trasgressione, che vi bolla di complicità, di intelligenza con il nemico) è un discorso privativo: senza alcol, senza macchia, senza peccato, senza contaminazione. Come se esistesse un’eternità non turbata né intorbidita dalla temporalità. Come se ci fosse qualcosa di essenziale fattosi miscuglio per puro accidente. E quando ci si rassegna a pensare il cambiamento è solo per deplorare ciò che sarebbe dovuto restare immutabile e inalterabile. Mentre il meticciato è un processo di bricolage senza fine, la purezza è dell’ordine della cernita. Essa è la stabilizzazione disperata della storia, ricostruita retrospettivamente in aiuto alle categorie del primo, del primordiale e dell’autentico, a partire dalle quali si sarebbe prodotta un’alterazione. Tuttavia, anche ponendo un punto di partenza assoluto in rapporto al quale ci sarebbe un derivato, essa non sfugge al movimento. È essa stessa un processo: quello della purificazione, della semplificazione e della mistificazione, che ha per effetto quello di sostanzializzare, naturalizzare, destoricizzare e infine neutralizzare l’incontro con gli altri.
Questa tesi della purezza è refrattaria alla sua stessa teorizzazione perché non sopporta la prova dei fatti. Essa si riconosce votata all’assurdità. L’identità «propria», concepita come proprietà di un gruppo esclusivo, sarebbe inerziale, poiché non essere che se stesso, identico a ciò che si era ieri, immutabile e immobile, è non essere, o piuttosto non essere più, cioè morto. Essere è essere con, essere insieme, condividere – la maggior parte delle volte conflittualmente – l’esistenza. Privati del rapporto con gli altri, siamo privati dell’identità, ovvero spinti all’autismo mediante l’autosufficienza e il narcisismo.
La specificità di una cultura o di un individuo deriva dalle combinazioni infinite che possono essere prodotte (al di fuori di noi, ma anche in noi, ce n’è un’infinità) dai concatenamenti di termini eterogenei, dissimili, differenti, in breve dalla riformulazione di molteplici eredità. Universalismo e particolarismi si trovano sempre in coppia. I particolarismi possono essere il risultato di «tradizioni» inventate, come ad esempio l’«Oriente» per l’«Occidente», e non sono mai essenze, bensì processi di acquisizione, di elaborazione, di interpretazione, che si costituiscono in modo permanente in un movimento di interazione ininterrotta. Viene chiamata identità culturale ciò che risulta da mescolamenti e incroci fatti di memorie, ma soprattutto di oblii. Alla nozione di purezza originale noi opporremo la nozione freudiana di «perverso polimorfo», applicata alla cultura. Questo significa che l’identità culturale, nel modo in cui spesso è stata appresa, non esiste affatto. Prendiamo l’esempio della Francia. Formatosi nel crogiolo gallico, questo Paese è stato molto presto acculturato dai Romani. Più tardi ha subìto l’influenza inglese dei Lumi. Il surrealismo deve molto a un rumeno, Tristan Tzara, che abitava a Zurigo, e il teatro francese degli anni Cinquanta a Samuel Beckett, che era irlandese, ad Arthur Adamov, che era russo e a Eugène Ionesco, un altro rumeno. Quanto al cinema della Nouvelle vague, spesso descritto come tipicamente francese, è stato molto influenzato da Alfred Hitchcock. Ciò equivale a dire che la «cultura francese» non è mai presente nel suo insieme nei singoli individui che la «rappresentano». André Breton, ad esempio, non è meno francese di Cartesio, o il filosofo Louis Claude de Saint-Martin (1743-1803) non lo è meno del padre della medicina sperimentale Claude Bernard. Questa cultura non è dunque puramente francese, ma si manifesta in uno stile fatto di prestiti successivi, di scarti e di sfumature.
Tratto dal libro Il pensiero meticcio (elèuthera) di François Laplantine e Alexis Nouss (titolo del capitolo L’inquietante realtà del meticciato e la rassicurante illusione della purezza).
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Il collettivo redazionale di elèuthera ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura:
Arrigo Mamone dice
CITAZIONI: Un testo di Amartya Sen
https://www.fermo-immagine.it/identita/