Dopo il viaggio nella Rio de Janeiro delle favelas e del movimento afro-brasiliano che resiste alla violenza e alla militarizzazione – lo abbiamo raccontato nelle scorse settimane in tre parti – Raúl Zibechi continua il suo nuovo racconto dall’América Latina de abajo con l’Ecuador appena uscito dal lungo sciopero nazionale del giugno scorso. Una grande lotta che ha paralizzato il paese fino a quando il governo s’è visto costretto a revocare lo stato di eccezione. La prima tappa del reportage di Raúl è dedicata a un gruppo di donne che raccolgono e vendono erbe aromatiche e medicinali alla periferia di Quito. Anche se la cultura egemonica di sinistra fa fatica ad ammetterlo, scrive, quelle donne indigene che sfidano i pregiudizi e l’eterno razzismo delle classi medie e alte ecuadoriane sono state il cuore della ribellione. Una ribellione che, per la prima volta nella storia del più piccolo dei paesi che si affacciano sugli altipiani andini, prende nuovo slancio proprio delle lotte urbane o periurbane
“Quando si è iniziato a parlare di sciopero nazionale, abbiamo cominciato a metterci insieme, a far muovere la gente, perché ci conoscevamo già dallo sciopero del 2019”, spiega Miriam Soria, hierbatera, raccoglitrice e venditrice di erbe della Comuna di Tola Chica, a Tumbaco, periferia di Quito, che vende i suoi prodotti al mercato di San Roque, nel centro della città.
Miriam racconta che ci sono circa 30 donne che lavorano insieme nel quartiere, tutte venditrici di erbe al mercato. Hanno organizzato una mensa popolare che cucina ogni giorno mille colazioni, mille pranzi e mille merende la notte. “Ci chiedono se non siamo stanche. Certo che lo siamo, ma continueremo”, dice senza esitazioni.
Avevano bloccato la strada e la polizia le ha aggredite con gas lacrimogeni e bastoni. Sono entrati nel quartiere e hanno disperso il cibo accumulato con le donazioni, hanno distrutto le pentole e tutti i materiali da cucina. Ma loro hanno continuato. “Non ci siamo arrese”, continua Miriam. “Eravamo venute a Quito per sostenere lo sciopero, portando le nostre erbe medicinali”.
Tumbaco fa parte della valle che ospita l’aeroporto internazionale di Quito, un distretto di quasi 40mila abitanti dove quindici comunas compongono questo territorio semirurale ricoperto di foreste di eucalipti e depositi di lava del vulcano Ilaló. I blocchi stradali che portano all’aeroporto sono generalmente repressi duramente dalle forze dell’ordine istituzionale.
Durante lo sciopero ci sono stati otto feriti in queste comunas, che si aggiungono ai sette morti registrati durante i 18 giorni di sciopero e un numero incalcolabile di feriti, che può superare il migliaio. Dice Miriam: “Non abbiamo mai avuto giustizia noi, le venditrici al mercato e nelle strade, le lavoratrici domestiche. Non abbiamo mai avuto niente. Tutti i diritti che abbiamo li abbiamo acquisiti scendendo nelle strade e occupandole”.
L’abbiamo conosciuta al Museo della Città durante la Feria del Libro Insurgente, organizzata dal collettivo Desde el Margen. Un segno dei tempi, la cappella del museo – con architettura barocca adornata di ori – che prima era uno spazio per i matrimoni e gli incontri dell’aristocrazia, adesso invece accoglie artisti de abajo (non celebrati da riconoscimenti ufficiali, ndt), trans, gay e lesbiche, lavoratrici del sesso e venditrici ambulanti, oltre alla fiera degli insurgenti. Cosa ne dirà il Santo Padre?
Alla Feria de San Roque, le hierbateras hanno creato più di quarant’anni fa la Plataforma Central 1º de Mayo. Ci sono circa 150 donne in un mercato che ha più di 4mila bancarelle, generalmente a conduzione familiare, ma la stragrande maggioranza è gestita da donne. Sono le warmis, le donne de abajo organizzate, lavoratrici di tutte le ore di tutti i giorni, che durante gli scioperi sono in prima linea. Donne indigene che sfidano i pregiudizi e l’eterno razzismo delle classi medie e alte che, questa volta, sono scese in strada vestite di bianco per impedire che “gli indios s’impadronissero della città”.
Sia a Tumbaco che nei quartieri ricchi di Quito, gli abitanti e i commercianti abbienti hanno estratto le armi per sparare ai manifestanti, cosa che i “media corrotti” del sistema, come li chiamano le hierbateras, si sono dati molto da fare per nascondere. Intanto ripetono la monotona e bugiarda melodia del potere che dice che la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, Conaie, e i movimenti de abajo sono “finanziati dal narcotraffico”.
Miriam è erborista, guaritrice e contadina. Coltiva e raccoglie camomilla, ruta, rosmarino e una vasta gamma di altre erbe dolci che i clienti sono desiderosi di acquistare già a partire dal mattino presto. Come le sue vicine e compagne, coltiva su terreni comunali che tutte loro difendono dalla morsa della speculazione immobiliare, perché sanno che quello è il solo modo per difendere la vita in un sistema che vuole espropriarle di tutto e, se ci riesce, anche eliminarle dalla faccia della terra.
Le hierbateras vanno alla Plataforma 1º de Mayo verso la mezzanotte, suddividono e dispongono le erbe e aprono i banchetti molto prima dell’alba. Quando l’orologio batte le 8 del mattino non c’è quasi più niente da vendere. Ritengono che le erbe aromatiche e medicinali siano i loro strumenti di lotta e debbano essere al centro di ciò di cui si prendono cura, perché è con esse che curano le molte infermità che affliggono coloro che stanno abajo, sotto.
Le loro argomentazioni sono piuttosto difficili da confutare: sebbene ci chiamano “pigri”, ci dicono che non lavoriamo, i ricchi mangiano proprio i nostri raccolti, perché loro si dedicano solo al petrolio e alle miniere. Queste, insomma, sono donne che esprimono coscienza e combattività, che “resistono forte”, come dice Miriam. “Continueremo a lottare per i nostri figli, perché a loro non succeda che non abbiano la possibilità di andare a scuola come è stato per me”, continua la hierbatera.
Sebbene sia difficile per la cultura egemonica di sinistra accettarlo, sono state queste donne il cuore della ribellione per 18 giorni. Agli uomini che hanno bloccato le strade e le vie di comunicazione, al momento di rientrare nei loro quartieri, non è mai mancato da mangiare. C’erano le mense comunitarie a sfamarli. Centinaia di volontarie della salute si sono prese cura dei feriti. Ma, naturalmente, quelle donne hanno fatto in prima persona anche i blocchi stradali.
Le hierbateras hanno però le loro specifità, ad esempio benedicono le marce con le loro erbe dolci, un modo di prendersene cura. Sempre in comune, sempre in movimento.
L’importanza delle lotte urbane o periurbane sta guadagnando nuovo slancio. Nei levantamientos precedenti (in Ecuador le grandi sollevazioni si susseguono con frequenza almeno dai primi anni del secolo, ndt), il fulcro della mobilitazione erano sempre le aree rurali. Dalle comunità, la popolazione indigena si mobilitava verso Quito, creando un potente immaginario di conquista della città bianca che terrorizzava le élite e infondeva allegria e coraggio al popolo.
Alla Feria del Libro Insurgente, Cindy Gómez de Wambra, un media comunitario, ha affermato invece che ci sono state “rivolte anche nelle comunas di Quito, ma i media le hanno ignorate“. In effetti, le comunas periferiche di Quito, soprattutto quelle della zona meridionale dove arrivano i migranti andini, sono ormai baluardi della mobilitazione. Lo sono state sia nella rivolta del 2019 che in quella appena conclusa.
Il confronto con la rivolta del 2019 compare un po’ in tutte le conversazioni, perché quello di tre anni fa è stato come un fulmine che ha illuminato la vita del mondo de abajo. Le persone che sono state protagoniste di entrambi i momenti affermano che quella del 2019 è stata una rivolta più spontanea e sorprendente per il potere, tanto che che ha spinto il presidente Lenin Moreno a fuggire a Guayaquil mentre gli indigeni e i movimenti rurali e urbani occupavano la città.
Lo sciopero dello scorso giugno è stato invece più strutturato, ha fatto registrare una partecipazione molto maggiore (comprese le marce sulla costa), ma lo Stato era già stato allertato e ha potuto schierare un apparato repressivo più sofisticato e con maggiore potenza di fuoco contro la popolazione.
In entrambe le rivolte, però, le donne come Miriam e le sue compagne hierbateras hanno avuto un ruolo di primo piano. Loro sanno far tesoro della memoria delle lotte, delle conoscenze della rivolta e del sapersi prender cura collettivo che si trasmette, di lotta in lotta, in modo che la candela accesa dalla ribellione non si spenga mai.
Su Desinformémonos la versione in lingua originale
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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