Dall’industrializzazione della messa a morte per il consumo alimentare di massa allo sterminio sanitario preventivo il salto non è poi così in lungo. Si tratta, in fondo, sempre di cancellare la presenza della vita dentro i corpi di moltitudini di esseri viventi trucidati. Anche se ha suscitato fugaci commenti mediatici di sconcerto, l’olocausto dei 17 milioni di visoni in Danimarca – così lo chiama a ragione Annamaria Rivera – ha fatto “notizia” fino a un certo punto. In primo luogo perché non è un fatto episodico. Sullo stesso sentiero della soluzione finale danese camminano Olanda, Stati Uniti, Irlanda, Spagna e chissà quanti altri paesi più preoccupati di un fenomeno antico quanto il mondo come le zoonosi che del ruolo essenziale nella diffusione di virus, batteri e parassiti vari assunto negli ultimi decenni dai mattatoi industriali e dagli allevamenti super-intensivi che esige il florido mercato dell’hamburger. In secondo luogo, e soprattutto, perché le torture e le condizioni indicibili cui vengono sottoposti gli animali “da forno e da pelliccia” vengono considerate “normali” da una cultura che li vede come “macchine della natura, nate per morire e far posto ad altre”, come segnalava già nel Settecento Voltaire, oppure “materia la cui forma vivente è transitoria”, come precisato, quasi due secoli dopo, dalla filosofa francese Florence Burgat. D’altra parte, in tempi come questi l’idea di considerare alcune “specie” viventi inferiori, dunque sacrificabili in termini di produttività e mercato, magari al fine di salvare la parte sana o dominante di chi abita il pianeta, rivela un’ideologia e un punto di vista dai confini oltremodo labili. Punti di vista molto discussi (dunque esistenti) perfino nelle istituzioni democratiche di questo e di altri paesi. Perciò oggi è forse più importante che in passato, come ribadisce Annamaria, assumere la centralità della lotta contro uno specismo, matrice del razzismo e del sessismo, sempre più ispirato dalla logica cinica del massimo profitto. Non a caso, dopo lo sterminio, il premier danese ha confessato che non c’era alcuna base legale per uccidere gli esemplari sani, così si è scusato con i proprietari per aver rovinato la merce

Si dice «negazionisti» di coloro che negano o minimizzano la pandemia in corso. Ma lo stesso potrebbe dirsi delle numerose persone che, nonostante sia stato scientificamente provato il ruolo decisivo svolto dagli allevamenti intensivi e dai mattatoi industriali rispetto a ciò che viene detto «salto di specie», seguitano a cibarsi di carne; per non dire di coloro che perseverano perfino nell’acquistare e indossare pellicce animali.
Queste/i ultime/i continueranno a farlo, probabilmente, anche dopo aver appreso dell’olocausto (uso volutamente questo termine) cui sono stati destinati in Danimarca i 17 milioni di visoni presenti negli allevamenti del Paese, uno dei principali esportatori mondiali di pellicce di queste disgraziate creature: assiepate, tra cumuli di escrementi, in spazi angusti per massimizzare il profitto; costrette a vivere in condizioni infernali durante il breve tempo sufficiente a raggiungere la giusta dimensione per essere uccise (perlopiù con l’azoto o il biossido di carbonio) e poi scuoiate; reificate a tal punto che è considerato normale e accettabile sacrificare la vita di ben sessanta di loro per ottenere un solo metro di pelliccia. E in tal modo soddisfare anzitutto l’industria della moda, il profitto e il mercato, ma anche la crudele frivolezza dei/delle consumatori/trici di una tale sinistra merce.
Tutto ciò non riguarda la sola Danimarca. Precedentemente, già agli esordi di giugno, il governo olandese aveva ordinato l’abbattimento di migliaia di visoni in nove allevamenti-mattatoi destinati alla «produzione di pellicce» Lo stesso era accaduto in Spagna, in particolare in Aragona, e anche l’Irlanda ne progetta l’abbattimento di massa. Inoltre, casi di Covid-19 tra questi mustelidi si sono verificati pure in Italia, Svezia e negli Stati Uniti: qui sono stati già uccisi almeno 15mila visoni.

Certo, le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» e perfino a indossare le spoglie di taluni animali vanno ricercate in primo luogo sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica, alimentare e della moda. Ma va considerato anche il versante soggettivo nonché quelli dell’ideologia, del costume, della cultura. I maltrattamenti, le torture, gli avvelenamenti, le mutilazioni che vengono inflitti agli animali da allevamento non sono percepiti come tali: sarebbe come chiedere a chi produce e a chi consuma una qualsiasi merce di commuoversi per la sua sorte.
Come già scriveva Voltaire nella voce « Sensation» del Dictionnaire philosophique, pubblicato dapprima in forma anonima nel lontano 1764, «se mille animali muoiono sotto i vostri occhi, voi non vi preoccupate affatto di sapere che fine farà la loro facoltà di sentire (…): voi considerate quegli animali come macchine della natura, nate per morire e far posto ad altre».
Ben più tardi, nel 1999, Florence Burgat (1999: 48) avrebbe scritto, a proposito dei corpi animali, che essi sono ormai trattati, percepiti, pensati «come una materia la cui forma vivente è transitoria».
Le condizioni di vita mostruose, il pessimo contesto igienico, di conseguenza lo stress cronico inflitto a questi come ad altri animali «da allevamento», per non dire della somministrazione abituale di dosi abnormi di antibiotici, ne indeboliscono gravemente il sistema immunitario. E’ dunque assai probabile che i mustelidi che hanno contratto il Covid-19 siano stati contagiati da operai e/o allevatori positivi al virus.

Ho prima usato, volutamente, il lemma olocausto a proposito dello sterminio riservato ai visoni, in particolare in Danimarca. Come scrivo da molti anni, v’è una certa continuità concettuale ed empirica fra la de-animalizzazione degli animali, nel contesto della produzione industriale serializzata, massificata, automatizzata, e la de-umanizzazione degli umani che fu compiuta, in modo altrettanto seriale e massificato, dalla macchina dello sterminio nazista.
Non per caso abshlachten («macellare») era il verbo adoperato dagli esecutori nazisti per nominare le stragi dei prigionieri nei lager, programmate e attuate secondo una rigorosa logica industriale. Se v’è una differenza, è che oggi, al contrario, si ricorre a un apparente eufemismo, assai rivelatore: l’allevare e il macellare in massa gli animali da reddito si dice «produrre della carne o della pelliccia» (Rivera 2000, p. 60).
In realtà, l’ideologia della centralità e della superiorità della specie umana su tutte le altre, che finisce per negare ai non-umani la qualità di soggetti di vita senziente, emotiva e cognitiva, è il modello o la matrice dello stesso razzismo nonché del sessismo. La dialettica negativa proposta da Theodor W. Adorno (1979/1951), secondo il quale il sé dell’umano si produce per mezzo dell’attiva negazione dell’altro-da-sé, in primo luogo del non-umano, riguarda anche il rapporto tra uomini e donne nonché tra noi e gli altri: per meglio dire, gli alterizzati e le alterizzate (Rivera, 2010, p.12).

Non solo: il fatto di percepire, considerare e trattare gli animali al pari di cose o merci – di oggetti inerti, dominabili, sfruttabili, manipolabili, sterminabili – può essere considerato come il modello generale di tutti i processi di discriminazione, dominazione, reificazione che investono il mondo degli umani e del sociale. La «bestialità» attribuita a coloro che sono in posizione dominata o subalterna diviene così la garanzia dell’umanità di coloro che sono o soltanto si reputano in posizione dominante.
Tutto ciò è rappresentato esemplarmente dalle stragi di persone migranti che si consumano in particolare nel Mediterraneo, la rotta più migranticida dell’intero pianeta, resa sempre più tale anche per causa della «guerra» condotta dalle istituzioni contro le Ong dedite alle operazioni di salvataggio in mare. Basta dire che dall’inizio di quest’anno sono almeno 900 coloro che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste europee. Per non dire dei tanti e delle tante – ben 11.000 – che sono state riportate/i con la forza in Libia, nei cui lager subiranno trattamenti non molto dissimili da quelli inflitti agli animali da allevamento.

Né servirà a mutare le infami politiche italiane ed europee il sussulto di coscienza di persone comuni, giornalisti/e, intellettuali suscitato dalla tragica vicenda di Joseph, un bimbo di appena sei mesi, originario della Guinea, che era a bordo di una nave rovesciatasi al largo della Libia. Nonostante gli operatori della Ong Open Arms fossero riusciti a sottrarlo alle acque, egli morirà l’11 novembre scorso a causa dello scandaloso ritardo dei soccorsi “ufficiali”.
Che un evento così tragico e struggente come quello del piccolo Joseph non riuscirà a scalfire la fortezza-Europa ce lo insegna la vicenda di Ālān Kurdî, un bimbo di tre anni, figlio di rifugiati curdo-siriani che tentavano, nel 2015, di raggiungere il nostro continente. La foto, assai simbolica, del suo cadavere riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, fece il giro del mondo ed emozionò un gran numero di persone. Ciò nonostante, nulla mutò sul piano delle politiche istituzionali relative ad accoglienza, immigrazione e asilo, né servì, quella foto, a incrinare il sistema-razzismo.
Analogamente, le terribili immagini di migliaia di cadaveri di visoni ammassati hanno fatto il giro del mondo, provocando pietas, sdegno e rabbia. Ma questi sentimenti saranno presto superati se non interverrà la consapevolezza politica della centralità della lotta contro lo specismo, matrice del razzismo e del sessismo, e sempre più ispirato dalla logica cinica del massimo profitto.
Riferimenti bibliografici
Adorno T.W, 1979 (1951), Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino.
Burgat F., 1999, «La logique de la légitimation de la violence: animalité vs humanité», in: F.Héritier (s.l.d.), De la violence II, Ed. Odile Jacob, Paris, pp. 45-62.
Rivera A., 2000, «Una relazione ambigua. Umani e animali fra ragione simbolica e ragione strumentale», in A. Rivera (a cura di), Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo animale, pp. 11-71.
Rivera A., 2010, La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza escludere lo specismo, Ediesse, Roma.
Bene fa Annamaria Rivera a richiamare l’isomorfismo esistente tra lo stragismo sistematico degli animali non umani e quello imposto agli animali umani che viviamo come Altro, nell’indifferenza della colta opinione pubblica occidentale (gli ebrei nell’Europa nazifascista, i sovversivi nell’America Latina del Piano Condor, i migranti nell’attualità dei Paesi Ue e NATO). D’altronde oltre a commuoverci l’ecatombe riservata a 17 milioni di visoni, ci dovrebbe far riflettere che sia possibile ammassare, reificare e trucidare un tale numero di creature viventi, per lucrare sullo status symbol rappresentato dalla loro pelliccia (o dovrei dire pelle?)
Difficile commentare se non con orrore per quanto l’animale uomo coltivi ancora una tale crudeltà e la convinzione di essere al centro dell’universo e l’unico autorizzato a tutto.