Come e perché nasce una guida sul «vino critico».
di Marco Arturi*
«Guardate che quello che avete nel bicchiere
non è mica acqua: è soltanto vino»
(Giovanni Canonica)
Alcuni anni fa un anziano vignaiolo piemontese mi disse nel corso di una discussione: «Il vino si fa con l’uva, non con le parole». Una frase semplice, forse banale, ma che mi è rimasta impressa perché era la prima volta che mi imbattevo in questa sorta di stanchezza per le enormi quantità di chiacchiere e inchiostro (ormai quasi sempre virtuale, ma tant’è) che vengono spese per parlare di vino. Un’insofferenza dietro la quale si celavano dei timori tutt’altro che infondati: quelli generati dalla consapevolezza che la parola è spesso un’arma a doppio taglio – per rendersene conto è sufficiente pensare agli equivoci sorti intorno all’utilizzo del termine naturale – e dalla preoccupazione che l’eccesso di elucubrazioni possa in qualche modo allontanare il vino da sé stesso. Un concetto che sarebbe stato espresso in maniera più compiuta in seguito da un viticoltore più noto, il dottor Rinaldi Giuseppe da Barolo: «Il vino è alle prese con i molti problemi celati dietro la facciata del successo mediatico: i contenuti dei quali è stato caricato sono tali da averlo distanziato dalla terra». Tutto comprensibile e condivisibile: non fosse che il vino, in qualità di bene culturale e strumento di convivialità, ha bisogno delle parole, a patto che siano espressione di una consapevolezza profonda e di una passione incrollabile. Lo sa bene lo stesso Rinaldi, che quando scrive fa un uso dinamico, fluido della parola, quasi a volerle lasciare una via di fuga da infilare in extremis per non fare troppi danni.
Il lessico del vino è stato plasmato in questo paese da diverse penne più o meno celebri, ma sono davvero poche quelle che hanno avuto la capacità di apportare valore aggiunto, di legare vino e parola rendendoli necessari, quasi indispensabili l’uno all’altra. Mario Soldati ha fatto del vino lo strumento e il pretesto per un racconto corale e senza tempo del paese, una sorta di metodo di indagine sociologica, il trait d’union capace di collegare le tante identità diverse della penisola. Per farlo ha scelto di lavorare per sottrazione sul linguaggio, liberandolo da orpelli e svolazzi che lo avrebbero tenuto lontano dal grande pubblico, ma senza banalizzarlo. Non c’è vero appassionato che non abbia viaggiato i territori e le persone del vino insieme a lui. Tra i contemporanei nessuno sa spiegare e indagare il vino come Sandro Sangiorgi, che continua a dotare quello che lui stesso ha definito «liquido odoroso» di un dizionario tecnico e sentimentale al tempo stesso, in una sorta di geografia emozionale dalla quale è ormai impossibile prescindere se si vuole davvero comprendere quello che ci viene comunicato da ciò che troviamo dentro al calice. Luigi Veronelli, infine, ha addirittura reinventato il modo di comunicare il vino, scuotendolo dalle fondamenta con un linguaggio immaginifico, istintuale e di irripetibile efficacia. Da vero anarchico che ha sempre creduto nella responsabilità individuale, ha lasciato in eredità a tutti noi che ci dibattiamo tra parola e calice una dotazione di strumenti estremamente maneggevoli per farlo: a ognuno, appunto, la responsabilità di utilizzarli al meglio.
Ora, figurarsi se a uno come Veronelli poteva sfuggire la connotazione politica del vino, che per tramite della sua forza comunicativa è capace di aggregare, contrapporre, appassionare. Senza contare il confronto tra modelli stimolato dalla viticoltura e dall’enologia: metropolitano e campagnolo, industriale e contadino, omologato e libero. E allora ecco prendere vita il lessico critico del vino, che per la prima volta viene associato ad aggettivi come sovversivo, eversivo, dissidente. Ancora oggi molti rimangono perplessi di fronte all’utilizzo di una terminologia del genere, senza capire che quando Veronelli cominciò ad adottarla era – e a maggior ragione lo è di questi tempi – semplicemente necessaria, a patto di saperla interpretare con la dovuta distanza e con il gusto della metafora. Il vino è sovversivo in virtù del suo essere testimonianza di varietà e differenza in un’epoca di omologazione globalizzante, come lo è nella sua dimensione di racconto della terra; è dissidente quando è espressione di una filosofia produttiva o di un approccio commerciale non piegato alle esigenze del marketing, quando rifiuta il ruolo di status symbol che molti vorrebbero attriburgli; è ribelle perché è concepito in aperta e dichiarata contrapposizione con mode e tendenze, per l’ostinazione contadina che lo contraddistingue o semplicemente perché è il vignaiolo a esserlo. Parliamo del vino che racconta storie, che è godibile e bevibile al di là del dato organolettico, che guarda da un paradigma diverso l’agricoltura, il rapporto con il territorio, il modello economico e quello di relazione imperanti: ecco perché questa guida si chiama Vino critico.
I vignaioli e i vini che trovate nelle pagine che seguono non sono necessariamente i migliori, anche se la qualità media dei prodotti è elevata non meno del livello etico dei produttori. Il minimo comune denominatore è rappresentato dal legame profondo con il territorio e dalla vocazione alla convivialità. Ad accomunare tutti i produttori presenti sono la scelta socialmente e ambientalmente sostenibile e una condotta commerciale etica: praticamente tutti hanno infatti scelto di aderire a qualcuna delle associazioni di settore, molti prendono regolarmente parte a manifestazioni della galassia critical wine e cercano di servirsi di canali di distribuzione alternativa o di ridurre quanto più possibile la distanza tra loro e chi il vino lo acquista. I vini sono in genere contraddistinti da piacevolezza e facilità di beva, duttilità negli abbinamenti e predisposizione all’invecchiamento. Di sicuro, non sono in nessun caso prodotti costruiti, afflitti da forzature produttive o da pose caricaturali: nell’elenco a seguire troverete ben poche di quelle che il vignaiolo laziale Gian Marco Antonuzi definisce con una certa efficacia «seghe intellettuali». In due parole, parliamo di vini che invogliano al bicchiere successivo e alla condivisione.
Ci siamo prodotti nello sforzo di realizzare uno strumento agile e comprensibile, una guida che rispetti almeno in parte la funzione pedagogica che dovrebbe essere propria di tutte le pubblicazioni di questo tipo. Niente punteggi né classifiche o buoni sconto, va da sé che non è il caso: piuttosto un compendio figlio dell’esperienza sul campo di Officina Enoica arricchito da cenni alle storie dei vignaioli, ognuna delle quali – ve lo garantiamo, e questa è una delle cose che rende più piacevole avere a che fare con i viticoltori artigiani – è meritevole di un racconto. L’invito che rivolgiamo è dunque quello di servirsi di questo strumento per recarsi direttamente da loro, da questi contadini critici, per conoscere le loro storie, delle quali i prodotti sono testimonianza e conseguenza. Perché alla fine dei discorsi la viticoltura che è in grado di esprimere una posizione critica lo è perché è forte di una vicenda autentica. L’universo che trovate nelle pagine che seguono è popolato da un’umanità comune, vera, contadina che sarebbe bene cogliere al di fuori delle etichette e delle definizioni – naturale, biodinamico, biologico – che, per quanto utili, si sono rivelate riduttive o addirittura dannose, come accade spesso quando i grandi interessi economici sferrano un attacco alla dimensione artigianale.
Vino critico è un indirizzario dell’enodissidenza, la mappa per un viaggio in quell’Italia contadina che si ostina a resistere e a proporci un modello differente, una via d’uscita da una crisi che è etica prima ancora che economica. Servitevene per andare a scoprire i luoghi nei quali il vino è davvero sovversivo, vale a dire uguale a sé stesso. L’utopia possibile di Valli Unite, la cantina-garage di Andrea Tirelli, il Brunello umile e umano di Marino Colleoni, la contadinità consapevole di Eugenio Barbieri, la Calabria ribelle e ambiziosa di Francesco De Franco e dei ragazzi dell’Acino, la comunanza di Aurora, la vigna ribelle piantata da Baldo Cappellano, il progetto enoculturale di Cantina Giardino, il Merlot alpino di Fabrizio Priod, la comune anarchica e libera di Urupia, le fermentazioni antiomologanti di Crocizia, Donati e Loris Follador, i progetti solidali di Clarabella e Paterna, le vigne terrazzate della viticoltura eroica di montagna e quelle occupate dall’arroganza del potere in Val di Susa sono solo alcune delle molte tappe possibili di questo viaggio, nel quale vi imbatterete in vini irripetibili e in un’umanità viva e autentica. E dal quale tornerete con la consapevolezza che sì, un mondo diverso è ancora possibile.
Marco Arturi si occupa da molti anni di vino e di vignaioli, ma anche di lotte operaie come delgato Fiom. Ha collaborato per alcuni anni con Carta, curando la rubrica Enodissidenze, ed è compagno di strada da sempre di Officina Enoica (Oe) «associazione di enodissidenti e social sommelier». Insieme a molti altri, sulla scia di quanto seminato da Gino Veronelli (una delle filiazioni del progetto Critical Wine e dell’adoperarsi di Veronelli è stata proprio Oe), si è messo in testa di sostenere i vignaioli artigiani e naturali, organizzando fiere, degustazioni e iniziative culturali per stimolare un consumo critico. Il guaio è che in molti si lasciano inebriare da tipi come Marco e da associazione come Oe, che ha curato «Vino critico» (edizioni Altreconomia, 208 pagine, 10 euro), di cui abbiamo pubblicato in questa pagina l’introduzione scritta da Marco Arturi. La splendida guida alla viticoltura enodissidente la trovate in libreria, nelle botteghe del commercio equo e sul sito altreconomia.it. Sarà presentata nei prossimi giorni a Bologna (Gusto nudo, 24 marzo), Torino (Enodissidenze, 12 maggio) e Asti (Vinissage, 26 maggio).
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