Mirtha Luz Pérez Robledo, la mamma di Nadia Vera, la ragazza torturata, violentata e uccisa il 31 luglio a Città del Messico, ha molte domande da porre alla Procura della capitale messicana. Lo fa (non a caso) dal Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas, in Chiapas, dove vive e dov’era nata anche sua figlia. E lo fa senza dimenticare nessuna delle molte incongruenze che ha mostrato un’autorità giudiziaria troppo preoccupata di seguire frettolosamente la pista della rapina ignorando le precise e pesantissime responsabilità indicate dalle vittime. A seguire, una bellissima lettera aperta alla comunità artistica internazionale per non dimenticare Nadia e quel che ha dato un senso alla sua vita

di M. C.
A quasi due settimane dalla morte di Nadia, Mirtha Luz Pérez Robledo, la mamma della giovane antropologa torturata, violentata e assassinata il 31 luglio a Città del Messico, ha trovato la forza di far sentire la sua voce dal Chiapas, dove vive e dove era nata anche Nadia.
La signora Perez Robledo chiede spiegazioni alla Procura generale del D.F., cioè della capitale, per il comportamento tenuto in occasione dell’omicidio di Nadia, delle altre ragazze e del fotografo amico di sua figlia, Rubén Espinosa. Dal Centro dei diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas, la signora Perez Robledo ha fatto sapere di voler conoscere le ragioni per le quali le autorità della capitale non hanno voluto tener conto del contesto di violenza che impera a Veracruz, la regione da cui Nadia e Rubén si erano allontanati in seguito alle gravi minacce ricevute.

Il governatore Duarte, accusato ripetutamente da Nadia e Rubén di essere il solo responsabile di quel che sarebbe potuto accadere loro, ha “scelto” di deporre volontariamente sul caso spiegando, a media attenti e molto ben disposti, di essere del tutto estraneo ai fatti. Una mossa politica indispensabile quanto scontata. Peccato che in questi giorni a Veracruz, per varie e diverse ragioni, altri due giornalisti abbiano perso la vita ben lontani dal proprio letto.
Il Messico, si sa, è un paese dove è sempre più difficile distinguere le istituzioni statali dalla criminalità organizzata, come scrive da mesi su queste nostre pagine Gustavo Esteva, ma la situazione della violenza che colpisce i giornalisti a Veracruz è davvero impressionante. Per farsene un’idea, basta cercare in rete una delle molte interviste rilasciate da Rubén Espinosa. Il fotografo dei movimenti sociali era stato descritto da più fonti come preoccupatissimo. Una delle principali motivazioni del suo nervosisimo era di certo la scelta di aver fornito una foto del governatore di Veracruz Duarte in una delle sue tipiche e quantomai significative espressioni per la copertina del giornale “Proceso”. “Smetti di fare foto o farai la fine di Regina Martinez “(un’altra giornalista del Proceso uccisa), gli avevano detto minacciose, persone che non poteva certo classificare come amiche.

Tra le molte cose che sembrano inquietanti alla madre di Nadia, c’è naturalmente la ragione per la quale le autorità si siano tanto affrettate a far filtrare alla stampa il movente della rapina scartando invece quello indicato (e documentato) con precisione sia da Nadia che da Rubén. A quanto riferisce El Pulso, quotidiano di San Luis, la signora Pérez Robledo attende con comprensibile ansia di conoscere “quali dichiarazioni rilevanti abbiano fatto i testimoni chiave sul caso”, mentre non riesce a spiegarsi perché le attività di Nadia in difesa dei diritti umani non possano essere considerate un “fatto che l’ha collocata in una situazione di vulnerabilità”. Così come non sarebbero “fatti” significativi il contesto di violenza e insicurezza e l’aggressione diretta da parte di rappresentanti dello Stato di Veracruz nei confronti di gruppi di studenti e attivisti ai quali Nadia ha appartenuto (il movimento studentesco di Yo Soy 132, per citarne uno)
Da un punto di vista che potremmo definire più “tecnico”, se l’espressione non facesse rabbrividire pensando alle torture subite da Nadia, la mamma si domanda inoltre cosa comporti il fatto che l’arma utilizzata per dare il colpo di grazia a sua figlia fosse stata utilizzata per la prima volta e che fosse fornita di silenziatore. Oppure perché alla sola abitante dell’appartamento in cui sono avvenuti i delitti sopravvissuta sia stato consentito di disporre delle sue cose anche al di fuori delle procedure previste.
Non mancano, infine, le domande sulle notizie fornite prima che agli avvocati alla stampa, con il rischio di mettere in pericolo la vita dei familiari delle vittime. D’altra parte, non a caso, a quei familiari – e agli amici dei ragazzi uccisi – è stato impedito perfino di deporre.
Myrtha Luz Pérez Robledo ha infine ringraziato per il sostegno le organizzazioni sociali e ha chiesto loro di continuare a seguire con attenzione lo sviluppo delle indagini. “La vostra solidarietà è ciò che ci sostiene di fronte a tanto dolore. Abbiamo bisogno di restare uniti per esigere indagini esaustive. Per questo vi invitiamo nuovamente a rimanere vigili sugli sviluppi delle indagini. Non ci abitueremo alla violenza”, ha concluso.

Lettera aperta alla comunità artistica internazionale
Siamo estremamente addolorati, sgomenti, infuriati per l’assassinio e la tortura a cui sono stati sottoposti Yesenia, Alejandra, Mile, Nadia e Rubén in un appartamento del centro di Città del Messico lo scorso 31 luglio. Non è un caso isolato, evidenzia l’escalation della violenza che si vive in tutta la Repubblica messicana; la matematica del terrore sotto la quale viviamo aggiunge giorno dopo giorno migliaia di desaparecidos, assassinati, ingiustizie e un patto di impunità firmato dai nostri governanti. L’indignazione che sentiamo è molto forte e le strategie per far fronte ai fatti ci sono ancora sconosciute.
Diversi di noi conoscevano bene Nadia Dominique Vera Pérez, una delle vittime, nostra collega per il suo lavoro nella danza come agente e promotrice di eventi culturali. Produceva il festival internazionale dell’arte dello spettacolo contemporanea Cuatro X Cuatro nella città di Xalapa dello Stato di Veracruz, un festival importantissimo per la diffusione e lo sviluppo della danza messicana. Ha collaborato alla produzione, tra le altre cose, de il festival di cinema Oftalmica nella stessa città e, di recente, stava organizzando il tour in Messico del musicista spagnolo Albert Plá. Come antropologa, poi, Nadia credeva fermamente nel potenziale delle arti per la trasformazione sociale, e agiva di conseguenza. Praticava anche un’attività politica molto energica in favore dei diritti umani, a favore della libertù di espressione e contro le ingiustizie di un governo repressivo e in solidarietà con tutte le vittime, i morti e i desaparecidos del nostro paese. In più di una occasione, Nadia ha espresso il suo timore: si sentiva sorvegliata, schedata perché in diverse occasioni era stata minacciata a causa della sua attività politica nello stato di Veracruz.
Ci sembra importante far conoscere quel che ha fatto, parlare di lei, mettere in luce la sua identità al di là del suo corpo violentato o della sua foto che circola. Almeno nominarla…pensarla e sottolineare la gravità di questi fatti inammissibili che sentiamo tanto vicini. È stato assassinato anche Rubén Espinosa, fotoreporter specializzato nel documentare i movimenti sociali e le espressioni artistiche, amico di Nadia, fotografo del festival Cuatro X Cuatro, minacciato di morte dal governo di Veracruz. Consideriamo altrettanto importante parlare di Yesenia Quiroz Alfaro, Mile Virginia Martín y Alejandra Olivia Negrete. Malgrado disgraziatamente sappiamo poco di loro e per adesso possiamo soltanto nominarle, sono state esseri umani, vite preziose con amici, famiglie, progetti, personalità e storie.
Abbiamo bisogno del vostro aiuto e della vostra collaborazione. Abbiamo bisogno che il mondo intero parli di quel che è accaduto perché non possa continuare ad accadere. Viviamo in Messico, nel paese in cui oltre il 90 per cento dei delitti resta impunito, dove la violenza di Stato si esercita ogni giorno con maggiore cinismo, dove la nozione stessa di giustizia sembra essere inaccessibile. Il nostro paese crolla, la violenza imperversa e ogni volta corriamo più pericolo.
Nadia era un elemento fondamentale per l’arte in Messico, per la danza, e in quanto appartenenti a una comunità internazionale che cerca di riflettere, sentire ed esser critica, crediamo di essere uniti in questo. Una persona della nostra comunità – che l’avessimo conosciuta o no, che ci somigliasse dal punto di vista estetico o meno, che siamo messicani o no – è stata torturata e assassinata in uno Stato fallito. La morte di Nadia riguarda il mondo dell’arte in tutto il mondo. Ci riguarda tutti. La pressione internazionale è uno dei pochi mezzi di protezione efficaci. Vi chiediamo di pronunciarvi con noi, e visto che molti di voi si presentano a un pubblico, parlano, scrivono, proiettano, espongono…Vi chiediamo di trovare un momento nelle vostre rappresentazioni per parlare dei cinque (assassinati, ndt). Pensiamo sia importante parlare di questo negli spazi di scambio diretto di emozioni. Per quelli che non ci sono più ma anche per noi che restiamo.
Mai più. Né Nadia né altri.
“Sorella mia ti trovo nel vento”
Persone che fanno parte della comunità dell’arte in Messico
(traduzione di Comune-info)
TORTURATO IL CAPRO ESPIATORIO?
In un’intervista al settimanale “Proceso”, la rappresentante della Commissione per i diritti umani di Città del Messico dice di temere che il solo arrestato dalla polizia sia stato torturato per rendere credibile il suo ruolo di capro espiatorio e coprire le responsabilità politiche del massacro di Nadia Vera, Ruben Espinosa e delle altre vittime
Para la Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal, la procuraduría capitalina ha incurrido en numerosas y graves irregularidades al investigar el multihomicidio de colonia Narvarte, donde una de las víctimas fue Rubén Espinosa, colaborador de este semanario: ha actuado a base de prejuicios y discriminación, presuntamente torturó al único detenido y, sobre todo, a ciertos medios les ha filtrado información parcial o distorsionada para crear la sensación de que las víctimas se “merecían” lo que les pasó. En entrevista con Proceso, la titular de la CDHDF, Perla Gómez Gallardo, manifiesta su temor de que el caso se siga desvirtuando y se pase por alto la línea de investigación que conduce a la capital veracruzana.
MÉXICO, D.F. (Proceso).- Filtraciones orientadas a descalificar a las víctimas, discriminación, omisiones en la indagatoria y la presunción de maltratos o tortura al único procesado por el multihomicidio de la colonia Narvarte –donde murió Rubén Espinosa, colaborador de este semanario–, son algunas de las irregularidades cometidas por las autoridades y que a dos semanas de los hechos destaca en entrevista la presidenta de la Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal (CDHDF), Perla Gómez Gallardo.
Ante un caso escandaloso –en el cual además de un fotoperiodista, entre las víctimas hay una activista de los derechos humanos, Nadia Vera, y otras tres mujeres, Alejandra Negrete, Yesenia Quiroz y la colombiana Mile Virginia Martín, y donde se señala la responsabilidad del gobernador de Veracruz, Javier Duarte– Gómez Gallardo determinó abrir dos quejas: una por posibles violaciones al debido proceso y otra por agravios a la libertad de expresión y a grupos vulnerables.
Tras manifestarse contra las filtraciones a varios medios, entre ellos Televisa, en violación a las medidas precautorias emitidas por la CDHDF el sábado 1, Gómez Gallardo revela que peritos médicos analizan los dictámenes del Protocolo de Estambul, aplicado a Daniel Pacheco Gutiérrez, procesado por feminicidio agravado, homicidio calificado y robo en pandilla, a fin de determinar si en su caso hubo maltrato o tortura.
Como ocurrió con José Antonio Hernández, acusado de la muerte de la corresponsal de Proceso en Veracruz, Regina Martínez, Pacheco alegó haber sido torturado por los agentes que lo aprehendieron.
Aunque ante la juez Hermelinda Silva se reservó el derecho a declarar cuando fue consignado, el jueves 6, Pacheco decidió hablar de esos presuntos abusos el viernes 7 y el sábado 8, cuando funcionarios de la Primera Visitaduría de la CDHDF ingresaron al Reclusorio Oriente para tomar su declaración y aplicarle las pruebas del Protocolo de Estambul.
En la fotografía del indiciado, que las autoridades enviaron a los medios, en el rostro del exconvicto –cumplió una condena de nueve años por violación y robo– se aprecia un hematoma en el ojo izquierdo, mismo que se ve entrecerrado por la inflamación.
En sus declaraciones ministeriales, filtradas a algunos medios, Pacheco se habría abstenido de presentar una querella contra sus aprehensores y habría dicho que los golpes que presentaba se los había provocado al resistirse a la captura.
Gómez Gallardo explica que el organismo “está configurando la investigación para determinar si el tipo de lesión que presenta (Pacheco Gutiérrez) tiene que ver con la propia detención, en el uso adecuado de la fuerza”.
La titular de la CDHDF admite que por el momento la institución no puede pronunciarse sobre presunta tortura sufrida por el detenido, pues apenas se analizan su declaración y las pruebas del Protocolo de Estambul (método psicológico y médico para determinar maltrato y tortura).
(Fragmento del reportaje que se publica en la revista Proceso 2024, ya en circulación)
http://www.proceso.com.mx/?p=413017