La conversazione tra un gruppo di rifugiati di diverse provenienze (Burkina Faso, Kurdistan iracheno, Siria, Somalia, Sudan, Ucraina) e alcuni attivi rappresentanti del pacifismo traccia un percorso di identificazione reciproca che supera le latitudini, prende linfa dalle storie individuali, ma allo stesso tempo le trascende in un discorso comune che – forse inaspettatamente – trova tanti punti di contatto proprio nell’essere “contro la guerra” non in modo astratto, ma autenticamente incarnato. La consapevolezza che “la guerra non ha nessun vincitore”, e che al contempo interrompere la spirale di violenza è compito assai arduo, motiva i partecipanti a esplorare insieme possibili strategie per disinnescare incomprensione, non accettazione, contrapposizioni sterili, senso di superiorità, vendetta, ovvero quegli elementi che fanno proliferare i conflitti. Creare una massa critica di persone contrarie alla guerra, anche nei paesi in cui imperversa da generazioni, non è impossibile, a patto di investire nella direzione giusta. E di farlo tutti insieme.
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Una conversazione di grande interesse, raccolta dalla rivista Quaderni della decrescita, di Chiara Marchetti con Ahmed, Anastasia, Danilo, Emilio, Issa, Khalid, Mohamed, Rima, Rosi, Zirak
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«La guerra non finisce mai». O forse sì?
«Piuttosto che dire che noi siamo per la pace, io preferisco dire che siamo contro la guerra, perché essere contro la guerra vuol dire mobilitarsi continuamente. Questo, secondo me, stabilisce una relazione, una comunicazione con le persone come voi che hanno davvero conosciuto la guerra. Perché sia noi che voi stiamo parlando contro la guerra. Io sono sempre stato in modo assoluto contrario alla guerra e contrario alle armi, tant’è che ho fatto l’obiettore di coscienza; quindi, la contrarietà all’uso delle armi è un pensiero che ho da quando ero bambino. Quindi mi è diventato normale, conseguente, essere contro la guerra. E cercare di organizzarmi con altre persone che pensano in questo modo». Emilio, presidente del Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione Internazionale (CIAC), traccia da subito il legame tra chi, da italiano e cittadino di un paese formalmente non in guerra, opera quotidianamente per togliere forza e legittimità alle politiche belliche, e chi è arrivato in cerca di protezione, fuggendo da paesi in cui la guerra è pienamente combattuta.
La conversazione tra un gruppo di rifugiati di diverse provenienze (Burkina Faso, Kurdistan iracheno, Siria, Somalia, Sudan, Ucraina) e alcuni attivi rappresentanti del pacifismo si dipana con intensità crescente, con continui rimandi e risonanze, che vanno a tracciare una mappa semantica e un percorso di identificazione reciproca che supera le latitudini, prende linfa dalle storie individuali, ma allo stesso tempo le trascende in un discorso comune che – forse inaspettatamente – trova tanti punti di contatto proprio nell’essere “contro la guerra” non in modo astratto, ideologico, ma in modo autenticamente incarnato nelle esperienze passate e nella quotidianità che si cerca, faticosamente, di vivere e ricreare qui ed ora.
Tra i partecipanti, c’è chi nella guerra è cresciuto, trovandosela in eredità dalle generazioni precedenti. Khalid si presenta così: «Io sono nato in una città che si chiama Giohar, nel sud della Somalia, dove c’è sempre la guerra. È facile far iniziare una guerra, ma è molto difficile farla finire. Noi continuiamo a sentire di nuove guerre che scoppiano, di città in città, ma non arriva mai la notizia di una guerra che finisce». Gli fa eco Ahmad, dal Sudan: «Anche io sono nato in un paese in cui c’è sempre la guerra sia a nord che a sud. È dal 2003 che c’è la guerra civile». C’è chi – come Zirak – non solo è cresciuto nella guerra, ma anche in una patria senza Stato: «Sono un curdo, sono un curdo iracheno. Il Kurdistan non esiste ancora come paese, ma come patria esiste. Quindi noi capiamo benissimo la violenza, le vittime delle guerre, il non accettarsi. I nostri genitori sono cresciuti nella guerra per colpa del non accettarsi».
Ma anche chi è nato in Italia può avere una memoria precoce di cosa significa crescere in un contesto segnato dalla guerra. Danilo, presidente a Parma della Casa della Pace, ricorda: «Io sono nato subito dopo la Seconda guerra mondiale, qualche anno dopo, quindi c’erano ancora tutte le distruzioni. In parte l’abbiamo visto in prima persona e in gran parte ci è stato raccontato». Anche Rosi («Come nickname: Rosipace. Un nome, un destino») torna con la memoria ai primi anni della sua vita: «Da quando ero bimba, ho sempre percepito il senso dell’ingiustizia, la non sopportazione di sapere che ci sono persone che vivono nella continua disuguaglianza. Questo pensiero mi ha poi indirizzata nella mia vita a occuparmi di queste cose, a occuparmi di pace. Per me la percezione della guerra è stata la percezione dell’ingiustizia e della disuguaglianza. Questo star male di un’altra parte del mondo così vasta. È stato questo che mi ha spinto sempre: la percezione della disuguaglianza, dell’ingiustizia, di tutto quello che noi abbiamo fatto a tutti gli altri popoli».
Issa, dal Burkina Faso, va ancora più indietro nel tempo, all’origine storica del suo paese. O meglio: al modo in cui viene insegnata e tramandata da chi ha il potere. «A scuola ci insegnano che a fondare il regno del Burkina Faso è stata una principessa originaria del Ghana che si è imbattuta in un cacciatore, che faceva parte di un’etnia presente su quel territorio. Io faccio parte di quell’etnia. Nella storia che si studia in Burkina si parla della principessa venuta dal Ghana ma non si parla del cacciatore. Si parla del figlio che è nato dalla loro unione, ma non si parla di suo padre. E quelli che sono venuti dopo, si dice che loro sono forti. Anche se sono il frutto dell’unione di due etnie diverse, non si parla mai di quella del padre. Ora sono i discendenti di quel bambino ad avere il potere e decidono anche quello che si impara a scuola. Quelli che fabbricano le armi, quelli che le vendono, trovano terreno fertile perché le persone del posto non hanno fatto il possibile per prevenire la guerra, per fare in modo che non scoppi. Perché la guerra scoppierà prima ancora che arrivino coloro che sfruttano la guerra. Non è nemmeno necessario che la facciano iniziare».
Dalla storia antica a quella più recente, l’esperienza di chi fugge dalla guerra ha alcuni tratti in comune, tra cui il perdurante senso di paura che non si arresta nemmeno quando si raggiunge un approdo sicuro: «Veniamo dal sud dell’Ucraina, da una città che si chiama Cherson. Quando la guerra è iniziata eravamo a casa nostra e abbiamo vissuto per 8 mesi a casa nostra mentre c’era la guerra, l’occupazione russa e poi siamo partiti per venire in Italia. A me la parola guerra richiama il surrealismo. È davvero surreale. Perché c’è una forza che non puoi controllare, c’è paura, c’è sempre paura. E anche adesso che siamo qui in Italia, è tutto a posto, ma continuiamo a vivere pensando al nostro paese. È difficile vivere con la testa divisa tra due parti: dove c’è la pace, qui, e dove c’è la guerra, lì. Perché per esempio i miei genitori sono ancora nella nostra città, a Cherson», confida Anastasia.
La paura è la parola chiave anche del ricordo di Mohamed, giovanissimo studente siriano fuggito da suo paese con la famiglia quando aveva solo sei anni: «Vivere la guerra è una delle cose più terribili, che non augurerei neanche al mio nemico, perché vedi la morte davanti ai tuoi occhi e tu provi solamente a fuggire. Spero di essermi spiegato bene. Tu sei un essere umano indifeso. Sei un bambino che ha paura della morte di tuo padre, di tua madre o dei tuoi fratelli o la tua stessa morte». Sua madre Rima, anche a distanza di anni, non è riuscita a lasciarsi la guerra alle spalle: «Adesso siamo qua in Italia al sicuro, non c’è la guerra, ma quando dormiamo in sogno arriva solo la guerra. Siamo usciti dalla guerra da più di cinque anni, ma fino a questo momento, quando dormiamo, i nostri sogni ci riportano dentro la guerra. Abbiamo perso la famiglia, l’amore, gli amici, la vita. Abbiamo perso tutto, abbiamo perso tutto. Qua siamo come una bambola che mangia, dorme, sente. Non abbiamo nient’altro. La guerra ci ha rubato la vita. Io ho vissuto i primi tre anni di guerra in Siria, dopo sono scappata a cercare la vita, sono scappata fino in Libia. E lì è cominciata un’altra guerra. Noi, la nostra famiglia, avevamo paura di uscire, siamo rimasti chiusi casa per più di quindici giorni senza niente, senza luce, acqua, gas. E senza niente da mangiare. Senza niente per più di quindici giorni. Alla fine, abbiamo deciso. O moriamo di fame o moriamo nel mare. Ma non riuscivo a vedere i miei figli morire di fame, quindi siamo usciti e abbiamo preso la via del mare. Pensavo: magari uno dei miei figli o uno di noi riesce a sopravvivere. Almeno uno. Ma se rimaniamo chiusi in casa, moriremo tutti, sei persone. Non è facile vedere davanti i propri occhi i figli morire. Quindi siamo scappati. Il viaggio in mare è durato un giorno. Non ricordo tanto ma so che davanti a me vedevo scorrere tutta la mia vita. Perché anche scappare in mare è peggio della guerra. Puoi perdere la tua vita, così, in un secondo. La guerra per noi non finisce mai, non finisce. Noi siamo qua solo per cercare di dare un futuro ai nostri figli. Non possiamo pensare ad altro».
Assumendo una chiave non autobiografica ma più politica, una parola di speranza arriva da Danilo: «C’è stato qualcosa di importante dopo la guerra: ovvero che chi era in guerra è riuscito a mettersi d’accordo. Io credo che questa speranza che c’è stata in Europa, di chi per secoli si è combattuto, si è ucciso con stragi terribili e poi è riuscito a mettersi d’accordo, questo secondo me è un elemento di speranza molto importante. Perché dimostra che non è detto che le guerre non possano finire. In Europa non era mai capitato che per ottant’anni ci fosse la pace. Mai in passato c’era stato un periodo così lungo, mai era successo che si potesse passare da un paese all’altro solo con una carta d’identità, senza bisogno di niente altro. Ma soprattutto, secondo me, la cosa più importante, è che sono state fatte delle leggi contro la guerra. Perché dalla Fondazione dell’ONU ai diritti umani, oggi tutte le leggi sono contro la guerra, per cui oggi siamo in una posizione importante. Oggi chi fa la guerra è contro il diritto internazionale e questo è molto importante perché questo lo possiamo dire».
Certo, una visione non ingenua della pace costruita in Europa, deve tenere conto del ruolo attivo del nostro continente (e più generale dei paesi ricchi e del nord del mondo) nel mantenere altre intere regioni in uno stato di guerra permanente e proprio alla luce di queste implicazioni, di questa “altra metà della storia”, dobbiamo assumere una postura relazionale – a livello micro, interpersonale, e a livello macro, nella geopolitica dei rapporti nord-sud – che si impegni in nuove forme di responsabilità, globale e locale. Perché le grandi potenze – Unione Europea compresa – non sono estranee a ciò che accade in quelle aree in cui le guerre continuano a fare vittime. Dice Zirak: «Loro possono fermare la guerra con il dialogo, possono fermarla. Perché non lo fanno? Perché hanno interessi di vendere le armi. Noi siamo paesi piccoli, siamo come pecore. Ci sono 7 paesi, 5 paesi che decidono e basta». Paesi piccoli, ma ricchi di risorse, come ricorda Ahmad, che per questo attraggono le mire degli Stati e degli attori economici più forti e spregiudicati: «Tutte le guerre in Africa e in Medio Oriente non finiscono, non è facile. Non è impossibile, ma sono i continenti più ricchi, e tutti gli occhi vanno lì. Anche questi paesi che mandano le armi nelle zone di guerra: non è gratis. Dopo, quando la guerra finisce, questo si paga». Sulla stessa linea di pensiero, prosegue Emilio: «Dobbiamo rinunciare a quelle forme economiche per cui noi andiamo in un altro paese e vogliamo prendere le risorse senza pagarle o pagandole poco. Adesso si chiama neoliberismo, una volta si chiamava colonialismo. Ma è la stessa cosa. In Africa c’è sempre qualche altra potenza che va a prendere le risorse. Dobbiamo pensare che nel mondo abbiamo tutti gli stessi diritti. Quindi tutti devono avere il diritto a godere delle proprie risorse. E dobbiamo pensare che ci sono delle questioni comuni, per esempio tutti dobbiamo fare in modo che le persone non debbano scappare dal loro paese, che non abbiano dei problemi così gravi. E tra i problemi gravi c’è anche il cambiamento climatico. Allora dev’essere una responsabilità di tutti. Perché la terra è di tutti, e tutti dobbiamo fare in modo che questi problemi si riducano o non ci siano più».
Alle radici della guerra
«Io credo che la guerra nasca perché uno si sente superiore dell’altro e non accetta il diritto di chi ha di fronte» (Zirak). «La guerra ha inizio nell’incomprensione e nella non accettazione dell’altro» (Issa). «Il problema è nella mente delle persone, perché tutte le guerre iniziano quando il mondo diventa o bianco e nero» (Anastasia). «La guerra è sbagliata in tutti i sensi. In senso fisico e in senso spirituale» (Mohamed). «Alcuni vanno in guerra e muoiono lì e lasciano fratelli, figli piccoli. E quando crescono, capiscono che qualcuno ha ucciso il loro padre o il loro fratello. E anche loro prendono le armi per andare a uccidere. E così la guerra continua sempre» (Ahmad). Incomprensione, non accettazione, contrapposizioni sterili, senso di superiorità, vendetta. I rifugiati elencano quelli che per loro sono gli elementi che fanno proliferare i conflitti. Li fanno nascere, a volte in modo così assurdo e banale che è persino difficile ricostruirne la genesi. La soprattutto li fanno prosperare, li alimentano, rendono più difficile – quasi impossibile – pensare a delle alternative. Le guerre iniziano spesso nella banalità e nella futilità di piccoli screzi, di differenze elette ad arte a radicali incompatibilità, ma prosperano nell’incapacità di vedere, immaginare, costruire dei futuri alternativi.
Secondo Issa, «ci possono essere due comunità che possono avere dei piccoli problemi. Ma se non siamo in grado di risolvere questi piccoli problemi, se non c’è dialogo, questi piccoli problemi possono diventare più grandi. Come un fuoco che è in basso, nell’erba. E in basso l’erba è secca mentre più in alto è bagnata. Ma gradualmente il fuoco divampa dall’erba secca e prende anche quella bagnata. Io l’ho visto accadere. Da noi ci sono delle comunità, delle etnie, e si comincia a dire: “tu sei di quell’etnia, tu non sei una brava persona. La tua etnia è debole. Mentre la mia è grande e forte”. All’inizio sembra una presa in giro, un po’ scherzosa, ma poi diventa seria. E gradualmente, se non c’è qualcuno che dice: “è ora di smetterla”. Quando non c’è dialogo, ciascuna parte rinuncia a comprendere l’altro e si arriva allo scontro, all’aggressione. E in quel momento ci sono altre persone che si aggiungono, da una parte e dell’altra. Soffiano sul fuoco. E dicono: “non si può accettare questa aggressione”. E così si arriva a un conflitto, a una guerra. Ed entrano in gioco le armi, l’economia. E gradualmente diventa sempre più complicato fermarsi. La guerra cresce ed è difficile arrivare una composizione pacifica. Perdono tutti nella guerra. Anche se io dico: ho vinto, in realtà perdono tutti. Perché tutti perdono qualcosa. Non si può fare la guerra senza perdere: dei parenti, degli amici». Per capire l’insensatezza della guerra, basterebbe infatti ricordarsi nelle vittime che si moltiplicano in entrambi i fronti, come sentiamo chiaramente nelle parole di Zirak: «La guerra è la cosa più terribile che esiste nel mondo. Nella guerra ci sono sempre vittime e non porta mai alla pace. Nella guerra nessuno vince».
E questo ciclo continuo di vittime non può che generare nuove aggressioni, nuove perdite, nuove vittime. In una spirale apparentemente senza fine: «La guerra va sempre avanti. Se uno ha iniziato a fare la guerra, l’altro continua a reagire. Se ci sono due persone che litigano oggi, che si fanno la guerra, se uno di loro ci pensa un po’ di più, magari vede il futuro e si rende conto che la guerra non porta alla pace, se riesce a guardare un po’ più avanti. Ma quando inizia la guerra ognuno guarda quel momento che c’è, ma non vede il futuro. Non solo a cosa provocherà degli adulti, ma anche in chi nascerà. Chi nasce nella guerra, cresce nella guerra e conoscerà solo la guerra. Non conoscerà altro che la guerra», ricorda amaramente Khalid. E la morte anche di una sola persona distrugge il presente e il futuro di intere famiglie, di intere comunità. Ahmad dice: «Se una persona viene uccisa, questa persona ha una famiglia, ha dei bambini, ha amici, quindi tutte queste persone vengono colpite, non solo quella persona. Se vengono uccise 100 persone, tante famiglie magari hanno perso l’unica persona che lavorava e provvedeva alla famiglia. Quando c’è una guerra, in quel paese non c’è sviluppo, si distrugge sempre. E questa è una cosa brutta. Per questo io sono sempre contro la guerra». La distruzione diventa sempre più radicale, secondo Mohamed: «La guerra, per come l’ho vissuta io, era fatta di aggressioni, distruzione. Distruzione sia nel senso di distruggere edifici, ma anche di distruggere i nuclei familiari, l’uccisione di padri e figli. Per me la guerra è non aver capito l’essenza della vita, fare la guerra significa che tu non sai come si vive».
Fare la pace. Giorno per giorno
Essere testimoni e costruttori di pace, con queste esperienze alle spalle, può sembrare difficile. Ma da un altro punto di vista è l’unica cosa che si può fare, con il coraggio di rompere il circolo vizioso della violenza e dell’inevitabilità della guerra, nella consapevolezza che il consenso è stato creato anche con molta propaganda e in assenza di discorsi e pratiche alternative. Persino in un contesto come quello ucraino, tanto militarizzato e radicalizzato a causa dell’aggressione russa, continuare ad alimentare il clima di guerra non è scontato. Anastasia dice: «nel nostro paese per le persone che non vogliono andare in guerra c’è la prigione. È molto difficile, perché ci sono tanti uomini che non vogliono andare alla guerra, perché non se la sentono, non è il modo normale di stare mondo. Certo, per qualcuno è una professione. Ma non per tutti è così». Per questo, secondo Emilio, è così importante «riuscire ad arrivare all’obiezione di coscienza anche nei vostri paesi. È stato difficile anche in Italia. Ecco, vedete si andava in prigione perché ci si rifiutava di fare il militare, ma alla fine si è riusciti. Certo, in tempo di guerra è ancora più difficile». E da qui, dall’Italia e dall’Europa, è cruciale «sostenere chi non vuole andare alla guerra, dare il nostro aiuto, il nostro contributo, anche in termini di accoglienza», aggiunge Rosi. Togliere forza alla guerra è un impegno necessario, che si porta avanti anche impedendo che «vengano fabbricate e vendute le armi», dice ancora Emilio.
Ma più in generale, consapevoli di quanto sia difficile “far finire le guerre” e interrompere il ciclo di morti e distruzioni, rifugiati e italiani si sono interrogati su come impedire che il fuoco della guerra divampi, quando è ancora in una dimensione gestibile e l’escalation non è ancora irreversibile. Secondo Issa, dovremmo fare come il rinoceronte: «quando vede un fuoco nella savana, lui corre a spegnerlo. Anche se è un fuoco molto piccolo. Perché sa che, se l’incendio divampa, sarà costretto a lasciare la savana. E quindi è necessario spegnerlo sul nascere. Allo stesso modo, è necessario spegnere, risolvere i piccoli problemi che ci sono tra di noi, prima che divampino». Qualcun altro – come Khalid – è più sfiduciato, perché ritiene che siano solo i governi e chi ha il potere ad avere la facoltà di “curare la malattia” guerra, benché siano poi gli stessi a diffonderne il virus e a impedire la guarigione: «Per me la guerra significa malattia. Dico così perché le malattie uccidono le persone, uccidono tutti quelli che non hanno le medicine per guarire. Ma se io sono una persona normale e ci parliamo, e diciamo: “facciamo così, così non va bene. Troviamo il modo di fare la pace e la smettiamo”, nessuno ci sente durante una guerra, la mia voce non esce nemmeno dalla mia casa. Se io parlo, anche se ho un’idea giusta, magari nessuno mi prende sul serio, entra da un orecchio ed esce dall’altro».
Per altri, tuttavia, creare una massa critica di persone contrarie alla guerra, anche nei paesi in cui da generazioni non si conosce altro linguaggio e altra pratica, non è impossibile, a patto di investire nella direzione giusta. Secondo Zirak, «una delle cause della guerra è l’ignoranza, quindi se vogliamo evitare la guerra dobbiamo favorire l’istruzione. In certe società c’è più ignoranza, la gente non studia. Quindi segue quello che altri dicono e fanno, questa è una delle cause». Ahmad rinforza questo concetto: «A volte noi stessi non sappiamo le leggi, non conosciamo la Costituzione. Tante persone sono analfabete, devono studiare per conoscere. Dobbiamo imparare anche noi a vivere in pace. Secondo me non è impossibile, ma è molto difficile, difficilissima questa cosa».
Il tono di Anastasia si fa improvvisamente più personale, per chiarire meglio quello che intende: «Il nostro paese, l’Ucraina, prima era nell’Unione Sovietica. Anche nella mia città a Cherson, tutte le persone parlano russo e anche ucraino. Anch’io parlo russo e ucraino, il russo è la mia lingua. Parlo molto bene ucraino, ma nella nostra famiglia parliamo russo. Ma ora c’è una frattura all’interno del nostro stesso paese. Per esempio, io non posso più parlare la mia lingua, perché è russo. È cresciuta la rabbia dentro al paese, dentro alle persone». Da questa amara consapevolezza della violenza che si esercita nel dividere e contrapporre ciò che prima era unito, mescolato, intrecciato, insieme, emerge la necessità di «fare educazione, educare alla tolleranza verso gli altri, per imparare che ci sono tanti colori nel mezzo, non è solo nero o bianco. Per esempio, per far capire che le altre persone sono diverse e hanno diritto di esserci. Questa guerra è il contrario: vuole contrapporre due pensieri, due posizioni come se fossero opposte, ma non è così. Perché non sono solo i politici che fanno tanta propaganda, ma anche la gente, le singole persone, fanno così».
E allora spetta anche alle singole persone, ai semplici cittadini, qui e lì, trovare le parole e le pratiche per ri-costruire dei futuri di pace possibili. E improvvisamente ci accorgiamo che la conversazione tra italiani e rifugiati vira verso un nuovo “noi”, che dobbiamo tenacemente riconoscere, curare e far prosperare: «noi qui stiamo parlando tra persone di diversi paesi che sono, per varie ragioni, tutti contrari alla guerra» (Emilio); «noi, nel nostro piccolo, possiamo manifestare per esprimere la nostra contrarietà a queste guerre, cioè il ripudio delle guerre, possiamo manifestare il ripudio delle guerre e possiamo anche rifiutare queste forme di violenza e provare a mandare degli aiuti ai civili» (Mohamed); «siamo noi che siamo contro la guerra, siamo noi che siamo dalla parte del diritto, non chi fa la guerra. Siamo noi che siamo dalla parte del diritto, che non vogliamo che si facciano nuove armi, che uccidono tutti i civili. Sembra che dobbiamo sempre difenderci noi che siamo contro la guerra. Ma sono gli altri che sono dalla parte del torto. Chi vuole la guerra è fuori dalla storia. Noi siamo il futuro della storia» (Danilo).
Per sconfiggere la guerra, bisogna eliminare dall’inconscio, l’istinto di uccidere, che serve a procurarci il cibo, il quale è costituito da cellule animali e vegetali viventi, che noi uccidiamo mangiandole. Detto in altre parole, la vita sulla terra è tutto un magna, magna e ammazza, ammazza, siamo tutti della stessa razza ! Per far scomparire dall’inconscio umano l’istinto di uccidere, bisogna creare il cibo senza dover uccidere, ma la scienza non ne è ancora capace e questo la dice lunga sulla sua arretratezza, però è capace di creare le bombe atomiche per uccidere. Io personalmente credo che la cosa la più importante da ricercare, è come creare il cibo senza uccidere cellule viventi, per far scomparire dall’inconscio, questo maledetto istinto che tutti gli esseri viventi su questa terra possiedono, per poter sopravvivere, invano, poichè si finisce sempre col morire comunque. Questa è la situazione di tutti gli esseri viventi su questa terra, à credere che qui sia il dominio di Satana. A tutti gli scienziati del mondo dico : CERCATE DI CREARE IL CIBO SENZA UCCIDERE, è la cosa la più importante da fare su questo pianeta, prima che una guerra atomica metta fine alla specie umana.
come mai, dato che la maggior parte delle popolazioni sono contro le guerre, molti governi, legittimamente eletti, continuano a farle non rispettando i voleri dei loro cittadini ?