La costruzione di una società democratica è un’azione quotidiana e collettiva. Il Municipio dei beni comuni di Pisa, Scup o il Teatro Valle di Roma, e decine di altre occupazioni, dimostrano che quella costruzione può nascere solo in basso. Un incontro a Roma
di Francesco Biagi
Una virtuosa sinergia è nata fra organizzazioni orizzontali dei movimenti sociali e alcuni giuristi che intorno alla categoria di “beni comuni” stanno costruendo un articolato dibattito pubblico, non per assumere una prospettiva in cui tutte le vacche di notte sono nere (come alcuni critici di questo movimento sembrano rimproverare) ma per strappare all’ordine del discorso dominante un logos comune dove ricostruire un proprio racconto autonomo di emancipazione.
Il filosofo francese Jacques Rancière nel testo “Il disaccordo” ricorda come il conflitto politico si giochi sul terreno della contesa delle parole, saper pronunciare la propria lotta è il primo passo verso l’emancipazione. Per l’autore la democrazia non è un’istituzione realizzata, ma un lungo processo di soggettivazione dove i movimenti dal basso (che chiama “i senza parte”) prendono consapevolezza di sé e in nome dell’ingiustizia subita riattivano un’altra verità contrapposta alla produzione ideologica del potere. Se l’uguaglianza o la funzione sociale della proprietà privata è riconosciuta come principio costituzionale, ma in effetti lo Stato esclude una parte dei senza parte dalla piena realizzazione della propria cittadinanza inscritta in questi principi, allora rivendicare un’applicazione più autentica significa intraprendere il conflitto democratico fra chi è privo di diritti e chi li possiede come privilegi e interessi corporativi. La costruzione della democrazia è un’azione quotidiana e collettiva, da sviluppare nella pluralità e nella condivisione delle idee e dei saperi intraprendendo un “disaccordo” che smascheri l’ipocrisia della pretesa di un’ideale democratico già realizzato e raggiunto.
La dialettica che viene a costituirsi dentro il diritto pone di fronte a sé da una parte la mistificazione di un’uguaglianza reale, che occulta la disuguaglianza economica e sociale, e dall’altra la possibilità di iscrivere un’esigenza di eguaglianza, che i senza parte possono far propria e rilanciare in forma conflittuale, facendosi riconoscere come soggetto politico capace di proferire autonomamente parola.
Prendere in mano il testo costituzionale e dichiarare di volerlo applicare dal basso in un momento in cui il nostro Paese sembra attraversare una rivoluzione passiva che sottrae progressivamente gli spazi di democrazia, significa intraprendere un lavoro politico su due binari: da un lato denunciare il neoliberismo e i suoi dispositivi che svuotano di contenuto il senso ultimo della convivenza civile inscritta nell’idea repubblicana del 1948, dall’altro intraprendere una prassi che si legittima nei principi costituzionali contro un’altra produzione di diritto che non è stata armonizzata adeguatamente e che non è tutt’ora capace di essere strumento di difesa democratica per coloro i quali subiscono le condizioni più nefaste della crisi economica.
Se volessimo andare in modo più rapido al nocciolo del problema seguendo il pensiero di Rancière potremmo dire che le nuove occupazioni dell’ultimo anno e mezzo hanno saputo tessere un discorso polemico intorno alla Carta Costituzionale, ne hanno fatto un uso strategico, vero e proprio terreno di contesa per il cambiamento piuttosto che unico strumento di legittimazione della falsa coscienza propria dell’attuale democrazia dispotica, la quale governa il nostro Paese in sintonia con la Banca centrale europea.
L’azione giudiziaria repressiva non è detto che si fermi, o meglio come possiamo vedere a partire dalle vicende del Municipio dei Beni Comuni di Pisa non si è fermata nemmeno di fronte alla rivendicazione di una funzione sociale per il destino della proprietà privata sgomberando immediatamente nella mattinata del 7 dicembre coloro i quali immaginavano una nuova liberazione per l’Ex Colorificio toscano. La sintonia con i principi della Costituzione hanno indotto il Municipio dei Beni Comuni a parlare di “liberazione” – rideclinando un significato proprio della tradizione democratica antifascista – per evidenziare come l’occupazione illegale era esercitata dall’abbandono, dall’incuria dell’immobile pisano di Via Montelungo e dalla rapacità della multinazionale che ne è venuta in possesso.
Un altro chiaro esempio di questa dinamica politica è l’esperienza di Scup a Roma. Nel quartiere di San Giovanni una comunità di istruttori sportivi, operatori della cultura e cittadini hanno ideato un futuro diverso per l’immobile in via Nola 5. Da più di un anno è stato riconsegnato alla collettività uno spazio abbandonato che originariamente nel Novecento nacque per ospitare i primi tentativi mutualistici di organizzazione sociale e sindacale fra i lavoratori. Oggi, quella tradizione mutualistica degli oppressi – ricorrendo al linguaggio utilizzato da Walter Benjamin – è una ricchezza ripresa dalle vite precarie di giovani e meno giovani che sperimentano un laboratorio di nuovo welfare dal basso attraverso l’autoproduzione di reddito e servizi.
Le ultime vicende giudiziarie a cui ha dovuto far fronte Scup ci parlano di un tribunale che si è accontentato di accertare quella che “sembra” essere la proprietà, cioè la F&F immobiliare, nonostante la rapacità del capitalismo finanziario che oggi fronteggia racconti un’altra storia quasi inascoltata. L’immobile di via Nola era di proprietà pubblica, poi è stato dismesso dalle istituzioni statali senza consultare la comunità di cittadini e cittadine del quartiere. Su di esso sono stati utilizzati i metodi della speculazione finanziaria, i Brokers non si sono sottratti a creare una matrioska, e cercando fra le numerose bambole russe che a poco a poco si aprivano, quelli di Scup sostengono oggi che la vera proprietaria è Unieco, colosso della lega delle cooperative, la quale preferisce la perversa discontinuità offerta dalle leggi del liberismo selvaggio rispetto al solco tracciato dalla storia cooperativa di tanti uomini e tante donne comuni capaci di dare vita alle società operaie di mutuo soccorso.
La commistione fra la complicità della breve memoria storico-politica operaia, un codice civile che risale all’epoca fascista incapace di recepire le novità della costituzione del ’48, e le possibilità predatrici dell’attuale sistema economico-finanziario hanno fatto precipitare Scup nella minaccia di sgombero in attesa dell’ufficiale giudiziario che ritornerà nel nuovo mese di gennaio.
Scup ha convocato un incontro l’11 dicembre a Roma (“Il diritto di tutto, l’arrohanza di pochi”, i particolari nella nota in coda) alla luce della rapidità con cui si sono susseguiti gli eventi sopra descritti, in modo particolare a partire dall’intricato rapporto fra un diritto di epoca fascista, ormai vecchio e superato, capace (solamente) di stringere patti indissolubili con un innovativo neoliberismo selvaggio. Il problema che viene posto è quanto il diritto sia autenticamente ed effettivamente “diritto di tutti”, ovvero strumento di convivenza per una comunità politica democratica, unita da principi di libertà e di uguaglianza, oppure se non rimanga – nonostante la contesa democratica che abbiamo tentato di descrivere – solamente arroganza di pochi.
DA SEGUIRE
SCUP, 11 DICEMBRE: “IL DIRITTO DI TUTTO E L’ARROGANZA DI POCHI”
Da più di un anno in Italia sono sorte nuove realtà sociali in trasformazione che hanno assunto la pratica politica dell’occupazione nel tentativo non solo di riscrivere una nuova pagina di politica, ma anche ponendosi la sfida di tracciare un solco indelebile nel campo giuridico. Per questo i ragazzi e e le ragazze di Scup mercoledì 11 dicembre alle ore 17,30 hanno organizzato un seminario dal titolo “Il diritto di tutti e l’arroganza di pochi”, invitando alla discussione diverse soggettività politiche che in tutta Italia stanno contribuendo a questo lavoro comune (Nuovo Cinema Palazzo, Teatro Valle Occupato, Officine Oz, Mushrooms, Communia, Pachamama, Lab. Reset, Municipio dei Beni Comuni, Labas occupato, Comitato Tiburtina per l’uso pubblico delle caserme, Cinecittà bene comune).
DA LEGGERE
Mettiamo in comune (John Holloway)
La possibilità di un cambiamento radicale, profondo, sorge dal basso, da ciò che è nascosto, latente. Il capitalismo lotta continuamente per trovare una più profonda subordinazione della vita alla sua necessità di dominare ed espandersi. La sua dominazione, tuttavia, è inconcepibile senza la resistenza. Il signore dipende dai suoi sudditi. Ed è in questa dipendenza che si trova la chiave per comprendere la crisi del suo dominio. Il nostro “mettere in comune” è il movimento della crisi
La resistenza e il mondo nuovo dei territori (Raúl Zibechi)
I movimenti che nascono nei territori, nelle campagne come nelle periferie urbane, hanno aperto profonde crepe nel sistema che legittima la dominazione. Questo articolo, scritto a Montevideo, è stato dedicato dall’autore ai ragazzi romani di Scup
Le insurrezioni delle persone comuni
Una conversazione con Gustavo Esteva: perché le ribellioni degli impoveriti e degli scontenti si diffondono ovunque
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