Possibile che la più innominabile delle definizioni del linguaggio economico – la parola-spettro che i governi del mondo intero associano all’idea stessa del panico e che indica il tabù per eccellenza per la sana e robusta costituzione di ogni paese “sviluppato” (o in procinto di diventarlo) – abbia ora improvvisamente rotto gli argini dei ghetti leggiadri e infantili in cui doveva essere confinata? “Se non ora, quando?”, risponderebbero i promotori del grande incontro veneziano dei primi giorni di settembre (info, in coda all’articolo). Paolo Cacciari, intanto, si toglie lo sfizio di farci notare che quel termine sconveniente (soprattutto per chi prepara il sacrificio delle urne) che serve a indicare il decremento reale e pianificato dei flussi di materia impiegati nei cicli produttivi fa la sua comparsa in consessi assai sorprendenti. Come quello degli scienziati dell’Onu che studia i cambiamenti del clima, o di fatto, pur con qualche perifrasi, nella più grande rete europea di associazioni ambientaliste, nell’Agenzia ambientale europea e perfino nel nostrano Istituto superiore per la ricerca e l’ambiente. Sta a vedere che ne fanno un hashtag pure al Jovabeach
L’idea di una società orientata alla decrescita – Serge Latouche e Maurizio Pallante ne sono tra i suoi promulgatori più conosciuti in Italia – sta facendosi strada anche in ambienti inaspettati. Nella seconda parte del IV Rapporto 2022 dell’Ipcc, il consesso di scienziati dell’Onu che studia il cambiamento climatico indica ai decisori politici la decrescita – correttamente intesa come decremento reale e pianificato dei flussi di materia impiegati nei cicli produttivi – come una delle vie più sicure per raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile (SDGs).
L’Eeb (European Envirinmental Bureau) smaschera – letteralmente: “debunked” – la pretesa di disgiungere la crescita del Pil dall’aumento della pressione sull’ambiente naturale rimanendo all’interno della logica del sistema economico attuale regolato dal mercato. L’Eea (l’Agenzia ambientale europea) auspica una “crescita senza crescita economica” (growth without economic growth), che è un altro modo di dire che bisogna uscire dal calcolo del valore monetario delle produzioni. L’Ispra (l’Istituto superiore per la ricerca e l’ambiente) ha tenuto un incontro dal titolo significativo: Oltre la crescita.
A cinquant’anni dalla pubblicazione del famosissimo rapporto del Massachusetts Institute of Tecnology commissionato dal Club di Roma, The Limits of Growth, e dalla prima conferenza sull’ambiente dell’Onu a Stoccolma, in cui già si auspicava una conversione del sistema economico nella direzione di un “ecosviluppo”, non solo gli scienziati della terra, ma anche economisti, antropologi, sociologi pubblicano studi e ricerche sulla insostenibilità di un modello di sfruttamento delle risorse naturali che compromette la capacità di rigenerazione dei cicli vitali del pianeta.
Ne ricordiamo qui alcuni: Jason Hikel (Less Is More: How Degrowth Will Save The World. Tradotto inspiegabilmente con il titolo: Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il mondo, Il Saggiatore, 2019), Giorgos Kallis (Is Green Growth Possible?, New Political Economy, 2019), Riccardo Mastini (For the Green New Deal to Work, It Has to Reject “Growth”,2020), Escobar, Acosta, Salleh, De Maria e altri (Pluriverso. Nuovo dizionario del post-sviluppo). Una mappatura sistematica delle proposte di policy della decrescita è stata curata da Nick Fitzpatrick, Timothée Parrique, Ines Cosme e pubblicata sul Journal of Cleaner Production 365 (2022) (https://www.decrescita.it/esplorando-le-proposte-politiche-della-decrescita/).
Insomma, la lungamente agognata riconciliazione tra economia e natura non la si può raggiungere (solo) attraverso continue nuove innovazioni tecnologiche, ma modificando strutturalmente modi di produzione e di distribuzione, sistemi di welfare, stili di vita e rapporti di potere tra popolazioni, classi sociali, generi, generazioni. In una parola, la “sostenibilità” mette in discussione il principale tabù su cui si è fin qui fondata la nostra idea di civilizzazione: la crescita infinita e indefinita dei beni e dei servizi a disposizione di individui solvibili. L’impresa capitalista che agisce sul mercato ha bisogno continuamente di creare nuovi mercati, nuovi oggetti, nuovi bisogni. Il fine del capitale non è il prodotto (il suo effettivo e genuino valore d’uso) ma il profitto che ne può ricavare. E non c’è dubbio che sia riuscito con successo a inoculare negli individui e a concretizzare il loro desiderio ad avere di più a tutto vantaggio di alcune fasce della popolazione, ma al prezzo di impoverirne molte altre (accumulation by dispossession, lo definisce David Harvey) e di far collassare l’ecosistema planetario portante, fonte primigenia di ogni ricchezza.
Il surriscaldamento globale è solo uno dei nove principali cicli biogeochimici individuati dal gruppo di ricercatori svedesi guidati da Rockström, presi a riferimento dello stato di salute della Terra. Anche altri hanno già sfondato i “confini planetari” a partire dalla estinzione di massa delle specie animali e vegetali, dall’inquinamento chimico dell’aria, dall’acidificazione degli oceani, dalla perdita di fertilità dei suoli.
Ma c’è un altro limite – questa volta non fisico, ma direttamente politico – che procede di pari passo: la sopportabilità sociale di un sistema di potere economico che genera sofferenze, violenze congenite, diseguaglianze e ingiustizie. Come spiega bene Marco D’Eramo (Dominio, Feltrinelli, 2021) il dispositivo chiave del neoliberismo è la competizione tra le imprese, gli stati, gli stessi individui resi “capitali umani”, al pari della natura, cosificata come stock di risorse e di servizi ecosistemici mercificati, e di tutte le attività di cura che sorreggono gratuitamente la riproduzione allargata del ciclo di valorizzazione del capitale. Lo stesso lavoro umano è ridotto a mero fattore di produzione, privo di valore in sé.
Comprendere questa natura plurima – l’Idra a sette teste – del capitalismo è lo sforzo che molti analisti, teorici e movimenti “rosso-verdi” – si sarebbe detto una volta – stanno compiendo sul campo accidentato dell’ecologia politica e che hanno trovato le elaborazioni più compiute, da una parte, nell’ecosocialismo di ispirazione marxiana (Johan Bellamy Foster, direttore della Montlhly Review, Michael Lowy, autore di Ecosocialismo, ombre corte 2020, Ian Angus, autore di Antrhropocene, Asterios 2019) e, dall’altra, nella decrescita derivante dalla critica allo sviluppo di tipo antropologico ed ecologico.
Ha scritto Latouche: “La decrescita può essere considerata come un «ecosocialismo», soprattutto se per socialismo si intende, con Gorz, «la risposta positiva alla disintegrazione dei legami sociali sotto l’effetto dei rapporti mercantili e di concorrenza, caratteristici del capitalismo»”. Ma la strada della convergenza sembra essere ancora lunga. Nonostante le profetiche intuizioni di Marx sulla “frattura metabolica” (la relazione fra l’essere umano e la natura mediante il lavoro) provocato dal modo di produzione capitalista, i marxisti fanno fatica ad accettare l’idea di un “socialismo senza crescita”, ovvero di una (auto)limitazione delle possibilità espansive delle forze produttive, tantomeno oggi che i bisogni primari di due terzi dell’umanità non sono ancora stati conquistati. Dovremmo forse condannarli alla povertà eterna?
Dall’altra parte gli obiettori della crescita – e, con essi, mi assumo l’arbitrio di includere i movimenti indigeni, contadini, delle “altre economie” solidali e trasformative – fanno fatica a pensare che i grandi apparati tecnoindustriali centralizzati – fossero anche azionati da energie rinnovabili – possano essere piegati ad una logica di sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Il confronto non è nuovo e rimane aperto (ricordiamo il contributo di autori militanti come Giorgio Nebbia, Laura Conti, Virginio Bettini, oltre a Alex Langer) ma sta inevitabilmente ritornando di grande attualità e avrà a Venezia, nella tre giorni sulla decrescita, organizzata presso l’università di Architettura (vedi box qui sotto), dei numerosi e promettenti “tavoli di discussione”, tra cui ne segnaliamo uno su Marx, marxismi e decrescita cui parteciperanno Emanuele Leonardi, Franco ‘Bifo’ Berardi, Marino Ruzzenenti, Maria Turchetto, Maurizio Acerbo, Roberto Musacchio. Maurizio Ruzzene, Maura Benegiamo, Antonio Pigantto e altri cultori della materia.
BOX
DECRESCITA: SE NON ORA QUANDO?
Dall’illusione della crescita verde ad una democrazia della terra.
L’incontro si terrà dal 7 al 9 settembre presso la sede di Santa Marta, dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e proseguirà il 10 al Lido con il Venice Climate Camp organizzato dal Rise Up 4 Climate Justice e Fridays For Future.
È promosso dalle associazioni e dai movimenti per la decrescita e l’economia solidale. Con il patrocinio delle università di Venezia e di Udine e del Support Group of the International Conferences on Degrowth for Ecological Sustainability and Social Equity. Molte le associazioni partner tra cui Laudato si’ di Milano, Tilt, Bilanci di Giustizia, Co-Energia.
L’incontro si svolgerà attorno a quattro plenarie a cui parteciperanno in presenza Vandana Shiva, Amaia Perez Orozco, Antonia De Vita, Riccardo Mastini, Jean Louis Aillon, Rocco Altieri, Manlio Masucci, Marco Bersani, Mario Pansera, Luigi Pellizzoni; Viviana Asara, Marco Deriu e, da remoto, Silvi Federici, Timothée Parrique, Serge Latouche, Helena Norberg-Hodge. La discussione si svilupperà in parallelo su quindici tavoli di discussione preparati da tracce di documenti di base, frutto di un lavoro collegiale, già disponibili sul sito: www.venezia2022.it. La partecipazione è per iscrizione fino a 250 posti disponibili.
Per informazioni:
Piergiorgio Borsotti dice
condivido totalmente. ma affrontiamo anche il tabu della sovrappopolazione che e grande concausa delle varie crisi che incombono
Leonardo Petri dice
Cito un brevissimo, ma significativo passaggio della recensione del libro “Dominio” di Marco D’Eramo, citato nell’articolo (lo stesso concetto si può facilmente ritrovare nelle pagine dell’illuminante libro di Jason Hickel, anch’esso citato): <> In questa lotta senza quartiere tra ricchi e poveri, tra governanti e governati c’è un altro grande sconfitto che però ci sta già presentando un conto salatissimo: il sistema di supporto alla sopravvivenza della specie umana (e non solo) su questo piccolo pianeta.
Leonardo Petri dice
Ecco la recensione: “Negli ultimi cinquant’anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei governanti contro i governati. Insorgere contro questo dominio sembra ormai una stramberia patetica. E tale resterà se non impariamo da chi continua a sconfiggerci.”