La cura è al tempo stesso una logica, ciò che spinge agire in quanto parte di un sistema di relazioni, ed è anche un’insieme di attività promosse per riparare ogni giorno, in tanti modi diversi, il «mondo» e per proteggere la vulnerabilità di tutti e tutte. Per favorire la cura abbiamo bisogno, per dirla con Massimo De Angelis, di riprodurre i beni comuni (commoning), un’azione permanente e sempre aperta orientata collettivamente, per quanto spesso poco visibile: è l’idea di “comune” come sistema vivo e abitato. In questo senso “comune” è molto di più complesso e prezioso di “pubblico”, perché nel pubblico i principi che guidano l’azione non sono legati a un contesto e a una comunità. Eppure, osserva Laura Centemeri, anche concetti così importanti come cura e comune hanno alcuni lati oscuri di cui occorre essere consapevoli. Un paragrafo tratto da Trame. Pratiche e saperi per un’ecologia politica situata (tamu ed.)
Forno popolare comunitario di Casetta Rossa, Roma
Per comprendere sia il valore etico e politico del lavoro di cura svolto nei beni comuni, sia lo sforzo materiale necessario per realizzarlo, occorre distinguere tra due maniere di intendere la cura: da un lato come una logica, un modo o uno stile di azione, dall’altro come un tipo specifico di attività. È inoltre necessario individuare quelle pratiche che impediscono o favoriscono la cura all’interno delle comunità impegnate a costruire un’alternativa al modello di sviluppo dominante.

La cura come logica o stile di azione
Per discutere della cura come logica o stile di azione ci ispiriamo al lavoro di Annemarie Mol messo a punto nel volume The Logic of Care. Health and the Problem of Patient Choice,1 in cui l’autrice parla della coesistenza di stili di azione differenti nelle attività di assistenza ai malati di diabete.
Gli stili di azione si distinguono in base alla maniera in cui chi agisce in una data situazione definisce ciò che conta come importante; essi sono dunque connessi ai diversi orientamenti normativi che chi agisce può potenzialmente adottare. Secondo Mol la cura è, accanto ad altri, uno degli stili di azione possibili, e si distingue per una definizione contestuale e relazionale di ciò che è bene fare, di ciò che ha valore. Essa implica di agire in quanto parte di un sistema di relazioni e non in quanto individuo isolato che agisce per la propria utilità; richiede una conoscenza del contesto di azione a partire dall’esperienza, trovando le sue forme nel tempo lungo della pratica ripetuta che permette di trovare il gesto adatto e il momento adatto.
Il modo di agire della cura si basa su conoscenze che non sono generalizzabili, ma che restano ancorate ai contesti e si trasmettono con l’esempio, con l’accompagnamento, con il racconto. In esso è racchiusa la necessità di sentire con tutti i sensi, di essere permeabili al contesto e di lasciarsi perturbare.
La cura è uno dei modi di agire attraverso cui possiamo entrare in relazione con gli altri o con noi stessi, accanto ad altri modi di agire che non sono né migliori né peggiori. Sono altri, sono diversi, permettono di realizzare forme diverse di coordinamento. Sono per esempio il modo di agire dell’utilità per un obiettivo, o il modo di agire in accordo ai principi convenzionali di una data società.
Casa Bettola – Casa cantoniera autogestita di Reggio Emilia
Il modo di agire della cura non è necessariamente sempre il miglior modo di rapportarsi agli altri e a un contesto: c’è un lato oscuro della cura come modo di agire. L’aderenza della logica della cura al contesto può a volte rappresentare un problema, quando diventa incapacità di cogliere, nel contesto, la presenza di forme di dominazione o la rilevanza di reti di solidarietà più distanti di quelle immediate di prossimità.
La cura come tipo di attività
Un riferimento utile a questa riflessione è Joan Tronto. Secondo la definizione proposta da lei e Berenice Fisher nel 1990, la cura consiste in un tipo di attività volto a mantenere, perpetuare e riparare il nostro «mondo», così da viverci come meglio possiamo.2 Questo mondo comprende i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutti elementi che cerchiamo di mettere in relazione in una maglia complessa di sostegno alla vita.
Alla base della cura come attività c’è dunque una visione dell’essere umano come essere che esiste e prende forma in una maglia di interdipendenze che lo legano al suo ambiente e ad altri esseri viventi. Per questo è, per definizione, vulnerabile. La cura rinvia dunque a un modo di essere presente a sé, agli altri e al proprio intorno basato sull’attenzione a questa vulnerabilità e, dunque, attenzione a ciò che è necessario fare per mantenere la vita e riprodurla. In questo senso la cura non è amore incondizionato per il prossimo; la cura è anche operare delle scelte, valutando di chi e di cosa intendiamo o meno prenderci cura.
Tronto osserva come, storicamente, la cura si costituisca come un campo di attività legate alla riproduzione degli esseri umani e dei loro ambienti di vita, separato dalla produzione e perciò invisibilizzato e sminuito. L’invisibilizzazione riguarda non solo le attività e i soggetti che svolgono l’attività di cura ma anche, più in generale, la logica della cura come modo specifico di valutare e di valorizzare.
Quello che qui interessa sottolineare è l’intreccio tra logica e attività della cura: la sfera della riproduzione degli esseri umani e dei loro ambienti di vita, come sfera delle attività di cura, è anche una sfera di esercizio e trasmissione di modi di valutare; questi incorporano la specificità di un’esperienza che si dà in uno spazio e in un tempo definiti, in una certa storia relazionale.
Comunità della Piagge di Firenze
La sfera della riproduzione è dunque un luogo cruciale di costruzione di un senso non solo del proprio valore ma anche di un’idea di ciò che costituisce valore come qual-cosa che è legato a delle relazioni e a una storia situate. Si tratta di un modo di intendere il valore che resiste all’idea della commensurabilità generalizzata su cui invece poggia il motore del sistema economico capitalista. Questo modo di intendere il valore trova spazio invece in quello che definiremo il comune.
Logiche e pratiche di cura nei beni comuni
Il riferimento in questo caso è Massimo De Angelis e la sua visione, presentata in Omnia sunt communia, in cui il comune è un sistema vivo e «abitato», un eco-socio-sistema che esiste a partire dall’azione di attori identificabili, in luoghi identificabili; azione che è volta a produrre e riprodurre dei beni che gli attori considerano comuni.3 Tali beni possono essere materiali o immateriali. Questa azione di produzione e riproduzione di beni comuni, che De Angelis definisce commoning, è orientata da principi che gli attori stabiliscono insieme e che sono volti a permettere al bene comune, come sistema vivo e abitato, di riprodursi e di rigenerarsi, cioè di mantenersi in vita.
È chiaro dunque che il comune non è il pubblico, perché nel pubblico i principi che guidano l’azione non sono legati a un contesto e a una comunità di commoners, a uno specifico eco-socio-sistema. Inoltre, laddove il pubblico ha tendenza ad ammettere solo certi stili e modi di azione e non altri (la creazione della sfera privata risponde a questa esigenza di limitare l’ammissibilità pubblica di certi stili di azione), il comune è invece aperto alla diversità degli stili di azione, incluso lo stile della cura, perché il comune è un sistema vivo e abitato e la cura, come modo di azione e come attività, è centrale nel suo mantenimento e nella sua riproduzione.
Il comune è allora luogo di tensioni sempre aperte rispetto a ciò che deve contare e avere valore, tra logiche concrete e logiche astratte del valore, tra logiche contestuali e logiche universalistiche, passando per le logiche strumentali; tensioni tra stili di azione della cura e stili dell’utilità.
Tutti i modi di agire sono importanti e necessari per il comune, per il suo esistere e riprodursi, anche perché esso non esiste in un vuoto. Al contrario, questo eco-socio-sistema sta all’interno di altri sistemi più ampi: quello del mercato, quello dello stato. Sia lo stato che il mercato tendono a stabilizzare, a fissare ciò che conta come valore. Tendono a dargli una forma stabile, convenzionale, laddove il comune mantiene la questione del valore aperta, dal momento che la sua riproduzione dipende da attività di cura. È in questo che sta il suo essere «alternativo».
Foto di Luca Perino
Il comune può guadagnare margini di libertà, secondo De Angelis, creando reti tra comunità di commoners e permettendo l’ampliamento di spazi in cui sia possibile l’espressione di logiche plurali ed eterogenee del valore. A ciò va aggiunto che questi margini di libertà sono anche margini di lasco, di informalità in cui, come sempre, può nascondersi anche un lato oscuro, di arbitrio, di abuso.
Il comune è luogo di tensioni generative, tra modi o stili di azione, ma anche tra forma e flusso e tra apertura e chiusura. In quanto vivo e abitato, non può fissarsi in una forma rigida: deve mantenere aperta la possibilità dell’emergenza del nuovo e dunque del cambiamento. Questo implica di pensare il governo del comune come una capacità di riconoscere e sostenere forme di esistenza (o pattern) emergenti, non di imporli. Si tratta di trovare il modo di mantenere vive le forme di esistenza in comune a partire dalla loro reinvenzione, dal margine lasciato allo scostamento dalla norma. Le forme del comune devono restare permeabili e malleabili, ma essere riconoscibili.
Esattamente come la cura, nemmeno il comune è buono di per sé. Anch’esso ha il suo lato oscuro che tende a emergere quando si cercano di eliminare le tensioni che lo rendono generativo. In questo senso il comune va curato, nella presenza e nell’attenzione ai processi del quotidiano e alle relazioni tra le persone, ma va anche immaginato e progettato, non perdendo cioè l’ambizione a una visione, a un immaginario radicale. Come invitava a fare Tomas Maldonado, si tratta di recuperare un senso della progettazione non certo come imposizione della forma e disciplinamento dei processi ma come capacità di sostenere le forme emergenti, di portarle a maturità e di alimentare l’emergenza di forme nuove. Compito della progettazione è anche assicurarsi che queste forme del comune si associno a metabolismi socio-ecologici in grado di creare le condizioni per una risposta sostenibile ai bisogni umani. Una risposta, cioè, che tenga conto del fatto che non siamo i possessori della terra, che non possiamo disporne come vogliamo e che abbiamo una responsabilità verso le generazioni future e verso i viventi non umani con cui coesistiamo.
1 Mol A., 2008, The Logic of Care: Health and the Problem of Patient Choice, Routledge, Londra-New York
2 Fisher B. e Tronto J. C., 1990, Toward a feminist theory of caring, in E. Abel e M. Nelson (a cura di), Circles of Care: Work and Identity in Women’s Lives, University of New York Press, Albany
3 De Angelis, M., 2017, Omnia Sunt Communia, Zed Books, Londra
Laura Centemeri è ricercatrice al Centre Nationale de la Recherche Scientifique e fa parte del Centre d’Étude des Mouvements Sociaux dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi.
Bellissimo sguardo, e analisi decisamente azzeccata, assolutamente centrata sui bisogni e su ciò che viviamo oggi in qualunque contesto complesso che, per essere generativo veramente, non può essere nè racchiuso nè tanto meno rinchiuso. Grazie ancora bel nutrimento!