Possiamo ragionare a lungo sulla scuola che vogliamo. Di certo si tratta di costruire contesti adeguati all’incontro di modi di guardare il mondo, mettendo al centro l’ascolto reciproco, la conversazione e il sostare intorno a interrogativi non previsti. Abbiamo bisogno del dialogo come architrave del processo educativo, di imparare la fatica e la gioia del comporre e scomporre pensieri. “Il modo migliore di affrontare questa sfida culturale – scrive Franco Lorenzoni in Il dialogo euristico Orientamenti operativi per una pedagogia dell’ascolto nella scuola (Carocci editore, curato con Laura Parigi), di cui pubblichiamo la premessa – sta nell’avere pazienza e darci tempo per farlo insieme”
Tutto parte dalla dignità, dalla dignità che riusciamo a dare ai nostri allievi. Il primo compito di noi insegnanti sta nel riconoscere il diritto a una piena presenza e cittadinanza a tutte le bambine e i bambini nella vita della classe. E il primo modo per dare spazio e consistenza ai loro diversi modi di abitare e vivere la scuola sta nella nostra capacità di ascolto. Ma un ascolto ascolto attento e partecipe nasce e vive solo se siamo profondamente convinti che bambine e bambini, ragazze e ragazzi pensino, creino e operino connessioni, se consideriamo che tutte le loro ipotesi, anche fantastiche, siano strumenti epistemici, modalità per conoscere il mondo.
Occorre dunque riconoscere e convincerci che i bambini non solo hanno desiderio di dire la loro, ma a ogni età ragionano, formulano ipotesi, usano una logica che talvolta può apparire diversa da quella di noi adulti, ma che ha sempre al suo interno una coerenza e una profonda tensione conoscitiva che vanno riconosciute e a cui dobbiamo restituire valore in tutti i modi possibili.
Bambini e ragazzi, infatti, pensano e molte volte pensano con particolare profondità e acutezza, ma spesso i più non hanno cognizione della qualità dei loro pensieri, se questi non vengono raccolti e restituiti da parte di noi adulti. Si tratta allora di riconoscere ciascuno di loro come soggetto i cui gesti e parole sono accolti con cura e attenzione. Si tratta di costruire un contesto adeguato all’incontro di modi di guardare il mondo e di porsi diversi, mettendo l’ascolto reciproco e la conversazione al centro della pratica educativa.
Dentro questo paesaggio, che possiamo definire di pedagogia dell’ascolto, nasce e vive il dialogo euristico. La scintilla del dialogo si accende quando il lavorio mentale dei bambini si scontra ed entra in connessione con i diversi oggetti culturali portati dall’insegnante o in cui ci si imbatte nel corso di esperienze o discussioni che suscitano interrogativi non necessariamente previsti. Quando le loro conoscenze più o meno codificate incontrano nuovi contesti e contenuti portati da noi adulti, dall’ambiente o dai loro compagni. Solo se l’insegnante non guarda con sospetto e non si lascia spaventare dall’apparente confusione del libero pensare di bambini e ragazzi, si creano le condizioni per scoprire insieme qualcosa di nuovo «sfregando e limando i nostri cervelli gli uni contro gli altri», come suggeriva di fare Montaigne.
L’agricoltura chimica cerca il massimo rendimento sopprimendo tutto ciò che può danneggiare la crescita del frutto atteso. Sappiamo che questa semplificazione forzata avvelena il terreno, le acque e spesso produce frutti che pagano l’apparente bellezza, l’omogeneità e la grandezza con un minor sapore. Ecco, la scuola deve rifuggire le semplificazioni, le accelerazioni e le scorciatoie, affrontando un faticoso processo che somiglia maggiormente all’agricoltura biologica, nella quale si cerca di preservare ogni elemento naturale nella sua diversità. Tutto ciò necessita di un tempo più lungo e comporta maggiore attenzione e fatica, ma non depaupera il terreno, non inquina le acque e dà la possibilità di gustare sapori diversi e più autentici.
Quando riusciamo a creare le condizioni perché si realizzi una conversazione capace di ascolto reciproco, i diversi pensieri hanno la possibilità di venire alla luce e la molteplicità degli approcci diventa territorio di crescita del gruppo, di ciascun bambino o ragazzo, e naturalmente anche di noi che insegniamo.
Solo se abbiamo la capacità di sostare a lungo attorno a un contenuto culturale, dandoci il tempo di moltiplicare le domande, possiamo scavare e scoprire i tanti particolari e dettagli che si nascondono in un testo, in una pittura o in un teorema. In quello scavo, se lo compiamo in gruppo in una classe abituata all’ascolto reciproco, abbiamo la possibilità di scoprire, al tempo stesso, peculiarità e caratteri di ciascuno di noi. Ecco allora che l’oggetto culturale ha la possibilità di mostrarsi con un grado maggiore di verità perché illuminato da tante diverse interpretazioni personali, che poco a poco potranno emergere confrontando i nostri pensieri. Se guardo un affresco di Giotto con quarantaquattro occhi invece che con due, forse scoprirò qualcosa di più perché quei diversi sguardi, se riusciranno a tradursi in parole, mi mostreranno ciò che non avevo visto. Allo stesso tempo Giotto mi aiuterà a scoprire qualcosa di più delle bambine e dei bambini che mi accompagnano in questa avventura, mettendo in luce alcuni loro procedimenti mentali. Ecco che, in questo viaggio di andata e ritorno, la conoscenza dell’oggetto si delinea meglio, si affina, e forse si moltiplica.
La mia alunna Marianna, in quinta elementare, ha spiegato in modo esemplare questo processo, al termine di un lungo lavoro intorno all’affresco della Scuoladi Atene, affermando: “Raffaello ha fatto veri i filosofi per metà, noi per l’altra metà”. Ci sono due espressioni di questa frase particolarmente pregnanti: Marianna evoca il noi, perché si tratta della costruzione di una conoscenza collettiva, e indica nell’averli “fatti veri” quel necessario processo di avvicinamento alla “verità” dell’oggetto che comporta un fare tutto nostro, che ci riguarda perché richiama la nostra responsabilità. Raffaello, con la sua arte mirabile, può fare solo la metà del lavoro. Se noi non compiamo l’altra metà quell’affresco rimarrà inerte, inutile, morto. Dunque la cultura è relazione, solo relazione, o non è.
Nel dialogo euristico ci scambiamo liberamente le tante versioni, visioni e interpretazioni portate da ciascuno, assaporando la bellezza dell’accorgerci che ogni risposta è parziale e può sempre arricchirsi dello sguardo di un altro e arricchirci di nuove domande.
Questo aspetto rende particolarmente attuale e necessario il dialogo come architrave del processo educativo, perché in un tempo in cui prevalgono affermazioni non dimostrate e semplificazioni disarmanti, basate su reazioni istintive, la fatica del comporre e scomporre pensieri, cioè l’arte del ragionare tenendo conto dei punti di vista e delle ragioni degli altri, ci pare qualità e competenza che è necessario sviluppare e affinare nei bambini, nei ragazzi e in ciascuno di noi.
Forse è vero ciò che affermava nel 1721 Jonathan Swift, quando scriveva che «Il ragionare non farà mai correggere a un uomo un’opinione sbagliata che non ha acquisito ragionando». Ma noi, nella scuola, non possiamo non provare a dare, chiedere e chiederci ragione di ogni cosa. E il modo migliore di affrontare questa sfida culturale sta nell’avere pazienza e darci tempo per farlo insieme, dando voce e ascoltando tutte e tutti.
* Maestro, tra i fondatori Cenci Casa-Laboratorio, straordinario punto di riferimento per scuole, insegnanti ed educatori. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
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