Esiste un patrimonio enorme a cui pezzi di società diversi oggi possono attingere nei loro percorsi per cambiare il mondo, quello offerto dai movimenti delle donne. Anche chi ha sostenuto il referendum No Triv, ad esempio, potrebbe ripartire guardando a quel patrimonio. In particolare, la capacità del femminismo di proporre analisi serrate della società con continui rimandi dal particolare al generale e dal personale al politico, l’abitudine di riconoscere le forme di violenza culturale diffusa, l’essere portatrice di pluralità ma anche la tendenza a sperimentare costruzione di reciprocità e etica della responsabilità si dimostrano ovunque strumenti in grado di ripensare in profondità le relazioni sociali e le lotte dei movimenti
di Anna Foggia Gallucci*
Il dibattito legato al referendum “No Triv”, per le modalità in cui si è svolto durante la campagna e nell’immediato post-voto, rinforza la riflessione sulla opportunità di assumere la cultura delle donne come paradigma di riferimento.
Per ricostruire questo filo logico, parto dall’epilogo della vicenda, che ha palesato l’evidente difficoltà di comunicare argomenti complessi relativi a una realtà parimenti complessa, ma non per questo impossibile da comprendere e da veicolare a larga parte delle persone. Sostenere, come ho sentito dire, che se non si semplifica – laddove semplificazione finisce per sovrapporsi semanticamente a mistificazione – la “gggente” non capisce, non è accettabile eticamente e, conti alla mano, non serve a nessuno. Allo stesso modo non si può accettare e non funziona la brutta operazione di appiccicare etichette a chiunque esprima posizioni divergenti e dubbi di sorta: perseverare nel vedere l’alterità non per ciò che è ma per ciò che si vuol credere sia, mette un sigillo definitivo a spazi che resteranno per sempre sconosciuti e inesplorati precludendo avanzamenti della conoscenza e della democrazia.
Il bel film “Dio esiste e vive a Bruxelles” ha saputo rappresentare, a mio avviso, l’alternativa che la cultura delle donne rappresenta a questo oscurantismo. I fatti fanno capire chi merita di regolare l’universo, se l’orco troglodita che vittimizza moglie e figlia o la determinata ragazzina: lui separa, lei unisce; lui sadico, lei empatica; lui compila le Leggi della Sfiga, lei riesce a sentire la musica dentro ogni persona; lui istiga gli istinti peggiori, lei riconcilia donne e uomini con le loro parti migliori; lui alligna nel malessere, lei cerca salvezza per sé e per tutti. Alla fine del film, per esempio, il computer celeste attraverso cui viene regolato l’universo, saluta la donna che, un po’ tardivamente, decide di sedersi al posto di comando con un “Bonjour, Déesse!” e lei, per tutta risposta, rende i cieli fioriti e multicolori; quando al computer ci stava Lui, i cieli erano sempre grigi e minacciosi.
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Un’altra storia è possibile, quindi, ma c’è un “ma”. Il femminismo si è sviluppato attraverso una pratica costante di analisi rigorosa che ha prodotto una critica, anch’essa rigorosa, al sistema sociale, culturale ed economico fondato su un potere tutto maschile. Questo sistema di potere è tuttavia rimasto improntato a una cultura maschilista anche laddove ha visto, nel tempo, il coinvolgimento di donne in ruoli chiave.
In prima battuta, va preso atto delle tante contraddizioni e dei veri e propri arretramenti che investono oggi le donne; la cultura patriarcale non accenna a sradicarsi e resiste con tutta la carica di violenza che la contraddistingue. Una cultura in cui siamo immerse tutte e che richiede un’auto-supervisione continua, certamente non facile ma neanche impossibile.
Cominciamo dal fatto che praticare modalità che in via di principio non ci piacciono, di fatto contribuisce a radicare un intero sistema che diciamo di rifiutare. Mi viene in mente quando il Movimento di Grillo ha lanciato sul blog “che fareste in auto con la Boldrini?” provocando tra i simpatizzanti reazioni all’insegna del sessismo più ignobile; a distanza di qualche mese, quegli stessi uomini e quelle stesse donne 5 Stelle hanno però gridato al sessismo per un senatore verdiniano che mimava gesti osceni all’indirizzo di una senatrice del Movimento. Scommetto che spesso caschiamo in questa trappola. Ugualmente, va da sé che non posso accusare il mio avversario di raccontar fandonie o mezze verità e poi fare lo stesso, magari convinta che le mie panzane siano più giuste soltanto perché le dico io. Il “fa quel che dico e non quel che faccio” toglie per sempre credibilità e gli effetti sono più devastanti e socialmente più vasti di quanto si possa immaginare.
Ben oltre le sue contraddizioni e in barba ad ogni resistenza, invece, il femminismo ha prodotto avanzamento civile per tutti. Il suo punto di forza è stata l’analisi serrata dell’impianto sociale, con continui rimandi dal particolare al generale, dal personale al politico, attraverso una meta-analisi che è andata configurandosi come una sorta di sociologia dell’analisi, disvelando le sue stesse dinamiche di fondo, autocriticandosi, rendendosi consapevole di sé e facendosi carico dei lacci e laccioli che la connettevano a quello stesso apparato valoriale che dichiarava di voler smantellare. Tutto ciò ha consentito progressi, sia sotto l’aspetto della propria logica interna sia nella portata culturale, sociale, politica.
L’etimologia della parola “analisi” rimanda al significato di “scomposizione di un tutto, concreto o astratto, nelle parti che lo costituiscono” ed è esattamente l’atto della scomposizione che consente l’osservazione delle componenti che costituiscono l’oggetto di interesse. Laddove questo oggetto è una posizione politica, sia se la condivido sia se voglio avversarla, devo necessariamente operarne l’analisi per impiantare una critica.
Diversamente non si avrà cambiamento oppure esso sarà fittizio, labile, transitorio, apparente. La semplificazione dei ragionamenti, la riduzione dei temi a dimensioni uniche o quasi, che viene operata dagli attori politici attualmente in campo è esattamente l’opposto di questo processo critico, non lo consente, lo inibisce a monte, lo frena, lo arresta, lo azzera. Anche per questo evoluzioni e sviluppi – civili, culturali, politici – non se ne registrano.
Ecco perché la contrapposizione politica si gioca non già sul livello argomentativo, ma su quello della violenza, attraverso una dinamica di escalation ben evidente che potrebbe senza fatica essere neutralizzata. Se nessuno opera una sua disattivazione è perché la quasi totalità del contesto manifesta una stessa violenza, che va quindi connotandosi come tratto culturale – i dati sulla violenza di genere ne danno conto – e, in quanto tale, si legge non per ciò che è realmente ma come manifestazione di risoluzione, fermezza, energia.
Ricordo di aver conosciuto una coppia nella quale lui aveva frequenti e violenti scoppi d’ira, spesso dopo aver bevuto, ed arrivava ad alzare le mani sulla compagna in presenza della bambina, la quale gli diceva: “Ti prego, papà, ho paura, smettila, non farlo!” e lui le rispondeva: “Non devi avere paura, questa è energia!”.
Non è raro che la persona che aggredisce, offende, ingiuria, appaia come una persona estremamente convinta delle sue argomentazioni, appassionata e profondamente coinvolta. Da ciò discende il pass per l’umiliazione dell’avversario, il quale, a sua volta, si ritiene, ed è ritenuto, legittimato a rispondere con la stessa dose di “violenza + n”, concorrendo, di fatto, all’esasperazione dei toni fino ad un punto di non ritorno.
Ed è qui che la politica, semplicemente, non esiste più, sono morti i contenuti, è scomparsa la dialettica, nessun posto trova la tenuta logica degli argomenti rispettivi perché confronto reale non vi è. E, verosimilmente, non vi è mai stato.
La cultura delle donne, invece, è portatrice di pluralità, richiede e, nel contempo, offre strumenti plurali, impegnandosi nell’operazione culturale della promozione delle differenze e attuando, per suo effetto, una rinascita della politica, con la costruzione della reciprocità, generando etica della responsabilità.
Questi connotati non sono, tuttavia, riconducibili ad una predisposizione femminile innata; nel tempo sono stati assunti dalle donne perché i ruoli a loro destinati negli ambiti privati come nei pubblici, le hanno rese portatrici di queste modalità di saper fare e saper essere. Possiamo provare a ripartire da qui e mettere in comune.
Stefano dice
Nelle modalità di saper fare e di saper essere che tu hai abilmente descritto, mi viene in mente la storia dei porcospini di Schopenhauer che, per non rinunciare alla società, trovano, dopo varie prove, la giusta distanza. La soddisfazione del bisogno di calore reciproco rimarrà incompleta, in compenso però non si soffre delle spine altrui.
E’ la stessa sensazione che proviamo negli orti sociali, dove la reciprocità viene stabilita dalla natura.