Il termine conversione ecologica è stato introdotto quasi trent’anni fa da Alex Langer, una figura straordinaria di militante ambientalista, pacifista e rivoluzionario, per sintetizzare il percorso necessario per ricondurre l’attività e la convivenza umane entro i limiti della sostenibilità sociale e ambientale. Il termine allude alla duplice dimensione di questo passaggio: da un lato, è in gioco la riconversione strutturale dell’apparato produttivo per ridurne l’aggressione alle risorse della natura (produrre meno e meglio; utilizzare meno materiali; usare più a lungo quello che si è prodotto e scartarlo meno; recuperare tutto quello che si è scartato) e, soprattutto, per ridurre lo sfruttamento degli uomini e delle donne che vivono e lavorano su questa Terra da parte di altri membri del genere umano. Dall’altro lato, quel passaggio comporta la conversione personale del nostro stile di vita, attraverso una riduzione e una qualificazione ecologica dei nostri consumi e un miglioramento dei nostri rapporti con il prossimo, gettando un ponte (Alex amava molto questa metafora) verso chi ci è estraneo, o è in competizione con noi, o ci è nemico. Questi due aspetti sono indissolubilmente legati tra loro; ma, a differenza della riconversione produttiva, che è necessariamente un processo graduale e programmato, la conversione personale, anche nel suo significato più laico, è sempre una scelta che mette in discussione la totalità dei nostri rapporti con gli altri e con il mondo.
La conversione ecologica dell’apparato produttivo è un processo necessario e urgente per fare fronte alle minacce che il nostro pianeta dovrà affrontare nei prossimi decenni e che in parte già sta subendo (anche se la maggioranza degli abitanti della Terra ancora le ignora, o le sottovaluta, o addirittura le nasconde). Minacce che sono costituite non solo dai mutamenti climatici indotti dalle emissioni dei combustibili fossili, che rappresentano ovviamente il rischio maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e di suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell’inquinamento e della devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall’esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che sono anch’essi “risorse naturali”, anche se utilizzate per lo più per devastare la natura); dall’esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che biologiche e alimentari (il nostro “pane quotidiano”); dall’inquinamento degli habitat umani, che riduce progressivamente la qualità della vita e delle relazioni interpersonali; dalle guerre e dalle armi di distruzione di massa, che continuano a incombere sui nostri destini anche se ne parliamo sempre meno.
Sulla necessità di intervenire per fare fronte a queste minacce tutti, a parole, si dicono d’accordo tranne pochi irriducibili, per lo più ingaggiati nei think tank (i cosiddetti “serbatoi di pensiero”) finanziati dall’industria petrolifera o da altri settori interessati allo sfruttamento dei combustibili fossili e delle guerre. Ma nei fatti le misure e i programmi adottati per promuovere questa riconversione sono inadeguati e irrisori, mentre la crisi finanziaria ed economica che imperversa dal 2007 sull’intero pianeta ha fornito ai governi di tutto il mondo – e agli economisti e ai tecnici che ne impostano o ne sostengono i programmi – un alibi per rimandare tutto al “dopo”: a una futura quanto improbabile “ripresa”. Fatto sta che la via di uscita dalla crisi viene identificata quasi da tutti con il ritorno alla “crescita” economica, senza nessuna qualificazione: cioè con l’idea che si possa entro breve riprendere a produrre le stesse cose, con le stesse materie prime, per alimentare gli stessi consumi di sempre, ma in misura sempre maggiore. Ma questo non è possibile: quella crescita è proprio ciò che sta impoverendo il pianeta e che lo sta portando verso il disastro; ed è anche ciò che ha moltiplicato e continua a moltiplicare le diseguaglianze tra un numero infimo (semplificando, “l’1 per cento”) dei sempre più ricchi e un numero immenso (“il 99 per cento”) dei sempre più poveri. Per prevenire un disastro ambientale e sociale di proporzioni inimmaginabili, ben più grave di quello già insostenibile provocato dalla crisi economica, occorre un radicale cambio di rotta.
Tuttavia anche l’aspetto personale, soggettivo, della conversione ecologica stenta a farsi strada. In parte per mancanza di un’informazione adeguata: della crisi ambientale (e anche di quella sociale, che orami riguarda tutto il pianeta) e soprattutto delle sue cause i media parlano poco e male; i politici mai; e a scuola insegnanti, allievi e programmi non sono attrezzati per affrontare la questione. Ma in parte le difficoltà nascono anche – e a volte soprattutto – per un senso di impotenza che ci assale: come può ciascuno di noi, sempre più isolato, impotente, emarginato dalle decisioni importanti e dal potere economico e politico, alle prese con le difficoltà crescenti della vita quotidiana, contribuire a cambiare il mondo?
Non bisogna farsi vincere dal senso di impotenza. Ciò che ci rende deboli è l’individualismo, l’essere stati messi, tutti, in competizione gli uni con gli altri; per affermarci a spese del nostro prossimo; o, per lo più, per non soccombere. Questa “gara” porta molto spesso solo al nostro asservimento a chi è più potente di noi, nella speranza che ci possa aiutare a prevalere; o a non uscirne schiacciato. L’alternativa a queste forme di individualismo è l’unione con coloro che vivono i nostri stessi problemi, l’agire collettivo, la condivisione: che non vuol dire fare tutti le stesse cose, ma farle insieme, in un processo dove ciascuno contribuisce in base a quello che sa e può fare. La condivisione nasce da un processo organizzativo che la precede; ma al tempo stesso la condivisione promuove nuova organizzazione: anche quando nasce in un ambito ristretto, poi può estendersi a molti altri campi.
Questo vale anche nell’ambito di ciò che in genere chiamiamo consumo: l’approvvigionamento quotidiano dei beni e dei servizi di cui si compone la nostra vita quotidiana. Scegliendo individualmente che cosa comperare – tra quello che possiamo permetterci di comperare, che per lo più non è molto – noi soggiaciamo in realtà al potere della pubblicità, ai prezzi imposti dal produttore e, soprattutto, possiamo scegliere esclusivamente entro la gamma di prodotti e di servizi che le imprese di produzione e di distribuzione ci mettono a disposizione. È difficile, in queste condizioni, fare delle scelte sostenibili sia dal punto di vista ecologico (cioè che non danneggino l’ambiente con prelievi devastanti di risorse e produzione altrettanto dannosa di rifiuti e di inquinati), sia dal punto di vista sociale (cioè che non favoriscano lo sfruttamento di chi è stato costretto a produrre quei beni in condizioni disumane).
I prodotti che compriamo nella maggior parte dei casi si portano dietro questo fardello: devastazione ambientale e sfruttamento del lavoro. Ma, soprattutto, non consentono scelte vere: solo per fare un esempio, la scelta tra trasporto pubblico e privato. Infatti, nelle condizioni attuali, in molti posti senza auto non si può arrivare; e per raggiungerne molti altri con i mezzi pubblici occorrono ore e scomodità insopportabili: in queste condizioni l’auto è un obbligo e chi non ce l’ha non si muove. Tuttavia, associarsi per effettuare insieme degli acquisti, o per promuovere insieme dei servizi, o per risparmiare, è già oggi possibile; o è comunque possibile inserire questo obiettivo in una piattaforma rivendicativa, che molte organizzazioni, anche di natura molto diversa tra loro, comprese quelle sindacali, potrebbero appoggiare: per esempio rivendicazioni a sostegno di un potenziamento del trasporto pubblico; o del car-sharing (un parco veicoli condiviso, a disposizione di chi usa il mezzo solo per le ore in cui lo usa; mentre per il resto del tempo è a disposizione di altri utenti associati che ne abbiano bisogno); o del car- pooling (un’organizzazione per combinare tra utenti diversi percorsi casa-lavoro a bordo della stessa auto); o del taxi collettivo, ecc. L’esempio più chiaro di questa condivisione sono per ora i Gas (gruppi di acquisto solidale): un certo numero di famiglie si associa per eseguire insieme gli acquisti: soprattutto, ma non solo, in campo alimentare. Ciascuno continua a comprare e a mangiare quello che vuole (non c’è alcun “collettivismo”); ma gli acquisti si programmano e si effettuano insieme, direttamente dal produttore. In questo modo si salta l’intermediazione commerciale e i relativi ricarichi (compreso un sacco di imballaggi inutili, inquinanti e costosi); si rompe l’isolamento proprio della società in cui viviamo, (e ci si può così accordare per condividere molte altre cose: per esempio la cura di bambini, anziani e malati, la riparazione di apparecchiature e impianti guasti, lo scambio di abiti e beni dismessi, la condivisione di attrezzi e know- how per il “fai da te”, lezioni e ripetizioni di vario genere, ecc.).
Poi ci si informa e ci si forma insieme. Perché per comprare cose sane e beni utili bisogna intendersi sia di come sono fatti che di come vengono prodotti. E, infine si dà una mano, e si fornisce un mercato, ai produttori che vogliono rendere sostenibile la loro azienda: per esempio agli agricoltori che vogliono passare all’agricoltura biologica e a chilometri zero; o alle imprese alimentari che adottano metodi di lavorazione che non avvelenano il cibo. Ovviamente tutto ciò non basta. Per perseguire e raggiungere la sostenibilità ambientale occorre imporre un cambio di rotta generale. Occorre imporre ai governi, sia a livello locale che nazionale, una vera politica industriale: cioè dei piani che orientino l’attività economica verso prodotti, tecnologie, sistemi di produzione e un’organizzazione del lavoro sostenibili; che dunque entrino nel merito del “che cosa” produrre (e che cosa non produrre); e di come produrlo, con che cosa, per chi e anche dove. Anche in questo caso non si tratta di riproporre il “collettivismo”, cioè uno stato centralizzato che pianifica tutto: quello che aveva costituito la bandiera, ma, in realtà, mai la pratica concreta, dei paesi cosiddetti comunisti o a economia pianificata come l’ex Urss e i suoi satelliti. Quelle esperienze sono fallite e probabilmente non avrebbero mai dovuto essere nemmeno promosse, perché non si sono mai basate – se non forse nei momenti “caldi” della rivoluzione o subito dopo la sconfitta del nazismo – sull’iniziativa popolare, sulla partecipazione dei lavoratori, su una vera democrazia.
Mettere al centro della politica industriale la conversione ecologica di tutto il sistema economico, o per lo meno delle sue principali strutture portanti, oggi si può proporre e realizzare solo promuovendo la più larga partecipazione “dal basso” della popolazione coinvolta: sia quella che vive del lavoro nelle o delle imprese da convertire, sia quella che vive delle spese che quei lavoratori effettuano sul loro territorio, sia quella che subisce l’impatto, cioè i danni ambientali e le trasformazioni sociali provocati da quelle aziende. Ciò vuol dire, ovviamente, che una politica industriale sostenibile può nascere solo nel quadro di una democrazia partecipata che abbia al suo centro il lavoro – e l’organizzazione dei lavoratori interessati – ma che, insieme al lavoro, promuova anche l’impegno e la presenza organizzata di una comunità più larga, delle sue amministrazioni locali, di altre imprese che operano sullo stesso territorio, dei saperi diffusi tra i membri di tutta la comunità. Per poi allargare il coinvolgimento ad altre aziende e ad altre comunità, e con esse preparare e sostenere programmi e rivendicazioni di valenza nazionale o europea.
Oggi, nella maggior parte delle aziende, e poi a livello nazionale, vengono messi in forse i principi fondamentali della democrazia: la rappresentanza sindacale, il diritto di sciopero, la sicurezza del posto di lavoro che protegga dai licenziamenti individuali – che sono sempre discriminatori – e, soprattutto, dalla condizione di vivere sempre sotto la minaccia di essere oggetto di licenziamenti di rappresaglie. Ma un recupero di queste basi elementari della democrazia in azienda, la cui eliminazione compromette i meccanismi della democrazia in tutto il resto del paese, non può essere affidato solo all’azione sindacale e alla lotta dei lavoratori: deve diventare l’obiettivo, e coinvolgere in un unico processo, tutta la popolazione di chi vive del lavoro proprio e dei propri familiari, e di chi il lavoro non ce l’ha, non lo può avere, o lo ha solo una volta ogni tanto. E questo, a partire da una ricomposizione di ogni comunità intorno a obiettivi generali che riguardano tutto il proprio territorio. Perché il problema principale, in tutti questi casi, è eliminare o eludere il ricatto di una delocalizzazione.
Nelle aziende e nelle zone colpite dalla crisi economica e occupazionale la conversione ecologica è l’unica alternativa praticabile. Quelle aziende, è ormai chiaro, non torneranno mai più ad aprire e a riassumere per produrre le cose di un tempo. Non hanno più mercato, vuoi perché quelle produzioni sono state “delocalizzate”, magari in Estremo oriente (è il caso, per esempio, di molta industria tessile e dell’abbigliamento); vuoi perché, per mancanza di innovazioni, l’azienda si è ormai fatta surclassare dalla concorrenza e non avrà mai più la forza di recuperare il terreno perduto in campo tecnologico e sul mercato (è il caso di molti stabilimenti Fiat); vuoi perché quelle aziende sono state fatte oggetto di una speculazione e i padroni, dopo aver spremuto tutto quello che era possibile spremere (sia dai lavoratori che dal bilancio dello Stato) se ne sono andati per sempre, portandosi magari via soldi, marchio e know-how.
Per salvare l’occupazione, riaprire le assunzioni, rendere accettabile l’ambiente di lavoro, valorizzare l’esperienza e le conoscenze del personale tecnico e operaio, ma anche una parte consistente degli impianti e delle attrezzature esistenti, occorre passare a nuove produzioni. E tra queste bisogna scegliere quelle che hanno un futuro e, quindi, anche un mercato sicuro; che sono quelle che si renderanno sempre più indispensabili mano a mano che gli effetti della crisi ambientale si faranno sentire su tutto il pianeta: impianti per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili (eolico, solare, geotermico, biomasse, idrico, ecc.); soluzioni – meccaniche, elettroniche, costruttive – per promuovere l’efficienza energetica; veicoli da usare in forma in forma condivisa e sistemi di governo della mobilità e del trasporto sostenibili; sistemi di recupero integrale delle risorse (riciclo totale di scarti e rifiuti); progetti, know-how e strumenti per la salvaguardia e la rinaturalizzazione del territorio; sistemi di coltivazione ecologici a elevata intensità di lavoro qualificato e di tecnologia; progetti per il recupero e l’efficienza degli edifici obsoleti o dismessi; laboratori e capacità tecniche per prolungare la vita dei prodotti con la manutenzione e la riparazione; ecc.
Per avviare queste nuove produzioni occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo una comunità, o un insieme più ampio possibile di comunità e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da questo orecchio: per lo più è impegnata in traffici politici di tutt’altro genere (“tu dai una cosa a me e io do una cosa a te”). Poi – dicono – “non ci sono i soldi”: cioè le risorse per realizzare cose nuove, anche se di denaro continuano a sprecarne moltissimo. Ma molte cose si possono cominciare a fare, o per lo meno a discutere e definire, a costo zero. E su altre si può avviare la ricerca o avanzare la richiesta, o una vera e propria rivendicazione, di un finanziamento; ma solo a condizione che siano chiare e definite le cose che si vogliono fare: per esempio l’installazione di impianti a energia solare su tutte le case adatte, o su certi edifici; o un sistema di mobilità condivisa ed efficiente; o un mercato di prossimità dove gli agricoltori possano accedere direttamente; o un programma articolato di ristrutturazione degli edifici energeticamente inefficienti; o il riassetto di un territorio in dissesto, ecc.
A quel punto si può aprire una vertenza: sia nei confronti dei governi locali, che, eventualmente, e con il loro appoggio, nei confronti, questa volta, dei governi regionali o di quello nazionale, o dell’Unione europea, a seconda della portata della rivendicazione. Ma senza un progetto definito nessuna di queste cose può andare avanti. Pensiamo alle energie rinnovabili o all’efficienza energetica: sul lungo periodo sono interventi che si ripagano da sé, perché fanno risparmiare denaro e combustibili fossili; e tanto più oggi, perché sono ancora incentivati. Ma per diffonderle in forme produttive e sensate (cosa che finora in Italia non si è fatto, elargendo per lo più gli elevatissimi incentivi in vigore a speculatori che nulla hanno a che fare con la conversione ecologica) ci vogliono programmi a livello territoriale, ricognizioni sul territorio e sugli edifici, progetti, tecnici, imprese di installazione e manutenzione; e poi, anche imprese per la produzione degli impianti (come i pannelli solari, le pale eoliche, le pompe di calore, gli inverter, ecc.) o di impianti e attrezzature per l’efficienza energetica (come gli impianti di micro cogenerazione, i corpi illuminanti a basso consumo, i regolatori di flusso, gli infissi e i materiali isolanti, le caldaie a condensazione, ecc.). Così, con il coinvolgimento di un certo numero di enti locali, si può cercare di mettere in contatto i potenziali produttori (cioè le aziende che hanno bisogno di riconvertire le loro produzioni) con i potenziali utenti di questo intervento (enti pubblici come Comuni, con i loro edifici e i loro impianti sportivi; ospedali, Asl, imprese, ma anche singoli privati, soprattutto se in strutture associative) e magari accedere a finanziamenti pubblici altrimenti inutilizzati o inarrivabili.
Qui l’esempio dei Gas – il rapporto diretto tra produttore e consumatore – calza a pennello: si tratta di riproporlo su una scala più allargata in campo energetico; o nel campo dell’edilizia e della manutenzione del territorio; o nel settore agroalimentare; o nel campo della mobilità: offrire alle conversioni ecologiche di impianti e di aziende in crisi un mercato garantito per avviare con una relativa sicurezza le nuove produzioni. Se poi a guidare le nuove aziende sarà un imprenditore disposto a farlo sotto il controllo della comunità oppure se ne dovrà promuovere una gestione in forme associative o cooperative, è cosa da decidere in corso d’opera. Certo, per promuovere una conversione ecologica su larga scala ci vogliono “forze fresche” anche in campo imprenditoriale, perché molti degli attuali manager e imprenditori sono indissolubilmente legati a un modo di fare impresa che non accetta interferenze esterne. Ma queste forze ci sono; bisogna farle emergere: all’interno delle aziende, nell’associazionismo e nell’imprenditoria sociale, nel movimento cooperativo. Si tratta di non scoraggiarle e di coltivarle anche prima che per loro si prospetti concretamente un qualche incarico. Anche il problema del finanziamento viene dopo: alcuni progetti potrebbero essere interessanti persino per chi voglia anche solo investire del denaro: iversamente bisognerà individuare nel bilancio pubblico – a partire dalle spese militari e dai soldi sprecati in “Grandi opere” – le risorse da destinare ai nuovi progetti.
(Questo testo, insieme ad altri, è stato pubblicato in Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva, edito da !Rebeldia edizioni, 2012; per aggiornamenti sul Municipio dei beni comuni promosso del Progetto Rebeldìa di Pisa leggete qua).
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