Nel giro di pochi giorni Facebook è andato improvvisamente in tilt per alcune ore senza alcuna spiegazione, è stato annunciato il passaggio al “meta-mondo”, in cui l’altro non esiste più se non come stimolazione nervosa simulata, e Cop26, al di là delle chiacchiere sancisce l’impossibilità di evitare le conseguenze devastanti del riscaldamento
Tratta da pixabay.com
Tutto era già scritto nella dichiarazione di indipendenza del Ciberspazio, scritta da John Perry Barlow nel 1993. “In nome del futuro chiedo a voi del passato di lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità nel territorio in cui noi ci riuniamo. Non abbiamo eletto nessun governo e non abbiamo intenzione di averne uno, perciò mi rivolgo a voi con l’autorità che viene dal luogo in cui parla la libertà. Dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo è per natura indipendente dalle tirannie che voi cercate di imporre su di noi. Non avete alcun diritto morale di governarci e non possedete alcuno strumento di imposizione che noi abbiamo ragione di temere”.
L’Iper-mondo
In trenta anni si è costruito il ciberspazio, Iper-mondo sul quale il mondo terrestre non ha più governo. Il contributo che le imprese industriali pagavano sotto forma di tasse non vale per le compagnie che hanno costruito un territorio non territoriale. I poteri politici non sono sovrani nella sfera del non territorio, al contrario: il non territorio virtuale è divenuto l’infrastruttura globale senza la quale il sistema politico, amministrativo ed economico non possono funzionare. L’iper-mondo è una dimensione che ricodifica la realtà sociale, trasferendo le pratiche di linguaggio (l’economia, la politica, la comunicazione, l’affettività) su un piano accelerato e indipendente dalle leggi territoriali, ma non indipendente dal consumo di energia elettrica e soprattutto dal consumo di energia nervosa.
Il Meta-mondo è una dimensione che non soltanto ricodifica il mondo ma ricodifica anche la soggettività-nervosa psichica e linguistica trasferendola in un Meta-mondo di stimolazioni e di percezioni simulate.
Alla fine dell’Ottobre 2021 Mark Zuckenberg ha tenuto una conferenza in virtual connect. Non certo per rispondere alle accuse dei whistleblowers che denunciano gli effetti nocivi delle reti sociali: minuzie di poco conto, poiché l’esposizione della mente umana a un volume crescente di neuro-stimolazione virtuale sta producendo una mutazione che va al di là della volontà politica dei censori e dei moralizzatori. Quelle denunce sono inconsistenti: è vero che Facebook come le altre reti sociali tende ad amplificare e radicalizzare l’odio sociale. Ma non è Facebook che ha prodotto la frustrazione, la rabbia impotente, l’odio. È il sistema economico sempre più ineguale, precario e violento il brodo di coltura dell’aggressività collettiva. E naturalmente Facebook fa parte di questo sistema. Le reti sociali da cui è scomparso il calore dei corpi non fanno che amplificare quella violenza, esaltandone al tempo stesso l’inefficacia. Quanto più cresce la nostra rabbia, quanto più la esprimiamo ad alta voce dentro la campana di vetro della connessione, tanto maggiore è l’impotenza.
Il meta-mondo
Il ciclo dell’impotenza è giunto ora probabilmente al suo limite estremo e Zuckerberg propone di compiere un salto ulteriore: il salto nel Meta-spazio, di cui il ciberspazio ha costruito l’infrastruttura. Alcuni critici hanno osservato che Zuckerberg intende rendere autonomo il suo sistema da Apple e da Google, da cui attualmente dipende tecnicamente per alcune funzioni. Sul New York Times del 1 novembre Sara Zwisher sostiene che Meta è soltanto una struttura aziendale più ampia creata da Zucker per sfuggire alle recenti difficoltà legali. Davvero? Certamente vi saranno considerazioni contingenti di tipo economico e tecnico, nelle scelte di Zuckerberg. Ma le implicazioni filosofiche del lancio di Meta sono a mio parere molto più importanti. L’innovazione mira a mettere a frutto le sperimentazioni che si sono fatte dagli anni Ottanta in poi, da quando Jaron Lanier parlò per primo di Virtual reality e di comunicazione sinestetica senza simboli. In questi decenni i software di definizione visuale e multi-sensoriale si sono perfezionati e il progetto Meta consiste nel far convergere queste tecnologie attraverso una piattaforma come Oculus, o altri più evoluti trasduttori di impulsi elettronici in esperienza immersiva. Nella sua conferenza Zuckerberg ha annunciato l’espansione della dimensione immersiva, con hardware di Realtà aumentata e con sensori personalizzati. Se Iper è una dimensione che accelera infinitamente il circuito della comunicazione di impulsi, Meta è la dimensione in cui la comunicazione di impulsi simula e sostituisce la relazione reale tra cervello e mondo, per istituire una Meta-Realtà in cui l’altro non esiste più se non come stimolazione nervosa simulata.
E il mondo
L’annuncio di un salto dall’Iper al Meta avviene negli stessi giorni in cui si prepara la COP26 di Glasgow, che al di là delle chiacchiere sancisce la definitiva impossibilità di salvare la Terra e i suoi abitanti dalle conseguenze devastanti del riscaldamento, della migrazione gigante che ne segue e dalla guerra che l’accompagna, della disperazione e del panico.
Dopo il G8 di Roma questo lo sanno tutti tranne i cinque stelle di Cingolani che aggrappati alla poltrona ripetono coglionate con pacatezza e con moderazione. La crisi energetica spinge alcuni paesi a riaprire le miniere di carbone. Nessun progetto realistico può contemperare la crescita economica con la riduzione delle emissioni. Perciò, data la priorità assoluta della crescita economica, si faranno di nuovo promesse: nel 2050 (anzi forse nel 2060 anzi nel 2070) tutto sarà in regola, tanto è probabile che a quel punto non ci sia più nessuno a verificare. Ora che sappiamo che il mondo è destinato a divenire un luogo inabitabile, ecco che iniziamo a costruire il Meta-mondo. Una popolazione di hikikomori che dai loro cubicoli si connetteranno a un mondo di stimoli percettivi. L’immaginazione avrà allora saldamente preso in mano il potere. Mentre il corpo fisico e sociale marcisce.
Silenzio
Funzionerà il Meta-mondo? Assisteremo al trasferimento di una porzione rilevante della popolazione umana nella sfera simulata? Non lo so. Quel che so è che in un giorno di ottobre per sei ore, l’intero sistema Facebook si è spento. Nessuno ha spiegato cosa è successo, né Zuckerberg né altri. E allora facciamo delle ipotesi. La prima ipotesi è che si sia trattato di un sabotaggio interno: dipendenti di Facebook si sono espressi in questa maniera per qualche ragione sindacale o politica. Troppo bello per essere vero, e poi penso che ce lo avrebbero detto. La seconda ipotesi è che il sabotaggio sia stato organizzato dall’esterno, dai soliti russi o macedoni o forse cinesi chi lo sa. Possibile, ma non credo che sia andata così. La terza ipotesi è che Zuckerberg, stanco di essere additato dai media e dal sistema politico americano, abbia fatto una piccola dimostrazione: provate a vedere che accade se blocco un territorio che ha tre miliardi e mezzo di cittadini, innumerevoli aziende che producono distribuiscono pubblicizzano eccetera. Possibile, realistico. Ma l’ipotesi più probabile di tutte è la più semplice: nel mese in cui il mondo ha scoperto la prima crisi globale da sovraccarico, ovvero da iper-complessità, anche il sistema Facebook è andato in tilt per la semplice ragione che l’elettricità non era sufficiente in qualche punto dell’infrastruttura, o perché la domanda di connessione in quel momento è salita oltre i limiti.
Come sappiamo quanto più complesso è un sistema integrato tanto meno le interruzioni possono essere localizzate, contenute e riparate. Nei prossimi mesi e nei prossimi anni, mentre il mondo diventa troppo orrendo per poterne tollerare la realtà, ci trasferiremo probabilmente nel meta-mondo. Le cuffie nelle orecchie ci impediranno di sentire il rumore della sofferenza e i visori ci impediranno di vedere lo squallore la tristezza la devastazione. Ma a un certo punto il sovraccarico, o forse un sabotaggio russo o forse un’imprevedibile inspiegabile crollo energetico spegnerà visori auricolari e ogni altro congegno connettivo. Come racconta Don De Lillo nel suo breve romanzo Silenzio. Un silenzio di tomba.
Diario canapalogico di Ivan Montagni
La canapa è una pianta che ha accompagnato la storia umana fin da tempi antichissimi; sul nostro territorio è presente da più di 500 anni ed è stata fondamentale per la vita delle persone che dai campi ricavavano ciò di cui avevano bisogno per vivere.
La canapa forniva una tela, un tessuto, con cui venivano realizzate lenzuola, asciugamani, tovaglie, sacchi e bazze, grembiuli, camicie e pantaloni.
Ho iniziato la ricerca antropologica sul campo cercando testimoni giovani, perché assistiamo oggi al ritorno di questa coltivazione, e anziani, che ricordassero le fasi della lavorazione della pianta, oltre a documenti ufficiali e non, che potessero darmi una mano nel ricostruire la sua diffusione e il suo utilizzo sul territorio della Judicaria.
Ovunque ho trovato segni della presenza di questa pianta, ogni piccolo borgo aveva una località chiamata masère, vicino a un corso d’acqua o a un lago, dove i fusti della pianta venivano portati a macerare nell’acqua per permettere la separazione della fibra dal canapulo.
Mi sono spostato sul territorio a partire dal mese di febbraio del 2021, incontrando i testimoni di cui riporto le parole che ho registrato e trascritto in questo diario.
Intanto, mentre scrivo, sulla stufa bolle una padella di acqua con della fibra di canapa allo scopo di separare la cellulosa dalla lignina. È il primo tentativo di realizzare un foglio di carta di canapa, obiettivo che io e Lorenzo ci siamo dati per il 2021. Vogliamo dare questo foglio a un artista locale che lo usi come tela su cui dipingere, recuperando un’antica tradizione, visto che molti pittori dipingevano su tele di canapa.
Lorenzo è uno dei primi coltivatori di canapa in Trentino, fondatore e presidente dell’Associazione Canapa Trentina che si occupa di promuovere il ritorno di questa cultura e si impegna a creare una filiera della canapa sul nostro territorio. L’Associazione si occupa delle varietà di canapa per la produzione di seme.
24 febbraio 2021
Dopo uno scambio di mail, oggi alle 10 al Museo Scuola di Rango incontro Tomaso Iori per parlare della canapa. Mi fa entrare nella scuola mentre lui affigge un manifesto sulla parete e m’invita a dare un’occhiata.
Il luogo è rimasto uguale a com’era settanta anni fa: pavimento di legno, stufa a olle, banchi di scuola in legno, mappe e tavole di pesi e misure alle pareti, registri, pagelle e foto di alunni e di maestre. Lo spazio è vivo, pieno di dinamo, ruote e orologi meccanici, cui quest’anno è dedicata la scuola.
Tomaso cita versi del Paradiso e mi mostra quadri del Botticelli, mentre spiega e ascolta il mio progetto sulla canapa, pianta conosciuta in ogni angolo della terra e usata da sempre per la cura, per la biancheria della casa come lenzuola e asciugamani e strofinacci per la cucina e i lenzuoli per il fieno.
“Era una cultura della vita”, dice Tomaso.
Gli chiedo di testimoni, di poter incontrare qualcuno del posto con ottant’anni o più; mi mostra i filmati sui basquenis e sulla danza macabra, dove compare ancora l’orologio meccanico. Il tema dell’orologio lo affascina e mi mostra i modelli che ha costruito. È ingegnoso e appassionato della cultura in generale.
Poi lasciamo la scuola e mi porta a vedere uno dei murales dipinti sulle case di Balbido, quello che rappresenta la lavorazione della canapa.
La didascalia riporta il luogo delle macere o masére, dove venivano portati i fusti della pianta, sul torrente Duina e decidiamo di andare a vedere se sono ancora riconoscibili le pozze dove veniva lasciata a macerare prima della gramolatura.
Tomaso mi parla delle Regole di Dorsino e del divieto assoluto di gramolar la canapa dopo il tramonto, perché la polvere che si creava durante la fase di separazione della fibra dalla parte legnosa, il canapulo, poteva prendere facilmente fuoco con il rischio di bruciare il paese, siamo circa nel 1780.
La lavorazione della canapa è continuata fino agli anni ‘60 circa e si coltivava la pianta soprattutto per l’autoproduzione di tessuti per la casa.
Tomaso mi racconta con amarezza e delusione che stanno per vendere la casa che ospita il Museo Scuola Rango, rimasto uguale per sessanta anni e mai toccato (“le robe le salvi lasciandole stare e non mettendoci mano che le stravolgi”) perché servono soldi per rifare il tetto della chiesa.
Mi racconta del museo Par Ieri di Stenico, cui ha donato un telaio con cui si realizzavano tessuti di canapa. Aggiungo ai miei programmi una visita al Museo di Stenico.
Mi racconta di non essere nato qua ma a Lavis, in Valle dell’Adige seppur originario della zona, è tornato solo da qualche anno.
Poi mi porta da un suo amico che, dice, “Magari sa qualcosa” e raggiungiamo la casa di Ognibene: ci viene incontro, dal campo dietro l’abitazione, con in mano sega e podeta. Ci sediamo tutti e tre davanti a casa e mi racconta quello che sa “Io mi ricordo di quello che raccontava il Giulietto Farina, ormai morto; da bocia andava a battere la canapa dentro a Barbesian, dalla chiesa di Santa Giustina c’è una casa che va dentro un falsopiano, sale un po’ verso il Duina, il torrente, e dentro in fondo “i feva na poza, se no la ghera” e la mettevano nell’acqua e poi coprivano con i sassi i fusti per farli stare completamente sotto il livello dell’acqua. Poi ricordo mia nonna, nata nel 1893 e morta nel 1978 che “la ghaveva en mucio de linzoi de moleton che l’era canapa”.
Mi racconta che il mese scorso alla Lomasona ha saputo che all’inizio del sentiero dei mattoni c’era una zona dove maceravano la canapa; proprio fuori alla zona dove oggi c’è la pescicoltura.
Chiedo anche a lui se conosce qualche testimone ancora in vita, qualche anziano in forma, a cui poter far visita e mi fa alcuni nomi: Gepo, Giuseppe Riccadonna, Loretta, la mamma del sindaco, Livio Reversi, che ha la stalla sulla strada, che ha fatto l’arrotino da giovane cui Ognibene vuole chiedere informazioni circa una scritta su un muro del paese, la mamma di Tiziana, il maestro Battista Calliari di Cavrasto.
Mi consigliano anche di consultare Aldo Gottardi, del Centro Studi Judicaria, un giovane di 35 anni, storico e appassionato.
Tomaso, mi racconta Ognibene, è uno dei pochi in Italia a saper accendere il fuoco con la pietra focaia, gli acciarini e il fungo fomes fomentarius, utilizzato da sempre come esca.
Infine Tomaso mi racconta di Arrigo Iori di Bivedo che l’anno scorso ha coltivato canapa.
Tomaso mi parla anche di alcuni documenti sulla tia, una candela che si teneva in bocca e mi mostra una raffigurazione di una donna in cucina con la tia in bocca mentre tesse della canapa.
Ognibene Grazzi mi regala un libro “Balbido era….Balbido è” del gruppo culturale La Ceppaia.
Poi lascio i due amici a prepararsi il pranzo, dopo esserci dati un altro appuntamento per andare a vedere le masére e incontrare qualche altro testimone.
La prossima volta porterò loro la canapina, una cagliata di latte di canapa, che autoproduco, per fargliela assaggiare.
Nella mia Romagna, lungo il fiumiciattolo Rubicone tra Fiumicino e I Capanni (si
chiamano così due “frazioni” di Savignano s.R. c’è ancora, bello da vedere pur sconosciuto del tutto ai “giovani” un
Mesar (così si chiama in
diaetto romagnolo). Ricordo benissimo che da noialtri la canapa intercalava i solchi delle
patate che si estraevano
di solito a fine agosto, mentrea fine settembre si falciavano i “canavoun”, si battevano poi su assi inclinate (dopo averli lasciati essiccare in covoni piramidali al sole estraendone semi e “pula” che veniva poi insaccata. Al mare tra le dune di sabbia, seme e pula si separavano con l’ausilio della brezza dell’Adriatico, mettendo
la miscela dei due dentro un “val” di ferro che veniva poi lentamente vuotato al vento. Il seme così pulito veniva reinsaccato e venduto ai
“Ferraresi” per semina in una terra più fdertile della nostra. I Canavoun
ridotti a fusti spogli finivano a macerare nel “Mesar” base per le corde di allora. Ma questa è un’altra storia …..
Bellissimo il tuo ricordo, la canapa ha accompagnato fornendo vestiti, sacchi lenzuola 6 secoli di storia recente.
Era in ogni valle, ogni paesino trentino aveva la sua masera vicino ad un corso d’acqua.
Una coltivazione della vita—