di Marco Arturi
Reggia di Venaria, Torino, 6 gennaio. Il complesso museale ha appena chiuso l’anno che ha fatto registrare il record storico di visitatori (oltre un milione) e si appresta ad affrontare un altro week-end da tutto esaurito, quello dell’Epifania. Tutto andrebbe a gonfie vele, non fosse che da mesi i novantacinque lavoratori della CoopCulture – la più grande cooperativa nel settore dei beni culturali in Italia – che gestiscono i servizi esterni del polo museale sono sul piede di guerra a causa di un contratto che ha tagliato del 20 per cento i salari attraverso l’abbattimento del monte ore lavorativo, la diminuzione della paga oraria e la soppressione dei buoni pasto.
Per il giorno dell’Epifania è stato proclamato uno sciopero: l’adesione è totale ma la Reggia non chiude i battenti. Possibile? Eccome, basta fare ricorso alle precettazioni previste dalla legge Franceschini – quella figlia del cosiddetto “decreto Colosseo”, che equipara i lavoratori dei beni culturali a quelli dei servizi pubblici come la sanità – e ai contratti intermittenti o giornalieri proprio in questi giorni alla ribalta delle cronache. Una ventina di precettazioni, una ventina di contratti a chiamata e il gioco è fatto. Anzi, lo sciopero è disinnescato. Alla fine arrivano addirittura i carabinieri, chiamati dai delegati dell’Usb che decidono di denunciare la cooperativa per comportamento antisindacale. A pronunciarsi a riguardo nelle prossime settimane sarà il tribunale di Ivrea.
La vicenda avrebbe dell’incredibile se non si svolgesse nell’Italia di inizio 2017, un paese nel quale non mancano gli strumenti per aggirare uno sciopero. In fondo aveva ragione Matteo Renzi: i mille giorni del suo governo sono stati #lavoltabuona per un sacco di cose. Tra queste, quella che è di fatto la più estesa limitazione del diritto di sciopero da diversi decenni. Le avvisaglie c’erano tutte, dal varo del Jobs act al blocco degli scioperi a Milano – avallato dal sindacato confederale – in occasione di Expo 2015; poi sono arrivati il “decreto Colosseo” (conseguente, lo ricordiamo, al clamore sollevato da politica e stampa in seguito a una regolare assemblea dei lavoratori) e il dilagare del sistema voucher. Fatto sta che scioperare per avanzare rivendicazioni o per far valere i propri diritti è diventato sempre più rischioso e complicato.
Del resto, i provvedimenti del governo Renzi hanno trovato terreno fertile in un retroterra culturale caratterizzato da un’insofferenza diffusa verso le astensioni dal lavoro (prime tra tutte quelle dei trasporti e del pubblico), dalla demonizzazione di ogni iniziativa di lotta, dall’abulia di un sindacato che ricorre sempre meno agli scioperi, che firma contratti quantomeno discutibili (è il caso di quello dei metalmeccanici e del pubblico, siglati a pochi giorni dal referendum del 4 dicembre) e che arriva a contraddire sé stesso, come nel caso della Cgil che promuove un referendum per la cancellazione dei voucher mentre ne fa uso, per quanto “sporadico”, al suo interno.
Si dirà – come si è già detto – che non è tollerabile che i turisti trovino i luoghi di interesse culturale chiusi per via di un’agitazione dei lavoratori; ma non si dice nulla riguardo alle ragioni di quell’agitazione, come nel già citato caso dell’assemblea dei lavoratori del Colosseo che aspettavano da quasi un anno il pagamento del salario accessorio e delle prestazioni straordinarie. Si dirà – come si è già detto – che la cultura non può essere “ostaggio” di lavoratori e sindacati; ma senza spiegare che in altri paesi che puntano quanto e più del nostro sui beni culturali le agitazioni non sollevano scandalo né cagnare a mezzo stampa, come nel caso degli scioperi del Musée d’Orsay di Parigi o di quelli dei musei londinesi del 2015. Si dirà infine – come è già stato detto – che il ricorso ai voucher è utile per l’emersione del lavoro nero; ma senza spiegare che si è andati ben oltre le intenzioni iniziali (anche condivisibili) che avevano reso in qualche misura necessario e legittimo lo strumento. Ben oltre, come ci dice la vicenda di Venaria: a dimostrazione del fatto che a volte delle migliori intenzioni è lastricata la strada per l’inferno.
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