di Alessandro Pertosa*
Il Sole dei cattivi, dell’artista marchigiano Paolo Consorti, è un film straordinario. E l’aggettivo straordinario va inteso nel suo senso etimologico più radicale: ovvero è ciò che eccede, che è oltre l’ordinario. Nello specifico si potrebbe parlare persino di poesia pittorica in movimento, di un’istallazione filosofica e teologica, di una riflessione sperimentale dagli esiti surreali. Consorti si pone sulla scia dei grandi – Fellini e Pasolini in particolare – senza ridursi però alla citazione o alla mera copia (penso di poter dire, con timore e tremore, ma anche con buone ragioni, che in certi passaggi Consorti superi persino il Pasolini regista). La sua arte è genuina e originale, profonda, immaginifica e arricchita dalla presenza di ottimi attori – come Nino Frassica (davvero notevole il suo Caifa) e Federico Rosati (parroco) –, fra cui spicca per intensità l’interpretazione dell’ottimo Luca Lionello (Erode).
Ma veniamo al cuore del film. Il regista proietta le figure di Erode e Caifa in un reality, dividendo la sua opera in due capitoli. Nel primo capitolo, Erode, che si pone domande su Dio, sull’incarnazione, sulla credibilità del Cristo storico, provoca i visitatori del Presepe Vivente di Grottammare (Ascoli Piceno), scagliandosi contro tutti. Nel presepe vivente, accanto ai figuranti e al pubblico, Erode vive momenti di sconforto, di agitazione e rabbia, fino a scoprire in sé, nella surrealtà di una vicenda che alterna visionarietà e quotidiano, un sentimento di gioia, di affetto e di struggente tenerezza.
Il secondo capitolo del film si svolge invece a Larino (Campobasso), durante la rappresentazione della Passione. Qui Consorti mette in scena un Caifa pentito, un Caifa pronto a salvare Gesù da una morte iniqua, un Caifa che vive la sua passione parallelamente a quella di Cristo. Il sommo sacerdote, infatti, viene ucciso da quei «cristiani» che gli impediscono di mutare il corso degli eventi. Tra dramma e ironia il film racconta, dal dubbioso punto di vista umano, la nascita e la morte di Cristo.
Agli occhi dell’osservatore si rivela molto interessante la dicotomia che il regista presenta fra il Cristo utopico e il Cristo ideologico. Erode e Caifa compiono un loro percorso esistenziale in completa solitudine, emarginati, fino a raggiungere non Cristo – perché Cristo è irraggiungibile – ma una luce, una via che dagli inferi spalanca loro le porte per la salvezza, per il ritorno nel principio, per un’apocatastasi completa.
Appare molto interessante anche il diverso andamento dei due capitoli del film. Nel primo, Erode chiede ai fedeli chi sia Cristo, chi sia per loro il Messia, dove sia quella stella cometa tanto attesa. Dall’alto del suo scranno, egli cerca inizialmente una prova incontrovertibile dell’esistenza di questo Re, esige di conoscere il mistero con la veritas della filosofia occidentale. E i fedeli rispondono con pistis, replicano con «buona fede»: danno l’assenso a ciò che non vedono, gettandosi nel mare ignoto dell’utopia, di quella fede che non ha agganci, basamenti, solidità (almeno in apparenza, perché alla fine quella fede si rivelerà violenta, catechetica e dogmatica).
Nel secondo capitolo avviene un capovolgimento complessivo della narrazione. Agli occhi dei fedeli, Cristo diventa ideologia, la sua storia emerge quale fondamento di un catechismo, di un potere, di una chiesa trionfante che «dice come stanno definitivamente le cose». Caifa vorrebbe sottrarre Gesù dalla crocifissione, ma i fedeli che partecipano alla Passione di Larino glielo impediscono. Perché, per la storia, Caifa è il cattivo, come Erode. Loro, i reietti, sono all’inferno, sprofondati in quei gironi da cui Paolo Consorti li recupera a nuova vita.
Tutto molto bello, e davvero straordinariamente poetico. Ma una scena, una scena spicca sulle altre. Il regista mette le parole di Cristo (Padre sia fatta non la mia, ma la tua volontà) in bocca a Caifa. Un eretico abominio per i bigotti: una visionarietà straordinaria per i poveri per lo spirito. Caifa l’ebreo prova a riscrivere la storia, vuole salvare Cristo dalla morte, ma l’occidente idolatra, quell’occidente ammalato di ideologia glielo impedisce, relegando di nuovo gli ebrei nel girone infernale dei deicidi.
Queste mie righe sono solo considerazioni che non spiegano nulla, perché non c’è nulla da spiegare, nulla che possa essere detto in parole umane significanti. Il film è un’autentica opera d’arte: andrebbe visto, e rivisto, e rivisto, e rivisto all’infinito, come l’utopia verso cui tende.
* Ricercatore in filosofia, Alessandro Pertosa scrive irregolarmente di filosofia, economia, teologia, bioetica, decrescita.
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