Si è chiusa domenica la 25° Conferenza ONU sul Clima (COP 25), nell’ambito dell’UNFCCC, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. Doveva essere il momento dell’ambizione, e invece si è conclusa con un nulla di fatto, mentre sono scoppiate tensioni accumulate tra gli Stati nel corso degli ultimi anni e sono emerse alla luce del sole le fratture profonde che attraversano le società in questo momento di crisi globale, climatica ma anche ambientale e sociale.
Dall’altra parte, resta il dato della straordinaria mobilitazione della società civile che nell’ultimo anno ha dato una forte scossa al dibattito pubblico, portando questi temi finalmente nelle piazze e da lì nell’agenda politica: sintomo di una società civile che non si arrende alla deriva dei nostri tempi.
Una delegazione di A Sud ha partecipato in maniera attiva sia alla COP 25 che al controvertice di comunità, movimenti e organizzazioni. Nelle riflessioni finali, siamo ripartiti dall’inizio, dal motivo per cui la Conferenza, invece di svolgersi in America Latina, è approdata in Spagna, per approfondire poi i nodi negoziali più importanti e i motivi per cui la COP è stata fatta fallire, fino alla straordinaria risposta della società civile e a quello che ci aspetta per il futuro.
Dal Brasile alla Spagna, passando per il Cile
La storia di questa COP, così rilevante per la governance climatica globale e carica di aspettative, è stata travagliata fin dall’inizio. In origine avrebbe dovuto svolgersi in Brasile, ma poco più di un anno fa e appena un mese dopo la sua elezione, Bolsonaro aveva reso nota la propria rinuncia a ospitare la Conferenza. Ufficialmente, la decisione è stata presa per questioni finanziarie e per facilitare l’installamento della nuova amministrazione, ma i reali motivi sono da ricollegare al tipo di politiche e modello che il nuovo leader brasiliano ha messo in chiaro fin da subito di voler perseguire, improntati al disboscamento dell’Amazzonia, lo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie e di combustibili fossili, e il silenziamento di tutte le voci di opposizione e protesta, dalle comunità indigene ai leader dei movimenti ambientalisti e sociali, lasciandosi dietro una triste scia di sangue e violenza.
Era a Santiago quindi che, fino a ottobre, avrebbe dovuto convergere il carrozzone della COP 25.
Cos’è successo? Chile despertó, il Cile si è svegliato: questo il grido con cui oltre un milione di persone è sceso in piazza chiedendo la rinuncia del governo di Piñera e una nuova Costituzione, per mettere fine a decenni di promesse incompiute e di accumulo di disuguaglianze, corruzione e scontento sempre più profondo della popolazione, come conseguenza di politiche di privatizzazione e liberalizzazione sfrenata, mentre si sono ristretti sempre più gli spazi per l’esercizio dei diritti umani, economici e sociali fondamentali, andando a delineare una nazione all’apparenza tra le più moderne e benestanti del continente sudamericano, ma in realtà drammaticamente divisa e ingiusta. E la risposta violenta e repressiva del governo attraverso l’apparato poliziesco non fa altro che confermare questa lettura: secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, in Cile si è verificato “un alto numero di gravi violazioni dei diritti umani […] tra cui un uso eccessivo o non necessario della forza, che ha determinato la privazione arbitraria della vita e in lesioni, torture, maltrattamenti, violenza sessuale e detenzioni arbitrarie”. Dai forti agenti chimici contenuti nell’acqua degli idranti, alle violazioni sistematiche di donne arrestate, fino agli spari sui manifestanti, tutto questo non è bastato per fermare una protesta che per decenni è maturata lentamente al di sotto dell’attenzione dei media e che, ormai matura, non si caratterizza solo come rifiuto di un certo modello e di una certa società, ma anche come proposta da cui ripartire.
Time for action
A fine ottobre, a poco più di un mese dalla data prevista di inizio della Conferenza ONU, constatando l’impossibilità di soffocare le proteste nonostante l’uso massiccio della violenza, il presidente Piñera ha annunciato la rinuncia del Cile a organizzare l’evento. Il governo spagnolo ha subito comunicato la propria disponibilità a subentrare, offrendosi di allestire la COP nei tempi previsti. E così, a inizio dicembre, delegati, rappresentanti, portatori d’interesse e osservatori da tutto il mondo sono conversi verso la capitale spagnola, anche se il Cile ha mantenuto la Presidenza ufficiale dei negoziati.
“Tempo di agire”, il messaggio rimbalzato da tutti i muri di Madrid, slogan ufficiale della COP 25. Banderuole attaccate ai lampioni, brick d’acqua in tetrapack con il logo della COP 25 regalati alle fermate, pubblicità sulle fiancate dell’autobus per invitare all’utilizzo di mezzi pubblici, ragazzi travestiti da pianeta Terra che distribuiscono volantini in carta riciclata, enormi cartelloni lungo i corridoi della metro che lanciano messaggi allarmistici sulla crisi climatica in atto. Eppure, i primi dubbi sorgono subito, quando davanti e all’interno della Fiera di Madrid, sede dei negoziati, si vedono campeggiare a lettere cubitali le sponsorizzazioni di marchi come Coca-Cola, Burger King o di Acciona, compagnia energetica spagnola accusata di gravi violazioni dei diritti umani e land grabbing in Messico.
Corporate Europe Observatory ha smascherato attraverso un’infografica come il governo spagnolo, tanto lodato per lo sforzo di aver messo a disposizione e organizzato una nuova sede per la Conferenza in meno di un mese, abbia in realtà fatto affidamento sui finanziamenti delle grandi multinazionali inquinanti e dell’industria dei combustibili fossili, quella stessa industria che, mentre la società civile veniva espulsa e silenziata, ha portato i propri interessi all’interno delle sale negoziali, meticolosamente minando di nascosto l’avanzamento delle discussioni e le istanze portate avanti dai Paesi meno sviluppati e più vulnerabili ai cambiamenti climatici, e giocando un forte ruolo nel fallimento finale della COP.
Proprio quello slogan, tempo di agire, ripetuto fino alla noia è diventato un messaggio quasi sardonico negli ultimi giorni di negoziati della Conferenza, che doveva essere un appuntamento quasi di passaggio prima della scadenza cruciale del 2020, anno in cui l’Accordo di Parigi dovrebbe diventare pienamente operativo. E invece, la COP 25, con ben 44 ore di ritardo rispetto ai tempi previsti, ha ottenuto il dubbio riconoscimento di Conferenza più lunga nella storia dell’UNFCCC, senza peraltro produrre i risultati attesi.
Il prezzo dell’ambizione
L’Accordo di Parigi, stipulato nel 2015, impegna collettivamente gli Stati a mantenere l’innalzamento delle temperature globali al di sotto dei +2°C rispetto al periodo preindustriale, “proseguendo gli sforzi” per non sforare gli 1.5°C, obiettivo estremamente ambizioso considerando che rispetto al 1900 il pianeta si è scaldato già di 1.26°C, ma tanto più necessario alla luce delle ultime evidenze scientifiche e in particolare del Rapporto Speciale dell’IPCC pubblicato a ottobre 2018, che mette in luce le conseguenze gravissime su ecosistemi naturali e società umane di un superamento di questa soglia. Eppure, la somma degli impegni comunicati dagli Stati (denominati NDC, nationally determined contributions) e attraverso i quali quell’obiettivo dovrebbe essere raggiunto, portano in realtà secondo l’UNEP a un riscaldamento globale di circa 3°C.
La COP 25 avrebbe dovuto rappresentare l’occasione per i propri Paesi di raggiungere un accordo su come far fronte a questo significativo gap, concordando tempistiche e modalità per rafforzare le proprie politiche. Se nessuno si aspettava che i maggiori emettitori sottoscrivessero nell’immediato nuovi tagli drastici delle proprie emissioni, si sperava tuttavia che si raggiungesse un accordo finale che impegnasse gli Stati quantomeno a rivedere i propri NDC, come del resto stabilito dallo stesso Accordo di Parigi. E invece, la decisione 1/CMA.2 si limita a “enfatizzare nuovamente con grave preoccupazione il bisogno urgente di fare fronte al significativo divario tra l’effetto aggregato degli sforzi di mitigazione delle Parti in termini di emissioni globali annuali di gas serra al 2020 e i percorsi emissivi in linea con il mantenimento delle temperature medie globali ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e il proseguimento degli sforzi per limitare l’incremento delle temperature al di sotto degli 1.5°C”.
A determinare questa conclusione, sono state soprattutto le resistenze da parte degli Stati con i più alti livelli emissivi, e che storicamente hanno maggiormente determinato la crisi climatica attuale, di assumersi le proprie responsabilità verso i Paesi più vulnerabili e meno pronti a far fronte ai cambiamenti climatici, che a loro volta si sono rifiutati di assumere impegni più gravosi di riduzione delle emissioni senza la promessa di maggiori aiuti in termini finanziari e di trasferimento delle tecnologie (vedi sotto: Oltre ai danni la beffa).
Secondo i dati del World Resource Institute, solo 79 Paesi, che cumulativamente rappresentano appena il 10.5% delle emissioni globali, hanno annunciato la propria intenzione di aumentare l’ambizione e le misure di implementazione contenute nel proprio NDC il prossimo anno. Tra questi, anche l’Unione Europea, nell’ambito della quale, proprio negli ultimi giorni della COP, la Commissione ha presentato il promesso Green Deal che dovrebbe costituire il nuovo percorso di riduzione delle emissioni e di transizione e portare l’Europa ad allinearsi con l’Accordo di Parigi. Anche questa proposta tuttavia, considerata all’avanguardia delle politiche climatiche, risulta deludente da più punti di vista e soprattutto per l’obiettivo di riduzione delle emissioni di lungo termine individuato, troppo basso, e per la mancanza di un percorso con tappe intermedie (ne abbiamo parlato qui).
Oltre ai danni la beffa
Nodo cruciale di dibattito e di scontro ha riguardato la questione finanziaria e il trasferimento di fondi e tecnologie da parte dei Paesi più industrializzati a quelli meno sviluppati e più vulnerabili. Nello specifico, le questioni da risolvere erano sia quella del Fondo Verde per il Clima, che secondo l’Accordo di Parigi a partire dal 2020 dovrebbe raccogliere 100 miliardi l’anno da destinare a progetti di mitigazione e adattamento nel Sud globale e che attualmente ha raggiunto poco più di un decimo di quella somma, sia soprattutto quello degli ulteriori fondi richiesti dai Paesi più vulnerabili per far fronte a tutti quei danni e perdite (loss & damage) conseguenti dai cambiamenti climatici e ormai inevitabili.
Nel 2013, era stato istituito il Meccanismo di Varsavia per finanziare ulteriore ricerca scientifica su questo argomento. Tuttavia, alla luce dei disastri sempre più frequenti e devastanti degli ultimi anni (secondo l’edizione del 2019 del Global Climate Risk Index, i dieci Paesi più colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici tra il 1998 e il 2017 appartengono tutti al Sud globale, e spaziano dal sudest asiatico ai Caraibi e all’America Latina), i governi dei Paesi più vulnerabili stanno avanzando richieste sempre più pressanti per linee finanziarie e trasferimento di capacità e tecnologie da parte dell’Occidente specificamente destinati a far fronte a danni e perdite inevitabili.
Tuttavia questa richiesta si scontra con posizioni estremamente rigide perché, oltre agli interessi economici, implicherebbe un riconoscimento da parte dei Paesi più industrializzati delle responsabilità di essere stati i principali fautori della crisi in cui ci troviamo e quindi di doverne pagare i costi. Se infatti il Fondo Verde per il Clima, il cui obiettivo dichiarato è quello di “aiutare le società vulnerabili ad adattarsi agli impatti inevitabili dei cambiamenti climatici”, si basa su una logica di vecchia cooperazione allo sviluppo e permette ai Paesi donatori di mantenere un controllo sui flussi di risorse finanziarie, l’attuale richiesta portata avanti dai Paesi meno sviluppati è che siano messe a disposizione delle risorse non vincolate, per la compensazione dei danni e perdite subiti.
Nei testi finali approvati a Madrid invece, manca un appello specifico ai Paesi sviluppati a rafforzare il proprio supporto, né si prevede uno stanziamento di fondi destinato a far fronte alle perdite e ai danni inevitabili. Ci si limita a constatare che il Fondo Verde per il Clima già supporta, e potrebbe supportare di più in futuro, attività definibili come “loss & damage”.
Se anche le emissioni sono merce di scambio
Infine, l’elemento di scontro più aspro e sul quale non è stata raggiunta nessun tipo di decisione è quello dell’annoso mercato del carbonio, che nella governance climatica si trascina sin dai tempi del Protocollo di Kyoto, raggiunto nel lontano ‘97, e che in una conferenza stampa tenuta venerdì 13 rappresentanti dell’organizzazione Friends of the Earth hanno definito “marcio fino al midollo”.
Nell’Accordo di Parigi, è stato inserito all’interno dell’Articolo 6, che prevede la creazione di alcuni meccanismi di cooperazione internazionale per ridurre le emissioni: in particolare un mercato del carbonio bilaterale fra paesi o blocchi di paesi (Art. 6.2) e un mercato del carbonio globale (Art. 6.4). L’assunto alla base di questi sistemi è il seguente: se ritiene troppo costoso tagliare le emissioni in patria, un Paese (o un’impresa) può intraprendere progetti di riduzione meno dispendiosi all’estero e conteggiare poi quelle emissioni evitate altrove nel proprio obiettivo nazionale.
Nell’ambito del Protocollo di Kyoto era stato concordato il cosiddetto Clean Development Mechanism (CDM) con gli stessi intenti, mentre l’Unione europea dal 2005 usa il suo personale mercato del carbonio (denominato Emissions Trading Scheme – ETS) come primo pilastro della politica climatica. Entrambi gli esperimenti hanno fallito. Non hanno portato alla riduzione delle emissioni e hanno permesso agli inquinatori di continuare a fare affari sporchi senza pagare il conto. Il meccanismo creato dal Protocollo di Kyoto ha prodotto land grabbing e violazioni dei diritti umani specialmente nel Sud globale. Foreste, bacini idrici e altre nature sono state comprate da imprese con base nei paesi industrializzati, che grazie alla “conservazione” di questi ecosistemi – dai quali sono state espulse le comunità native – hanno guadagnato crediti di carbonio per compensare il prosieguo di un’attività inquinante sul suolo patrio.
Il rischio che tutto ciò capiti ancora è forte: nelle ultime versioni della decisione che avrebbe dovuto essere stipulata a Madrid e che alla fine è saltata, non c’erano vincoli chiari sui diritti umani né sull’integrità ambientale. Inoltre, si discute ancora della possibilità di “trasferire” nel nuovo mercato (in parte o tutti, per un tempo limitato o forse per sempre) i vecchi crediti di carbonio rimasti inutilizzati nell’ambito di Kyoto. Se ne riparlerà a questo punto direttamente l’anno prossimo a Glasgow, con il rischio che proprio sul mercato del carbonio si areni il meccanismo di implementazione dell’Accordo di Parigi.
La mobilitazione
“Negli ultimi 25 anni ho partecipato a tutte le COP, ma non ho mai visto un divario così grande tra ciò che accadeva dentro e fuori”: queste le parole di Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International, a chiusura delle due settimane.
La COP 25 è stata celebrata alla fine di un anno caratterizzato da forti mobilitazioni di giovani e meno giovani, che hanno fatto salire l’attenzione sulla crisi climatica e sull’inazione degli Stati a livelli mai raggiunti prima. Nella manifestazione di venerdì 6, mezzo milione di persone è sceso in piazza a Madrid, chiedendo giustizia climatica e difesa dei propri diritti. Il giorno successivo, è iniziata la Cumbre Social, il controvertice della società civile che ha visto oltre 300 appuntamenti tra dibattiti, conferenze, presentazioni e assemblee promossi da attivisti venuti da tutto il mondo per far sentire la propria voce e proporre soluzioni alternative (lo abbiamo raccontato in maniera approfondita qui), e che si è chiuso con un comunicato dal significativo titolo “Il mondo si è svegliato davanti all’emergenza climatica”.
Parallelamente, si è svolta sempre a Madrid anche la Minga Indigena, organizzata da rappresentanti delle comunità indigene per raccontare gli impatti dei cambiamenti climatici sui propri territori. Inoltre, anche se le negoziazioni ufficiali si sono spostate nel continente europeo, la società civile sudamericana non ha rinunciato ai propri spazi di espressione, e a Santiago si sono comunque celebrati i due appuntamenti previsti della Cumbre de los Pueblos e della Cumbre Social por la Acción Climática: un moltiplicarsi quindi di voci e di contributi che testimoniano un’unione di forze e una volontà di rispondere all’inazione dei governi mai vista prima su questa scala.
Questo è stato anche il messaggio lanciato da molti degli osservatori, che sono potuti intervenire con un solo intervento alla conclusione dei negoziati ufficiali. I rappresentanti che hanno parlato in nome delle organizzazioni ambientaliste, femministe, giovanili, delle comunità indigene e dei sindacati hanno denunciato in maniera dura e senza appello i meccanismi di mercato e di profitto che i governi continuano ad anteporre alla tutela delle comunità e dei popoli dalle conseguenze più gravi del riscaldamento globale e che sono alla radice della crisi non solo climatica, ma anche ambientale e sociale che sta scoppiando oggi in tutto il mondo, concludendo tutti i propri discorsi con le parole: “People power, climate justice”.
Road to Glasgow
Le conclusioni di questa COP lasciano quindi una pesante eredità per la Conferenza del prossimo anno, in programma a Glasgow tra il 9 e il 19 novembre 2020, e che sarà il banco di prova finale per i governi di tutto il mondo, che dovranno operare la propria scelta definitiva tra affrontare la crisi climatica lasciandosi indietro l’era del fossile, o tutelare i profitti e gli interessi di pochi. Sarà sempre più cruciale la capacità di mobilitazione della società civile, per mettere sempre più pressione sui propri rappresentanti politici, per esporre chi si tira indietro dall’assunzione delle proprie responsabilità, continuando a perseguire un modello inquinante e distruttivo, e per portare avanti le proprie proposte e soluzioni.
In questo senso, si sta moltiplicando il numero di azioni legali portate avanti da cittadini e organizzazioni contro Stati e imprese inquinanti, per chiedere giustizia climatica e la tutela dei diritti umani fondamentali. Anche in Italia, A Sud è tra i promotori di Giudizio Universale, la campagna che anticipa la prima causa contro lo Stato italiano sui cambiamenti climatici. Alla COP 25, abbiamo presentato la nostra iniziativa in una conferenza stampa insieme a rappresentanti di altre cause in tutto il mondo.
Per approfondire:
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