
«Lu peju è arrede», «il peggio è indietro», sentivo spesso ripetere nel paese della mia infanzia e della mia giovinezza. E qualche volta questo modo di dire torna nei discorsi delle persone molto anziane. Da bambino avevo pensato alle consuete “lamentele” degli anziani sul loro passato triste, misero, spesso di fame e soltanto, col tempo, avrei capito che non si parlava di “un tempo andato” da dimenticare (altre volte da rimpiangere) ma del tempo che doveva ancora venire. L’«arrede», l’indietro, non indicava (e non indica) un tempo trascorso, ma un tempo “futuro”. Il tempo passato costituiva, in realtà, buon tempo andato, tempo di rimpianto, di valore, di quando si stava meglio. Era spesso il tempo dell’infanzia, altre volte un tempo lontano, mitico. In una concezione “ciclica”, non lineare, del tempo, l’indietro indicava il futuro, un futuro che veniva temuto e “previsto” come peggiore del tempo presente.
Nessun altra espressione potrebbe indicare in maniera più concettualmente ricca la doppia direzione della nostalgia; un sentimento rivolto ora al passato ora al futuro, quasi sempre con una sorta di rifiuto e di disagio rispetto al tempo presente.
La concezione “tradizionale” del tempo, con la quale ho anche convissuto, e che è stata rimossa e cancellata come “arcaica” dal pensiero moderno, in quanto ritenuta nostalgica e passatista, oggi sembra riprendersi una sua rivincita. L’idea “tradizionale” del tempo e di un futuro che può diventare “peggiore” del presente risulta potente e “veritiera” nel momento in cui la “crisi” in corso mostra tutta la falsità e il carattere ideologico del “progresso”. Quanto sta accadendo e si annuncia ci ricorda che la storia dell’umanità non è stata mai progressiva e che a periodi felici sono succeduti periodi di crisi e di catastrofi. Etnologi e archeologi hanno mostrato la fine di civiltà molto “avanzate” e il ritorno a uno stato miserevole e “primitivo” di luoghi che avevano ospitato grandi civiltà.
Da anni l’Occidente percepiva e raccontava il suo “declino”, la “crisi dei valori”, la fine della “morale” senza capire che questa crisi annunciava una crisi economica e della qualità della vita e anche la fine dell’idea di un benessere progressivo e illimitato. Bastava del resto guardare nel “terzo” e nel “quarto” mondo, dove dominano fame, sete, mortalità, per renderci conto del carattere ideologico ed etnocentrico dell’idea di progresso. Il senso del “crollo” ha accompagnato tutta la storia dell’Occidente e non a caso le “rovine” (e la melanconia ad esse legate) sono parte costitutivi del sentimento e del pensiero occidentale. Il “crollo” della borsa, il “crollo” del muro, il “crollo” delle Due Torri non annunciavano (come in una profezia) l’arrivo di un “crollo” più vasto, più rumoroso?
La mia cultura di origine, quella a cui mi sento legato (nonostante le tante fughe e i tanti “tradimenti” compiuti) non si nascondeva, del resto, la possibilità della “fine del mondo”. Sono andato in questi giorni dalla mia anziana, ma lucida, mamma, seduta sulla sua sedia da dove sembra scorgere insieme passato presente e futuro, per farmi ricordare un altro “detto” che avevo ascoltato da giovane. Una “narrazione” della “fine del mondo”. Dice mia madre: «Mia nonna e tua nonna dicevano “’mbiatu cu’ no’ nesciu (beato chi non è nato) perché poi “alli tanti e poi alli tanti” viene la fine del mondo». «Cosa vuol dire mamma?», le domando retoricamente perché ho già capito cosa vuole dire. «E che ne so figlio, dicevano che dopo tanti e tanti anni, non si sa quanto, viene la fine del mondo e beato chi non è nato». Mi guarda con grande pietas, con l’aria di chi è felice di essere nata ed è preoccupata per quelli che resteranno dopo di lei. Le leggende di questo periodo parlavano di un tempo mitico di riferimento e della necessità di rigenerazione. L’idea di un mondo che “muore” e poi rinasce, di un tempo che si rigenera, oggi esce dalla mitologie popolari e si trasferisce nel pensiero di chi non crede più in un progresso senza fine, di chi teme che la crisi ci metterà di fronte a scenari apocalittici e di chi pensa, dopo un lungo periodo di grandi difficoltà, a una rigenerazione del mondo e dell’umanità.
Se guardo al tempo andato, non è soltanto per una ragione personale, o per una sterile nostalgia, ma perché credo che in quel passato, al quale è impossibile tornare, si possano trovare lezioni ed elementi per “affrontare” la crisi, per trasformarla in occasione di riflessione, di ripensamento e, forse, anche di rigenerazione.

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Questo testo (titolo originale «Lu peju è arrede») di Vito Teti fa parte del libro Quel che resta (Donzelli, 2018). Qui pubblicato con il consenso dell’autore.
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