Non nascondo il disagio che mi creano i Nobel per la pace e la letteratura per gli africani, soprattutto quelli per la pace, che pur raccontando la resilienza del continente, documentano anche tutto ciò che è sbagliato in questo mondo. Vinciamo i premi per la pace perché siamo politicamente instabili e nessuno cerca ragioni nella storia. Vinciamo nella letteratura perché, beh, la scrittura non richiede molte risorse e, inoltre, scriviamo in lingue che gli altri capiscono. Sono parole di Elisio Macamo, sociologo mozambicano, laureato a Londra e docente di studi africani a Basilea. In questo articolo – pieno di domande che contrastano le banalità ampiamente diffuse quando “vince un africano” e interrogano in profondità il pensiero delle persone che vivono a nord del Mediterraneo così come quelle che vivono a sud – commenta senza reticenze il più prestigioso dei riconoscimenti letterari assegnato quest’anno allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah
Sono contento quando un africano brilla. Abdulrazak Gurnah ha appena brillato vincendo il premio Nobel per la letteratura. La mia gioia ha poco a che fare con la solidarietà “culturale”. Ha molto a che fare con l’impressione che mi fa veder vincere qualcuno che si è formato come persona in condizioni che difficilmente trionferanno.
Questo è ciò che mi dà gioia per il successo degli africani. Le condizioni in cui si è costituito il nostro continente, e quindi le condizioni in cui ciascuno di noi si forma come persona, sono generalmente ostili. Il successo di un africano è, per me, sempre una celebrazione della condizione umana, di ciò che è possibile essere, nonostante tutto.
Non nascondo il disagio che mi creano i Nobel per la pace e la letteratura per gli africani, soprattutto quelli per la pace, che pur documentando la resilienza africana, documentano anche tutto ciò che è sbagliato in questo mondo.
Non è che non ci siano africani capaci di essere bravi fisici, economisti, medici, biologi, ecc. Il fatto che siano assenti da queste liste la dice lunga sulla crudeltà della storia. In questo senso i premi Letteratura e Pace diventano per me una manifestazione della nostra marginalità.
Vinciamo i premi per la pace perché siamo politicamente instabili e nessuno cerca ragioni nella storia. Vinciamo nella letteratura perché, beh, la scrittura non richiede molte risorse e, inoltre, scriviamo in lingue che gli altri capiscono.
Provo a immaginare come sarebbe la letteratura di Wole Soyinka e, tra l’altro, di Abdulrazak Gurnah, se invece di scrivere in inglese, scrivessero in yoruba o ki-swahili, ma non solo. Se fossero letti in quelle lingue dal comitato del Premio Nobel. Cioè, il premio non è necessariamente una celebrazione della nostra creatività e resilienza. È anche la celebrazione della nostra iscrizione in un registro di terzi. Siamo intelligibili, quando siamo intelligibili per loro.
Questo mi fa riflettere. Ad esempio, a causa delle critiche mosse al fatto che le donne e altre regioni del mondo non ricevano un’attenzione adeguata da questo comitato, il comitato afferma di aver lavorato per correggere questo problema. Ma aggiunge: l’importante è che i criteri di qualità della letteratura siano rispettati.
Sembra avere senso. Ma non è così. Un premio così importante non può essere basato sul rispetto di un criterio prestabilito, poiché questo è il modo più semplice per evitare che gli altri vengano considerati.
Se il Comitato vuole davvero cambiare qualcosa, deve essere aperto a manifestazioni letterarie che facciano esplodere il canone, cioè che portino nuovi elementi all’idea stessa di letteratura.
A parte questo, continua tutto più o meno lo stesso. Non l’hanno riconosciuto a Bob Dylan, una delle nomine più ridicole e arroganti a memoria d’uomo? Quanti cantanti nel mondo hanno ascoltato? Qualcuno ha mai ascoltato la musica del nostro Xidiminguana per vedere cosa fa con la lingua, come racconta storie e, attraverso queste, come le sue canzoni espandono la nostra immaginazione? A proposito, hanno paragonato Dylan a Chico Buarque o Zeca Afonso? O semplicemente hanno presunto che lui, in quanto americano, parlasse dall’interno del canone di rifermento ‘corretto’?
Ho letto, stupito, la motivazione dell’assegnazione del premio tanzaniano: “Per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nell’abisso tra culture e continenti”. Ci sono tre cose che mi preoccupano qui.
Il primo è la trasformazione dello scrittore in etnografo della sua cultura. Non è che questo non si faccia ma limita la rilevanza del suo lavoro esclusivamente alla sua gente. Cioè, Gurnah non recupera l’esperienza umana, ma l’esperienza locale. Non sono meschino.
L’atto di documentare l’esperienza coloniale e il rifugio è degno di celebrazione solo se ci dice qualcosa di più grande sulla nostra umanità comune. A proposito, cosa dicono questi racconti sui valori della cultura europea che c’erano dietro l’umiliazione del popolo tanzaniano ai membri del comitato del Nobel?
La seconda cosa è questa “innocenza bianca” – sto usando un concetto dell’antropologa olandese, Gloria Wekker. Le persone al Comitato non sanno cosa fosse il colonialismo? Non hanno letto cosa hanno scritto gli storici? Avevo bisogno di sentirlo da uno scrittore, o c’è qualcosa che lo scrittore sta portando che trascende il quadro della storiografia e ci invita ad altri tipi di riflessione?
Perché i resoconti degli orrori del colonialismo sono importanti? Perché sono documenti di un tempo, o perché ci invitano a rivedere i nostri stessi valori? Gli europei lo stanno facendo? È in questi momenti che penso alla profondità di un’affermazione fatta da Toni Morrisson quando si è chiesta come dovrebbe sentirsi un europeo sapendo tutto quello che è stato fatto in nome della propria cultura? Non è possibile assegnare un premio del genere a un africano senza rispondere a questa domanda.
La terza cosa è legata a questa seconda. È il rifiuto di imparare. Ieri ho partecipato a una tavola rotonda organizzata nell’ambito del Congresso di storia tedesca che si svolge questa settimana a Monaco di Baviera. Il tema era la restituzione. Ho condiviso un tavolo con tre storici (e museologi) tedeschi.
Il tema non è proprio il mio, anche se sono sempre invitato a parlare. Quello che ho detto in sostanza è che la restituzione in sé non ha valore se non è accompagnata, in Europa, da un ampio dibattito su come sia stato possibile, per una cultura che proclama il tipo di valori che definiscono ciò che è europeo, aver fatto ciò [colonialismo/epistemicidio].
Non si tratta di esigere penitenza. Si tratta di invitare le persone a smettere di fingere di essere nate con valori umanistici universali nella pancia. Ho detto che se questa discussione sulla restituzione non porta a rivedere i curricula nell’istruzione primaria e secondaria, allora non si fa nulla. Allo stesso modo, ogni volta che un’istituzione europea con una pretesa universale decide di accogliere un estraneo, non lo fa solo per essere “giusta”.
Ma si interroga eticamente. Un premio Nobel assegnato a un africano è sempre un’occasione per riflettere perché siano così pochi. In questi termini cosa dice questo dato sul sistema di valori sulla base della nostra auto-percezione di portatori di valori, ecc. Il minimo che possa fare è, un tale premio, sfidare le persone che lo assegnano ad una riflessione profonda.
Alla tavola rotonda [sulla restituzione], ho anche affermato che la restituzione pone una grande responsabilità sulle spalle degli africani. Gli oggetti tornano trasformati. Non sono quello che erano quando sono stati rubati. Tornano come una sorta di rappresentazione di un processo che gli stessi africani hanno attraversato, indipendentemente dal fatto che se ne siano resi conto o meno. Hanno perso la loro innocenza.
Questi oggetti non rappresentano più il significato originario, ma il rapporto con gli europei e, di conseguenza, gli viene imposto un bisogno di reinvenzione. Questa reinvenzione non può consistere nel recuperare un significato originario, ma nell’interpretare quell’esperienza storica per creare un nuovo senso dell’esistenza.
Questa è la sfida che gli africani continuano a ignorare per ragioni comprensibili, certo, ma che limitano fortemente la loro capacità di farsi carico della propria vita. Parte dei nativismi esacerbati – a cui purtroppo non sfuggono post-colonialismo e decolonialismo – ci impedisce, a mio avviso, di affrontare in modo adulto e responsabile l’orribile storia che ci ha fatto come persone.
Questo spiega la mia ambivalenza riguardo a questi premi. Da un lato, sono un riconoscimento delle nostre capacità – ma non necessariamente della nostra umanità – e dall’altro rivelano fino a che punto viviamo in un mondo che non è necessariamente il nostro mondo.
Non so se sarebbe desiderabile avere questo nostro mondo, ma neppure mi sembra assolutamente necessario. Ciò che mi sembra necessario è l’appropriazione di questo mondo.
Ciò avviene, da un lato, continuando a pretendere che gli europei, ogni volta che sono disposti a dar prova di riconoscimento, non ci limitino ai margini di conquiste che ci confermano buoni rappresentanti di noi stessi, e non della condizione umana [come un tutto], e, d’altra parte, lavorando tutto ciò che c’è di buono nei valori traditi dagli europei per produrre nuovi concetti di stare al mondo basati sulla resilienza umana risultato della nostra sofferenza – e resistenza.
Solo a queste condizioni questi Premi possono avere un senso per me. Per il momento, pur essendo motivo di orgoglio, sono solo gesti simbolici che gli europei usano per non interrogarsi in modo profondo, come, infatti, avrebbero dovuto fare durante la decolonizzazione. Anche in quel momento persero l’opportunità di fare questo esercizio di introspezione e usarono – come, tra l’altro, continuano ancora – gli aiuti allo sviluppo come un modo per espiare quei peccati che non vogliono confessare.
Oggi c’è il serio rischio di usare queste ricompense simboliche – ma anche “restituzioni” – per proteggersi dall’introspezione.
E noi, come sempre, festeggeremo la loro generosità…
*Elisio Macamo. Mozambico. Professore di studi africani all’Università di Basilea, Svizzera. Si è laureato in sociologia presso la University of North London in Inghilterra. Ha conseguito un dottorato di ricerca in sociologia e antropologia sociale e un’aggregazione in sociologia generale presso l’Università di Bayreuth in Germania. È membro del comitato scientifico dell’African Council for the Development of Social Sciences con sede a Dakar, in Senegal, e condirettore dell’African Sociological Review.
POST ORIGINALE: https://www.buala.org/pt/a-ler/convidar-as-pessoas-a-deixarem-de-fingir-que-nasceram-com-os-valores-universais-humanistas-na-?fbclid=IwAR05ZUjHBaTozu2DaIPzFCcwsUCcBuT8Prt5JS-fNGWxca5U-A6oL2ar7Bw
Traduzione per comune info di Laura Burocco
LELLA DI MARCO dice
analisi lucidissima , condivisibile ….tanto da creare sdegno e rabbia in persone di pelle bianca occidentali che hanno capito i danni del colonialismo storico come del neocolonialismo… e ne vedono fondamentalmente l’ipocrisia come fosse una “mancia ” tale da cancellare le colpe per le azioni nefande pre-meditate, passate e presenti … possibilmente anche future se l’Africa non libererà se stessa