Le diagnosi riportate sulle certificazioni presentate a scuola hanno grandi limiti. È su quel terreno che la scuola è chiamata ad essere ogni giorno un ambiente educativo e coma tale frutto dell’incontro e del confronto tra le diverse individualità che ne fanno parte. Dopo “La pedagogia dell’evitamento” – in cui Antonio Vigilante ragiona sui rischi della medicalizzazione nelle scuole, con la rinuncia a lavorare su competenze che sono fondamentali -, Francesca Lepori spiega come e perché la scuola può e deve essere il luogo della pratica pedagogica per eccellenza

L’articolo di Antonio Vigilante, La pedagogia dell’evitamento, merita molte attenzioni. Da sempre penso che sia necessaria all’interno della scuola italiana una figura pedagogica, preparata, capace di occuparsi di inclusione, di supporto alla didattica, di sostegno alla gestione delle dinamiche relazionali, del disagio sociale e dell’organizzazione scolastica educativamente efficace.
La scuola deve essere il luogo della pratica pedagogica per eccellenza e penso che, malgrado tante difficoltà, questo succeda nelle nostre scuole, in molti modi diversi. Il termine pedagogia dell’evitamento mi sembra un ossimoro: la pedagogia per sua natura accompagna nella crescita e verso il cambiamento, ma non potrà mai essere strumento di esclusione ed evitamento.
L’evoluzione della legislazione a tutela delle diversità e pluralità delle identità e a favore dell’inclusione scolastica ha fatto grandi passi avanti negli anni e non deve tornare indietro. La scuola di oggi pone gli insegnanti davanti a grandi e nuove sfide e raramente ci si può tirare indietro, se minimamente amiamo i bambini e ragazzi che abbiamo a scuola durante tutta la nostra vita professionale di insegnanti.
In realtà la scuola non può e non sta rinunciando a lavorare sulle competenze fondamentali e necessarie per i nostri studenti. Forse gli insegnanti, un po’ come i medici, hanno iniziato a sottoscrivere qualche assicurazione in più per prevenire eventuali denunce delle famiglie, ma non penso possano mai smettere di fare il proprio mestiere e nella maggior parte dei casi non vengono meno alle proprie responsabilità educative e didattiche.
Nella scuola la confort zone non esiste, se per confort zone si intende un luogo protetto sotto una campana di vetro. L’ambiente educativo è sempre in movimento ed è il frutto dell’incontro e del confronto tra le individualità che ne fanno parte, connesse come sinapsi. Se insegnando dovessimo percepire la necessità di un momento e un luogo di riflessione pedagogica e didattica, dobbiamo avere la forza di condividerlo con i nostri colleghi e colleghe, nei luoghi istituzionali e con umiltà avere la voglia di aprirsi e confrontarsi, uscendo da quella percezione di solitudine che spesso gli insegnanti vivono. Il consiglio di classe o il dipartimento sono i luoghi appropriati, sono i luoghi nei quali si può portare l’attenzione alla pedagogia, togliendola magari alla burocrazia.
I docenti non potranno mai essere meri esecutori di richieste contenute nelle certificazioni che attestano bisogni educativi speciali. Le diagnosi riportate sulle certificazioni presentate a scuola hanno grandi limiti. Sono parziali. Il compito dell’insegnante curricolare o di sostegno che sia, è di lavorare con le persone oltre le diagnosi. Non c’è dubbio: sarebbe bello avere in ogni scuola una figura pedagogica, per quanto penso sia difficile al momento realizzarlo.
Tuttavia sta succedendo qualcosa di importante. Nella scuola italiana stanno entrando tanti nuovi insegnanti specializzati. Attraverso il percorso di abilitazione Tfa al sostegno (tirocinio formativo attivo), infatti, si stanno formando tantissimi insegnanti. È un percorso serio, di qualità, impegnativo e molto formativo. Ne gioveranno gli studenti e studentesse, nonché la scuola italiana tutta: è una buona notizia che va colta, alimentata ulteriormente e raccontata.
Francesca Lepori pedagogista, maestra, insegnante di sostegno nella scuola pubblica, membro della Rete di Cooperazione Educativa, fondatrice di Bosco Caffarella
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