Troppo facile pensare, oggi, che il veleno che si nasconde generalmente nell’utilizzo del lemma “etnia” e dei suoi derivati, dagli stupri consumati nella ex Jugoslavia o in Ruanda fino alle cene “alternative”, sia attribuibile solo alle teorie cospirazioniste rispolverate dalla sagacia del ministro dell’agricoltura Lollobrigida. Il cognato più famoso della nazione, che non può aver certo guidato il Fronte della Gioventù della provincia romana fino al 1995 in virtù della nobile parentela, non è affatto il primo sostenitore in Europa della Teoria della Grande Sostituzione, agitata da tempo e con furore contro femministe e migranti soprattutto nell’Est europeo. Quel che ci segnala qui l’analisi esemplare di Annamaria Rivera, riprendendo studi e testi rigorosi ancora attualissimi che nell’antirazzismo italiano e francese hanno fatto scuola per decenni, va però ben al di là della denuncia delle grossolane elucubrazioni di qualche ministro del governo Meloni, così come è ben lontano del futile richiamo a un linguaggio politicamente “corretto”. Riguarda l’attribuzione agli «altri», umani e non, di una natura diversa, da assoggettare più o meno benevolmente, assai radicata perfino in ambienti ritenuti insospettabili di simpatie razzistoidi. Nei processi di alterizzazione e reificazione, infatti, quasi sempre «etnici» sono gli altri/le altre, cioè coloro che, discostandosi dalla norma e dalla cultura dominante vengono percepiti/e come differenti, particolari, marginali, periferici, arcaici, attardati o anche in via d’estinzione. Quando riusciremo a comprendere finalmente che, al di là dell’emergenza che certo rappresentano per la società e la cultura politica ministri come Salvini o Minniti, per i cambiamenti di cui abbiamo davvero bisogno dobbiamo farla finita con le semplificazioni e serve una profondità dei concetti davvero “altra”?
Un lemma che andrebbe decisamente abbandonato, al pari di “razza”, è quello di etnia, che, invece, pur avendo, in realtà, una valenza discriminatoria, continua a ottenere una straordinaria fortuna, perfino in ambienti intellettuali, oltre che di destra.
Eppure, a decostruire questo pseudo-concetto e a mostrarne la valenza e il significato discriminatori sono comparsi, nel corso del tempo, alcuni volumi scientifici. Il più noto, L’imbroglio etnico (Dedalo, Bari 2012), strutturato per parole-chiave, del quale sono ispiratrice e co-autrice insieme con lo storico René Gallissot e l’antropologo Mondher Kilani, ha conosciuto ben tre edizioni: la prima, in francese e in dieci parole-chiave, fu pubblicata nel 2000; la seconda, comparsa nel 2001 in italiano e in una versione più ampia (in quattordici parole-chiave), ha conosciuto ben tre ristampe, l’ultima delle quali nel 2012.
Ciò malgrado, un tale lavorio intellettuale sembra non aver suscitato alcun dubbio circa i significati e l’opportunità dell’utilizzo di “etnia”. È per questa ragione che propongo qui la sintesi di una delle quattordici parti che compongono il volume, tutte introdotte da parole-chiave: è quella, per l’appunto, su Etnia-etnicità.
Nel parlare comune, nel linguaggio mediatico e talvolta perfino in quello scientifico, “etnia” ed “etnico” sono adoperati per designare sinteticamente, con un’unica parola, gruppi di popolazione immigrata e minoranze che si distinguerebbero dalle maggioranze per diversità di costumi e/o di lingua, nonché per la loro provenienza, per le loro culture, modi e stili di vita. In realtà, chi abusa del vocabolario etnico intende alludere a qualche forma di differenza fondamentale e irriducibile: che sia quella data dai caratteri somatici, oppure da una «essenza» culturale premoderna o addirittura da qualche fondamento ancestrale. V’è anche chi ritiene che «etnia» sia il termine più appropriato per nominare le differenze senza ricorrere al vocabolario detto razziale; v’è chi lo reputa o lo «sente» più specifico e pertinente di quello di cultura, meno svalutativo e dunque politicamente più corretto di «tribù».
Vi sono poi perfino alcuni studiosi pronti a sostenere che il lemma “etnia” avrebbe addirittura inaugurato una valutazione delle diverse parti costitutive dell’umanità più razionale e giusta, più neutra e a-valutativa di altri. In realtà, il vocabolo cela sovente la convinzione o il pregiudizio che le differenze fra culture e modi di vita si fondino su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria; spesso, in realtà, viene adoperato come sinonimo eufemistico di “razza”.
In ogni caso, l’uso del termine e della nozione riflette la divisione netta istituita fra la società cui appartiene l’osservatore (ritenuta normale, generale e universale) e altri gruppi e culture. Quasi sempre «etnici» sono gli altri/le altre, che, discostandosi dalla norma della società dominante e della cultura maggioritaria, sono percepiti/e come differenti, particolari, marginali, periferici, arcaici, attardati, in via d’estinzione o “soltanto” non conformi alla norma nazionale.
Un impiego del tutto particolare del termine, per auto-attribuzione («etnici siamo noi») da parte di settori della società dominante, è quello del Front national in Francia e, in Italia, della Lega Nord e di altre formazioni di destra, le quali parlano rispettivamente di «etnia francese» e di «etnia padana».
L’etnicizzazione è un processo non solo di riconoscimento o d’invenzione di differenze culturali, ma anche di classificazione surrettizia, potremmo dire, di gerarchie sociali, economiche, politiche. Etnicizzando dei gruppi sociali, infatti, si tende a mascherare la loro posizione di subordinazione o emarginazione rispetto alla società globale.
La cronaca della guerra fratricida nella ex Jugoslavia ha rappresentato il trionfo del modello e delle designazioni etniche, che in tal modo si sono affermati come un indiscutibile dato di fatto e si sono definitivamente consolidati nel linguaggio corrente.
Il che ha concorso non poco alla costruzione delle ideologie che hanno sorretto e mascherato le ragioni della sanguinosa guerra civile col suo orrendo corredo di reciproche «pulizie etniche» (nonché dell’ideologia che è servita a dissimulare gli scopi della guerra «umanitaria» della Nato nei Balcani); e ha condotto all’artificiosa separazione di popolazioni che avevano per lungo tempo convissuto e condiviso territorio, lingua, costumi, abitudini, progetto e istituzioni politiche.
Proprio perché ciò che è rappresentato come l’Altro/a assoluto/a spesso si rivela assai simile al Noi, è percepito come una minaccia: è questo uno dei meccanismi che conducono alle «pulizie etniche».
In definitiva, la nefasta etnicizzazione di un tale conflitto, il ricorso a una strategia che infine condurrà alla secessione, incoraggiata e avallata dalle potenze europee, avevano come principale posta in gioco la redistribuzione del potere.
Anche il conflitto in Ruanda, culminato nei mutui genocidi fra hutu e tutsi, è stato sottoposto a una lettura in chiave rigidamente etnicista, identitaria, tribalista, che ha lasciato completamente in ombra altre logiche, ben più determinanti, trascurando il carattere di conflitto economico, sociale e politico, anzitutto. In realtà, nonostante si sia espresso in forme di sanguinosa barbarie, quel conflitto è stato per molti versi di una «terrificante modernità», per dirla con lo storico Alessandro Triulzi. La politica di annientamento è stata, infatti, concepita, pianificata, portata a termine non già dai capi tribali dell’interno, ma dalle élite intellettuali urbane.
Pochi ricordano che a etnicizzare la classe aristocratica dei tutsi e quella degli agricoltori hutu furono i colonizzatori, tedeschi prima e belgi poi: gli individui maschi furono classificati e trattati come tutsi o hutu a seconda che possedessero più o meno di dieci capi di bestiame. L’interpretazione in chiave etnicista e il linguaggio che ne discende si sono generalizzati e affermati come un’ovvietà, che invece è opportuno indagare e sottoporre a critica.
A introdurre il termine e la nozione di etnia nella lingua francese fu Georges Vacher de Lapouge, ideologo razzista e sostenitore di programmi eugenetici volti a impedire la «mescolanza razziale».
Dunque, sin dall’inizio l’”etnia” è connotata da un significato difettivo: è intesa come un raggruppamento di popolazione cui manca qualcosa di decisivo in rapporto alla società cui appartiene l’osservatore, cioè colui che ha il potere di nominare e definire gli altri e le altre. Insomma, questo lemma viene spesso inteso come somma di tratti negativi o comunque derivanti da inciviltà o arretratezza.
Il colonialismo, in particolare, ha prodotto classificazioni “etniche” basate sull’invenzione di etnonimi spesso del tutto arbitrari: sovente questi erano il risultato della trasposizione semantica, compiuta da etnologi e funzionari coloniali– di toponimi, di nomi che identificavano unità politiche, di appellativi che indicavano questo o quel gruppo di mestiere oppure di stereotipi con i quali un certo gruppo o popolazione era designato, spesso spregiativamente, dai gruppi vicini o dalle classi dominanti.
Quando, più di vent’anni addietro, scrivemmo L’imbroglio etnico fummo sì assai previdenti, ma non fino al punto da immaginare che il futuro ci avrebbe riservato un governo di estrema destra, tale da tirare in ballo la pseudo-teoria del rischio della “sostituzione etnica”, dovuta alle persone immigrate e rifugiate.
Infatti, il 18 aprile scorso, Francesco Lollobrigida, cognato della Meloni, nonché Ministro dell’Agricoltura, ha tirato in ballo “il rischio della sostituzione etnica”, teoria del complotto tipicamente di estrema destra. Del resto la stessa Meloni, a partire da alcuni anni fa, aveva più volte sostenuto tale teoria complottista, sostenendo che la sinistra, a livello mondiale, avrebbe pianificato “un’invasione d’immigrati”, quindi “una sostituzione di popoli”.
Com’è ovvio, la teoria (si fa per dire) della “sostituzione etnica” è giustificata, fra l’altro, da congetture riguardanti i dati relativi alla demografia, in particolare agli andamenti delle nascite.
Tutto ciò ha una lunga storia che risale al dopo la Seconda guerra mondiale, allorché in ambienti neonazisti si invitava a combattere insieme contro la presunta invasione dell’Europa da parte di “mongoli” e “negri”.
La retorica della “sostituzione etnica” è estremamente pericolosa, nonché, in tal caso, espressione di un governo fascistoide, sicché sinistra e democratici avrebbero il dovere di aggregarsi e opporsi strenuamente al governo più a destra della storia della Repubblica.
Silvana Rivera dice
Ancora una volta Annamaria è riuscita a fare un’analisi puntuale, partendo dalla volgare e pericolosa dichiarazione del “cognato” ministro. Custodisco nella mia libreria “L’imbroglio etnico”, di qualche anno fa, che ritorna attuale e che ci deve fare riflettere. È doveroso prendere posizione su un problema, che ritengo fondamentale, una sorta di spartiacque tra una concezione progressiva ed una regressiva, sulla essenza stessa della umanità. L’espressione usata dal ministro fa riferimento ad una teoria (sottolineata da Annamaria), diffusasi con forza tra i partiti di estrema destra, secondo cui ci sarebbe un complotto per soppiantare i cittadini europei (in primis gli italiani), con gli immigrati stranieri, facendo diventare la nostra società una sorta di “meticciato”. Noi abbiamo il dovere di respingere queste teorie, direi pregiudizi fondati sulla negazione delle “culture altre”. La ricchezza della umanità è custodita nella accoglienza, nello scambio culturale, che annulla tutte le forme di discriminazione.
Lia Giancristofaro dice
Il keniota Koigi Wa Wamwere in “Negative Ethnicity” scrive parole emblematiche, il ritratto perfetto di questo retropensiero:
“Ti prego, non uccidermi – urlo con tutto il fiato che ho – siamo africani, siamo fratelli. Ma senza guardarmi, spinge la lancia verso di me e mi taglia la gola. Muori, muori schifoso pidocchio – dice – io non sono tuo fratello. Io non sono della tua tribù”.
Questo succede in Africa, in Medioriente, in Europa, ovunque: è l’etnicità negativa, una vera e propria arma di distruzione di massa. Ci fa scioccamente pensare di essere superiori per la nostra religione, per la nostra cultura, per il nostro nostro aspetto, per la nostra appartenenza, anche regionale, provinciale, comunale, di villaggio. L’etnicità negativa parla facile, per stereotipi, ed è uno strumento utilissimo, in mano alla propaganda politica. Grazie Annamaria per le Tue riflessioni sempre calzanti.
Mercedes Grimaldi dice
Completamente d’accordo con questa analisi. Come fare perché l’opinione pubblica ne sia al corrente e ne capisca la pericolosità? La politica è muta, ovvero parla solo quella di destra, l’altra parte è muta e non solo riguardo questo argomento. A quando una rivolta rigeneratrice?
Leonardo De Franceschi dice
Grazie Annamaria, ci ricordi molto opportunamente che dietro l’odiosa locuzione odiosa rispolverata da Lollobrigida qualche giorno fa e usata con sicumera per mesi da Meloni, Salvini & co. (anzi & ca.) per anni, fin tanto che erano all’opposizione, c’è un termine come etnia la cui storia culturale profonda dovrebbe farci riflettere sulle sue implicazioni. Dagli anni Ottanta ormai etnia is the new razza e viene usato non come costruzione sociale bensì come dato duro, fatto di tratti identitari presuntamente aggrumati al noi indistinto di un gruppo minoritario da razzializzare, stigmatizzandolo, tratti, peraltro, che si dà ad intendere si tramandino di generazione in generazione. Leggerti è sempre un’esercizio salutare di autocoscienza. Ciò detto, vedo troppo spesso sulle nostre bacheche social riflessioni in cui si lega la richiesta di diritti di cittadinanza al dato demografico di un’Italia in declino; credo sia un errore, concettuale e politico. Abbiamo bisogno di politiche sociali di base (casa, sanità, salario minimo, reddito di cittadinanza, asili nido, diritto allo studio) per tuttə, cittadinə e residenti: la ripresa delle nascite verrà di conseguenza.
maomao comune dice
Caro Leonardo, se non li hai letti, forse troverai interessanti questi due articoli sulla questione demografica usciti su Comune e Benvenuti Ovunque, la testatina interna in cui mettiamo gran parte dei testi sulle persone migranti
https://comune-info.net/atterisce-linverno-demografico-no-letno-nazionalismo/
https://comune-info.net/il-grembo-materno-della-nazione/
marc dice
Grazie Annamaria e grazie comune.info. un contributo importante per un chiarimento in merito alla questione etnoidentitaria, che riattualizza i temi del libro fondamentale “L’imbroglio etnico” (lo presentammo a Trieste, alla Bottega del mondo, e scrissi una recensione pubblicata sulla rivista Giano). Intervenire come fa Annamaria, sulle polemiche di questi giorni è necessario!
Bernardo dice
Non intendo sicuramente difendere un ministro che fa parte di un partito guerrafondaio e succube di Nato ed UE, ma trovatemi un altro un altro termine “politicamente corretto” che vi aggrada.
Mi sembra impossibile che non vediate la realtà di una emigrazione di massa che spopola l’Africa e crea le condizioni per un maggiore e più facile sfruttamento sia degli immigrati che degli italiani (o dei cittadini di altri paesi non fa molta differenza), in più si toglie dai piedi i possibili oppositori nei paesi africani per continuare a derubarli più facilmente delle loro risorse.
Ma credete veramente che Soros e gli altri che finanziano le navi che effettuano salvataggi siano dei filantropi animati da sentimenti umanitari? Ma leggete quello che dicono gli esponenti di Davos e delle altre organizzazioni sopranazionali che dettano i compiti da fare ai politici occidentali? Perchè le loro intenzioni, i loro programmi sono chiari sia nei loro discorsi che nei loro libri …o non volete sentire/vedere perchè siete irrimediabilmente “buonisti” a prescindere?
Mariano Rampini dice
Intanto un doveroso ringraziamento ad Annamaria Rivera per il suo lavoro (insieme agli altri autori) e le ipotesi di studio che ne derivano. Leggo tra i commenti la richiesta di un termine con il quale indicare un gruppo sociale nato in un ambiente diverso dal mio e nel quale si sono determinati usi e costumi diversi dal mio. Credo – ma è mia modestissima opinione – che parlare di popolo o popoli possa essere d’aiuto. E non per operare dei distinguo ma anche solo per una analisi storico-sociale di, appunto, sistemi sociali diversi. Rifuggendo da ogni possibile giudizio di merito. Cosa in realtà non facile perché la nostra cultura occidentale spinge inesorabilmente in direzione di suddivisioni basate proprio su giudizi di congruità o meno con i suoi usi e costumi. Uscire dalle trappole che questo modo di considerare la realtà pone sul cammino di chi vorrebbe abbandonare una visione stereotipata del mondo e di chi lo abita, non è affatto facile. Ma si può fare se si ha la voglia di farlo.
Fabio Petrosillo dice
Cara Annamaria, il tuo problema è che hai ragione e lo sai, ma il ragionamento analitico è disarmato nei confronti del sistema mitologico messo nuovamente insieme dai fascisti negli ultimi decenni: un sistema basato in breve su “credere,obbedire,combattere” e sulla creazione di miti ridicoli ma internamente consistenti. E così il commentatore che si beve questa mitologia tutto contento di aver svelato i segreti del mondo, se la prende con il povero Soros (a cui per quanto ricco, non si può imputare tutto il male del mondo), quando non è il mitico Kalergi, che nessuno ha mai letto (tranne qualche ideologo nazista) e quindi non si capisce come abbia fatto a mettere in opera il suo piano..
Gianluca Paciucci dice
Del bell’articolo di Annamaria Rivera, anche ricordando il lavoro “L’imbroglio etnico” che ci ha illuminato più di vent’anni fa, vorrei evidenziare questo passaggio, per cogliere il valore devastante di certe parole: “…La cronaca della guerra fratricida nella ex Jugoslavia ha rappresentato il trionfo del modello e delle designazioni etniche, che in tal modo si sono affermati come un indiscutibile dato di fatto e si sono definitivamente consolidati nel linguaggio corrente…” Proprio l’aver accettato l’etnicizzazione delle guerre balcaniche degli anni Novanta (alla…fine della storia…) ha portato a una serie di scivolamenti semantici molto gravi: etnicizzare una guerra, che ebbe le sue basi nel disfacimento del sistema socialista della Jugoslavia di Tito e negli appetiti europei di spezzare l’anomalia del non-allineamento, significò armare milizie (e disarmare le intelligenze) che nelle religioni trovarono il movente ai loro misfatti di pura rapina. Da lì si cominciò in modo sistematico a etnicizzare tutto: il crimine spicciolo, attribuito a interi gruppi e comunità (l’antiziganismo, ad esempio, ha portato a veri e propri orrori, anche in Italia – con vergognose punizioni collettive, rappresaglie degne dei più aborriti regimi) e non a singoli individui; le guerre, appunto (le famigerate ‘pulizie etniche’); perfino il cibo (polenta contro cous cous), gli abiti (le “palandrane islamiche” di cui sparlava Borghezio), e poi la fede, e lo stesso ‘dio’, trascinato nel fango delle contese più triviali. Non è una questione di ‘politicamente corretto’ né di ‘buonismo’ (termini buoni a far tacere ogni pensiero critico), quella sollevata da Annamaria Rivera, ma di uso corretto di termini ideologicamente connotati e della loro revisione. Termini pesanti e generanti le più lucide follie di questi ultimi decenni. L’antropologia nei suoi più avanzati risultati ha proposto proprio questo superamento della parola ‘etnia’ a vantaggio del concetto di una ‘specie umana’ identica (e diversa) in tutto il mondo. Gli ‘altri sé’ di cui parla Alberto Mario Cirese, indimenticato maestro, anche nel suo finale ‘revisionismo’. Non si tratta tanto, credo, di trovare dei termini sostitutivi, quanto di fuggire dalla concreta trappola dell’etnicizzazione: quella in cui ci stanno trascinando. La sacrosanta lotta culturale contro una parola è lotta contro un agire politico che ci sta trascinando nel baratro della guerra totale e continua, e nei crimini in Mediterraneo e in tutte le frontiere. Le spaventose frontiere che separano popoli, famiglie e individui; che sono portatrici di morte, da noi e altrove (e ricordiamo che ‘altrove’ il numero dei profughi e delle persone migranti più in generale è infinito -pensiamo solo ai profughi siriani in Libano-, rispetto ai numeri, in fondo minimi, cui siamo confrontati in Europa). Grazie al libro “L’imbroglio etnico” capimmo cose molto importanti, che ci fecero lavorare nei movimenti antirazzisti; grazie agli interventi di Annamaria Rivera continuiamo ad essere spinti a pensare questa avvilente ipermodernità. Con l’illusione di poterla mutare almeno un po’, pur se l’egemonia è oggi di altri… – ma niente è definitivo.