Avrebbe potuto essere il primo capitolo di una preziosa fiaba dei giorni nostri, una rilettura del soggetto dell’indimenticabile “Uccellacci e uccellini”, oppure l’asciutta cronaca di un sacro percorso sul sentiero dei miracoli. E invece si tratta solo del racconto di una passeggiata romana con una comunicazione primaria, un semplice e intenso dialogo, che avremmo giudicato impossibile ma si rivela la straordinaria, gioiosa epifania d’una comunanza tra esseri viventi

di Enrico Calamai
È successo la domenica di Pasqua del 2014. Saranno state le cinque del pomeriggio. Con un amico mi trovavo dalle parti del romanissimo quartiere del Pigneto e abbiamo pensato di dare un’occhiata, alla ricerca di un ristorante vegan di cui avevamo sentito parlare. Faceva un gran caldo, le serrande erano abbassate, le persiane chiuse e in giro non si vedeva anima viva. Camminavamo nel lato in ombra della strada, punteggiata di alberelli che non campano e non crepano tra tanto cemento, e abbiamo visto venire in direzione opposta un giovane in jeans e camicia. Avanzava col viso rivolto verso l’alto, il che imprimeva al suo incedere un che di cauto, calmo, spigato, quasi come di chi con naturalezza fosse sul punto di levitare.
Nell’avvicinarci, abbiamo notato che il pomo di Adamo gli faceva su e giù e, quando ci siamo incrociati, ci siamo resi conto che il suono che emetteva non poteva che definirsi un cinguettio. Ci siamo arrestati, sorpresi, e, voltandoci a seguirlo con lo sguardo, l’abbiamo visto che si fermava pochi passi più in là, sotto uno di quegli alberi ancora mezzo privi di foglie.
E’ stato a quel punto che abbiamo capito: c’era un uccellino su uno dei rami che si stagliavano nel controluce, come in una china orientale. Probabilmente un normalissimo passero, e fin qui nulla di strano. Era tuttavia straordinario che rispondesse, saltellando di ramo in ramo, in preda ad un’incontenibile eccitazione. Ci siamo fermati, increduli. Abbiamo fatto qualche passo indietro, per capire meglio, ascoltare, magari anche interrogare, ma era chiaro che il nostro avvicinarci oltre l’avrebbe fatto volar via, interrompendo il dialogo.
Abbiamo ripreso il cammino, sentendo che voltavamo le spalle a un miracolo cui mai più avremmo potuto assistere, ma portandoci dentro impressa la soddisfazione profonda che si leggeva negli occhi del giovane e la gioia senza riserve del passero: qualcosa come la gioiosa epifania di una comunanza tra i viventi. Pochi minuti dopo, arrivati in fondo alla strada, ci siamo affrettati a tornare indietro. Dei due interlocutori non restava traccia. Ci siamo ripresentati sul posto il giorno dopo, alla stessa ora, con analogo risultato. Era, d’altronde, un cercar Maria per Roma.
Mi dicono che il richiamo per uccelli sia uno strumento ingannevole di caccia e di morte, oggigiorno reperibile anche su internet. Nulla di tutto questo era presente nella scena cui ci è stato dato di assistere e che a me ha fatto pensare a un sapere antico, trasmesso di padre in figlio nell’ambito di una cultura contadina, preindustriale, pasoliniana, se vogliamo. Alla creatività resa possibile da un linguaggio il cui apprendimento comporta tenacia e passione, in una parola studio, che, diceva un mio vecchio professore di latino, vuol dire amore.

Quel giovane solitario in mezzo alla città intenta a digerire la strage degli agnelli, probabilmente sopravvissuto alla roulette russa della traversata del Mediterraneo, chissà se affrontata a seguito di una delle rivoluzioni arabe tradite o semplicemente alla ricerca di una vita dignitosa per sé e per la propria famiglia, mi è sembrato portatore della autentica ricchezza di cui sarebbe capace un’umanità che finalmente si riconosca nell’apertura non violenta all’Altro: non cittadino o diverso che sia, animale umano o non umano che sia, scintilla comunque del continuum polimorfo dell’ambiente, che di tutti noi è madre.
Vederlo è stata una lezione e una consolazione insieme, per chi, giunto molto avanti nella vita, attraverso lo scrivere da sempre tenta di raggiungere una simile comunicazione primaria.
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