Questo saggio di Lea Melandri spiega come e perché possiamo portare l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita di ogni giorno, nella sua interezza e fragilità, consapevoli che le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale sono venute meno. Qualsiasi esperienza di cambiamento, cioè la costruzione di una società senza relazioni di dominio, deve allora fare prima luce su un terreno che resta per lo più confinato in una “naturalità”: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. Ma per muoversi in questo terreno occorre che insegnanti ed educatori abbiano acquisito capacità di cura e conoscenza di sé e sperimentato una dimensione collettiva. Siamo pronti per questo cambiamento antropologico epocale?
di Lea Melandri*
L”educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di una generico invito al rispetto reciproco – il “politicamente corretto” – deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Nel momento in cui si scopre che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere. Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato.
Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso. Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte.
Ci sono domande, emozioni, vissuti che si affacciano nell’infanzia e che, per non aver trovato risposte o parole per essere detti, sembrano aver fatto naufragio.
“Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente (…). Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione (…). Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia”.
(Francoise Lefèvre, Il Piccolo Principe Cannibale, Franco Muzzio Editore, Padova 1993)
I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo – insieme alla famiglia -, ma anche il loro inquadramento secondo norme di ordine e disciplina. Restano perciò il “sottobanco”, anche se segnalano vistosamente la loro presenza, i loro interrogativi, la loro vitalità.
Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva – esibizionismo e voyeurismo – che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera? Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? È indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza – cura e conoscenza di sé -, così come è importante la dimensione collettiva.
Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto. Quello che già in parte, purtroppo avviene.
.
DA LEGGERE
Coltivare libertà e diritti Giulia Selmi
Una rete e un appuntamento per chi non si rassegna ad aprire nelle scuole e nei territori spazi in cui superare gli stereotipi di genere, contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico, promuovere la cultura delle “differenze”
io credo sì che certe passioni e certi sentimenti degli uomini e delle donne siano universali e in forme diverse si ritrovano in tutte le epoche, sono inestirpabili. Non è sempre tutto una “costruzione culturale” crederlo è sbagliato come lo è ridurre tutto alla biologia. Natura e cultura non sono separabili, vale lo stesso per il maschile e il femminile che sono in noi in ogni uomo e in ogni donna in varie forme non codificabili una volta per tutte
ci sono tanti modi di vivere ed esprimere l’identità maschile e femminile tanti quanti sono gli uomini e le donne nel modo. Modi più frequenti statisticamente e modi meno frequenti ma tutti legittimi e autentici
quanto al dominio nelle relazioni intime dico che ci ti ama davvero non ti opprime e sopratutto capisce che la fidanzata non è la sua mamma
«Educare ai sentimenti, relazioni ed emozioni»
Per una cultura di pace è necessario educare ai sentimenti, alle relazioni e alle emozioni; intervista a Teresa Barbagli, neuropsicomotricista, counselor e formatrice.
«Molti di noi sono ancora legati alla vecchia concezione che per cambiare lo stato del mondo sia necessario partire esclusivamente dall’esterno, imponendo unicamente cambiamenti attraverso interventi a livello culturale, sociale, politico. In realtà, per avviare una concreta rivoluzione, c’è bisogno di un lavoro contemporaneo, è necessario sia il lavoro su di sè che quello sulle strutture». Sono le parole di Teresa Barbagli, neuropsicomotricista, counselor relazionale e formatrice sui temi della gestione nonviolenta dei conflitti intra e interpersonali, impegnata nella collaborazione con l’Università di Siena.
«Il primo è il lavoro di formazione di una personalità nonviolenta, il secondo quello politico di costruzione collettiva di una società nonviolenta. Anche se di tanto in tanto ci illudiamo che solo l’uno dei due sia la vera soluzione, o quella più efficace e veloce, in realtà sappiamo solo che si devono fare entrambi. Di qui la necessità di un continuo lavoro su di noi perché nella costruzione di una società nonviolenta c’è bisogno di persone che si dedicano concretamente, in un modo o nell’altro, alla creazione di un mondo più vivibile, che partecipano alla vita del pianeta in cui viviamo attraverso pratiche di consumo responsabile e azioni sensibili, in direzione di uno stile di vita più sano e consapevole. Tutto questo presuppone che si debba partire innanzitutto da noi attraverso un diverso modo di agire e di pensare. La soluzione quindi parte da noi. Una Società come quella di oggi ha due possibilità: o collassare(mantenendo le opposizioni e le contrapposizioni) o evolversi. La soluzione sta negli individui, un cambiamento cioè che coinvolge un individuo, poi tre, poi dieci, mille fino a espandersi con un effetto contagio. Non possono esserci eserciti né gruppi che prevalgono se gli individui liberi vivono il loro cambiamento spirituale e lo diffondono con l’esempio. Il mondo è fatto d’individui, non di razze, partiti, squadre, eserciti».
«Si deve partire da una comunicazione empatica con l’altro, che abbatte le paure, le diversità. Questo è l’unico modo per salvare il mondo, diffondendo una coscienza nuova. Tanto più riusciremo a comunicare con l’altro e a cooperare, quanto più riusciremo a uscire dalle nostre opinioni e ideologie, dai nostri punti di vista, per porci in quello degli altri e costruire insieme un mondo di pace e nonviolenza. Le relazioni interpersonali possono essere in armonia solo se le relazioni con se stessi sono in armonia. Conoscere se stessi e il funzionamento della mente umana diventa così un’indispensabile premessa per tutto il resto».
«Educare, come ha sostenuto Maria Montessori, è aiutare la vita ad incamminarsi nelle ampie e sempre nuove strade dell’esperienza con spirito di gioia, di fratellanza, di desiderio di bene, di responsabilità. Laddove, invece, o nella famiglia o nella scuola o nella società, il bambino è messo in una condizione di conflitto, di competizione o sottoposto alla volontà di un adulto dominatore, o impoverito nei suoi immensi poteri, o infine inibito nell’esprimersi nella sua natura e nei suoi desideri, egli sarà costretto alla crudele necessità di nascondersi, di snaturare le proprie sensibilità, di difendersi in un impersonale adattamento. Questa condizione è per il bambino uno stato di guerra, di sacrificio e di sconfitta, perché il suo istinto non è quello della lotta e dell’opposizione, ma della pace e di una libera e consapevole obbedienza».
«Educare gli individui alla Pace, sia in età evolutiva che in età adulta, significa educare alla relazione interpersonale, all’incontro tra volontà e prospettive differenti, al rapporto con ciò che culturalmente è definito come altro da sé. La cultura della Pace è essenzialmente una condizione di apertura alle ragioni degli altri e di rispetto per ogni prospettiva o esperienza, è educazione alla solidarietà, ai diritti umani, alla nonviolenza, ai conflitti, alla mondialità, ma anche processo di costruzione di convivenze. La scuola, intesa come percorso formativo che si snoda lungo un periodo che va dagli asili nido ai corsi universitari, è, dunque, il luogo dove promuovere lo sviluppo della capacità affettiva e relazionale e dove, attraverso una pedagogia della comunicazione, del confronto e della convivenza democratica, è possibile impiantare nella società attuale una reale e ben radicata cultura della pace e della Nonviolenza. La scuola, intesa come percorso formativo che si snoda lungo un periodo che va dagli asili nido ai corsi universitari, è, dunque, il luogo di elezione dove promuovere lo sviluppo della capacità affettiva e relazionale e dove, attraverso una pedagogia della comunicazione, del confronto e della convivenza democratica, è possibile impiantare nella società attuale una reale e ben radicata cultura della pace e della Nonviolenza. Nonostante le riforme susseguitesi negli ultimi decenni, il sistema scolastico e universitario sono ancora fortemente imperniati su una educazione di tipo logo-logico, che si rivolge essenzialmente all’intelligenza cognitiva, trascurando o addirittura ignorando altre importanti dimensioni, da quelle senso-motorie a quelle comunicativo-relazionali, emozionali, artistiche. Nessuno ci ha mai insegnato a comunicare efficacemente e a impostare in modi sani e costruttivi i nostri rapporti con gli altri. Impariamo a parlare e a scrivere ma non ad ascoltare e comprendere realmente l’altro in quanto diverso da noi. Ci viene insegnata una storia umana fatta di guerre ma non ci viene detto niente su come poterle evitare. Riceviamo una formazione professionale senza alcuna formazione relazionale per prepararci ai rapporti che avremo con i colleghi e con i superiori, che pure incideranno in modo determinante sulla nostra soddisfazione o insoddisfazione, sulla gratificazione o frustrazione che ricaveremo dal lavoro e quindi anche sul nostro rendimento. In alcune scuole ci si preoccupa perfino di dare un’educazione sessuale agli studenti, ma niente è fatto per fornire loro una qualche educazione sentimentale e relazionale. Insomma, viviamo in una società tecnologicamente avanzata ma siamo poco più che analfabeti sul piano comunicativo, emozionale, relazionale. E’ necessario per una cultura di pace educare ai sentimenti, alle relazioni e alle emozioni».
Come diceva Krishnamurti (filosofo di origine indiana) :
«la pace individuale è la base sulla quale si stabilisce la pace del mondo», da qui l’importanza di una buona comunicazione con se stessi perché solo comprendendo le nostre reazioni emotive, possiamo davvero comprendere le reazioni degli altri, solo ascoltando i nostri bisogni, lamenti e conflitti interiori sapremo riconoscere quelli altrui e solo prendendo coscienza delle nostre maschere potremo aiutare gli altri a liberarsi dalle proprie, così da instaurare con loro una comunicazione veramente spontanea, sincera e costruttiva.