Come descrivere il tempo che viviamo? Achille Mbembe propone il termine “brutalismo”: il mondo è diventato una gigantesca miniera a cielo aperto, obiettivo perseguito da forze di destra e di sinistra. Una delle conseguenze è il blocco delle energie affettive e quindi l’indifferenza al dolore degli altri. Gaza e soprattutto la gestione brutale delle migrazioni lo dimostrano ovunque: i migranti sono sempre più spesso rinchiusi, deportati, lasciati morire, le rotte migratorie europee sono le più letali al mondo. Come resistere al brutalismo? Mbembe si ribella al catastrofismo e trova ispirazione nella resistenza nera africana e in Ernst Bloch, il grande pensatore dell’utopia e della speranza. “Cos’è l’utopia per Bloch? Niente di ciò che siamo abituati a pensare associato a quel termine: speculazioni sul futuro, proiezione di scenari, modelli perfetti. No, l’utopia è potere, latenza e possibilità già inscritte nel presente…”

“Ciò che è significativo non è ciò che finisce e consacra,
ma ciò che inizia, annuncia e prefigura” (Achille Mbembe)
In che tempo viviamo? Come descrivere la nostra epoca? In questa questione dei nomi è in gioco qualcosa di decisivo, per il pensiero critico. I nomi dell’epoca. La mappa dei nomi guida le strategie, indica i movimenti dell’avversario e rivela le possibili resistenze.
Cosa stiamo affrontando oggi? Se non sappiamo come si chiama, come lo combatteremo?
Il pensatore camerunese Achille Mbembe propone il termine “brutalismo”. Proveniente dall’universo dell’architettura, dove richiama uno stile di costruzione massiccio, industriale, altamente inquinante, il brutalismo come immagine del mondo contemporaneo nomina un processo di guerra totale contro la materia.
La diagnosi di Mbembe non è semplicemente politica o economica, culturale o addirittura antropologica, ma di civiltà, cosmica, cosmopolitica. Designa il rapporto dominante con ciò che esiste. Un rapporto di forzatura ed estrazione, di sfruttamento intensivo e predazione. Il mondo è diventato una gigantesca miniera a cielo aperto. La funzione dei poteri contemporanei, dice Mbembe, è quella di “rendere possibile l’estrazione”. Esiste una versione di brutalismo di destra e una versione progressista, ma entrambe gestiscono la stessa società di trivellazione con intensità e modalità diverse. Dai corpi e dai territori, attraverso il linguaggio e il simbolico.
Un nuovo imperialismo? Sì, ma non istituisce né costruisce più una civiltà dei valori, una nuova idea del Bene o una cultura superiore, ma frattura e spacca i corpi – individuali, collettivi, terrestri – per estrarre da essi ogni tipo di energia fino all’esaurimento, minacciando così la “combustione del mondo”.
Mbembe identifica le tendenze a livello planetario che influenzano l’umanità nel suo insieme. Ma pensa da un luogo particolare: l’Africa, la sua storia, le sue ferite e la sua resistenza. Oggi il mondo intero vive un “divenire nero” nel quale la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a scomparire. Lo schiavo nero prefigura una tendenza globale. Siamo tutti in pericolo.
Economia libidinale brutalista
Che tipo di essere umano, di soggettività e di desideri, vuole produrre il brutalismo contemporaneo?
Da un lato ha il folle progetto di sradicare l’inconscio, “quell’immensa riserva notturna con cui la psicoanalisi ha cercato di riconciliarci”. Il corpo umano non è un mero corpo biologico, neuro-chimico, ma anche “materia di sogno” (León Rozitchner) che anela, che fantastica, che pensa utopie. L’inconscio è una buccia di banana in tutti i piani di controllo, compresi i propri piani di controllo. Tutto lo devia, lo stravolge, lo complica.
Questa dimensione ingovernabile deve essere estirpata, tutte le forze e le potenzialità umane devono essere catturate in reti di dati, la materia deve essere completamente mappata finché la mappa non sostituisca il territorio. Il brutalismo mira a digitalizzare integralmente il mondo, a dissolvere l’inconscio (che ci rende unici e irripetibili) nell’algoritmo, nel numero, nel dominio del quantitativo. Abolire il mistero che siamo, sbiancare la notte.
Ma l’unica cosa che ottiene è dare spazio agli impulsi più oscuri e distruttivi. Perché? La razionalizzazione generale – digitalizzazione, algoritmizzazione, protocollizzazione – blocca le energie affettive e amorose, quella potenza di Eros che secondo Freud è l’unico possibile contrappeso a Thanatos. Il progetto di sradicamento dell’inconscio porta a una desensibilizzazione generale.
L’indifferenza al dolore degli altri, il piacere di ferire e uccidere, di vedere la sofferenza. Crudeltà e sadismo sono caratteristiche fondamentali dei poteri contemporanei. Mbembe parla, in un capitolo particolarmente agghiacciante, di “virilismo” contemporaneo. L’economia libidinale del brutalismo non comporta più la repressione o il contenimento pulsionale, ma piuttosto la dissolutezza, la disinibizione, la desublimazione e l’assenza di Gaza come modellolimiti. Di’ tutto, fai tutto, mostra tutto e divertiti.
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Il virilismo crea una zona frenetica, dice Mbembe, senza traccia dei vecchi sensi di colpa, modestia o inibizione. Una figura forse lo esprime meglio di ogni altra: il trionfo dell’immagine del padre incestuoso nelle pagine pornografiche. Tornando indietro: se l’omicidio del padre dispotico per mano dei figli aveva significato per Freud il passaggio alla civiltà, al limite e alla legge, il fantasma del padre violento torna a popolare oggi i desideri più oscuri.
Ieri, il principio di realtà (il mandato paterno) ci costringeva a rinunciare o a rinviare il piacere, per sostituirlo con una compensazione sublimatoria. Oggi ci chiede il contrario: non rinviare, differire o sostituire nulla, ma accedere al godimento in modo diretto, letterale e senza mediazioni. Consumare (oggetti, corpi, esperienze, relazioni). Dalla repressione alla pressione. Dalla desessualizzazione all’ipersessualizzazione. Dal padre del proibizionismo al padre degli abusi. La colpa oggi consiste nel non aver goduto abbastanza.
Colonizzare significava sempre brutalizzare. La piantagione e la colonia sono, secondo Mbembe, prefigurazioni del brutalismo. Senza contese o mediazioni simboliche si può e si deve assolutamente godere dell’altro, convertito in un mero “harem di oggetti” (Franz Fanon). Possiamo allora comprendere, a livello libidinale, una chiave per l’ascesa dei nuovi diritti? Si presentano come difensori di una “libertà” che è solo il diritto dei forti di godere dei deboli come se fossero oggetti usa e getta.
Sullo sfondo, come effetto derivato dal virilismo, si diffondevano ovunque la paura della castrazione, il panico genitale e l’orrore del femminile. Il brutalismo aspira addirittura a eliminare completamente le donne. Onanismo generalizzato, sessualità senza contatto, tecnosessualità, con il cervello che sostituisce il fallo come organo privilegiato. Il virilismo non sarebbe l’ultima parola del patriarcato.
Corpo di frontiera
Al termine del suo libro Le origini del totalitarismo, più di seicento pagine dedicate allo studio delle condizioni storiche e sociali che hanno reso possibili il nazismo e lo stalinismo, Hannah Arendt afferma sorprendentemente che l’unica certezza che ha raggiunto è che il totalitarismo è nato in un mondo in cui l’intera popolazione è diventata superflua. I campi di concentramento (e poi di sterminio) furono l’unico luogo che le potenze trovarono allora per ospitare coloro che erano eccedenti.
Come leggiamo questo oggi, quando il nostro tempo è attraversato dallo stesso fenomeno delle masse erranti? La guerra è sempre stata un possibile strumento per regolare la popolazione indesiderata in eccesso e il totalitarismo è stato un regime di guerra permanente. Il brutalismo contemporaneo, diverso dal nazismo o dallo stalinismo, eredita tuttavia la stessa funzione. Data la paura della distribuzione e il panico “della moltiplicazione degli altri”, la gestione brutale delle migrazioni.
Mbembe chiama gli esseri umani eccedenti “corpi di frontiera”. Cosa viene fatto con loro? Isolare e confinare, rinchiudere e deportare, lasciare morire. La biopolitica (che si prende cura della vita per sfruttarla) si intreccia con la necropolitica (che produce e si prende cura della popolazione superflua).
Il mondo contemporaneo conosce non solo forme di controllo morbide e seducenti (moda, design, pubblicità), ma anche metodi di guerra. Oggi, ovunque, i controlli, gli arresti, i confinamenti sono inaspriti. Si dividono gli spazi, si decide autorevolmente chi può muoversi e chi no. La mobilità dei soggetti non solo viene promossa…, ma è trattenuta, controllata, fissata. Gaza come paradigma di governo.
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Mentre i leader europei hanno recentemente festeggiato gli ottant’anni della liberazione da Auschwitz, i campi stanno tornando di moda. Campi di internamento, detenzione, relegazione e separazione. Per migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Campi, insomma, per gli stranieri. Samos, Chios, Lesbo, Idomeni, Lampedusa, Ventimiglia, Sicilia, Subotica. Le rotte migratorie più letali al mondo sono quelle europee, 10.000 persone hanno perso la vita cercando di entrare in Spagna lo scorso anno.
Sanguinamento e predazione operano anche nella gestione delle complesse circolazioni dei corpi di frontiera, spiega Mbembe, attraverso il controllo delle connessioni, delle mobilità e degli scambi. La guerra contro i migranti (quale materia in movimento) è anche un fattore commerciale ed economico redditizio.
Gli impulsi imperialisti si uniscono oggi alla nostalgia e alla malinconia. Gli ex conquistatori, invecchiati e stanchi, si sentono invasi dalle “corse energetiche” piene di vitalità. Il mondo diventa piccolo e minacciato. È la percezione che sfrutta l’estrema destra europea. La patria non deve più espandersi, ma difendersi…
Utopie della materia
Come resistere al brutalismo? Mbembe non si diverte in un esercizio di catastrofismo, ma piuttosto osa l’utopia. Cosa significa questo?
Il pensatore camerunese trova ispirazione in Ernst Bloch, il grande pensatore dell’utopia e della speranza del XX secolo. Cos’è l’utopia per Bloch? Niente di ciò che siamo abituati a pensare associato a quel termine: speculazioni sul futuro, proiezione di scenari, modelli perfetti. No, l’utopia è potere, latenza e possibilità già inscritte nel presente.
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A differenza della critica convenzionale, la critica utopica non solo disegna una cartografia critica dei poteri contemporanei, ma sottolinea anche il potenziale di resistenza, di cambiamento, per altri mondi possibili. Non solo denuncia, persegue o cancella, ma enuncia nuove possibilità, invitando chi l’ascolta a farle nascere, a dispiegarle. Mette in tensione ciò che c’è e ciò che potrebbe essere, essendo quest’ultimo non una possibilità astratta, ma una forza in processo.
Se oggi assistiamo a un “divenire nero del mondo”, non potremmo ispirarci alla resistenza che le culture africane hanno sempre opposto al loro divenire-cosa? Il particolare diventa universale e l’utopia, come voleva Walter Benjamin, non è più nel futuro ma nel “balzo della tigre nel passato”. Queste resistenze passano, a quanto leggo, attraverso un’altra concezione e un altro rapporto con la materia. Secondo le culture africane pre-colonizzazione la materia è tessuto di relazioni, è differenza, è cambiamento. L’animismo lo esprimerebbe a livello spirituale: il mondo è popolato da una moltitudine di esseri viventi, soggetti attivi, molteplici divinità, antenati, intercessori.
O la riparazione o i funerali, dice Mbembe. La sfida non è indignarsi o battersi il petto, ma rigenerare la materia ferita. Nel caso, ad esempio, del dibattito sulla decolonizzazione dei musei, non si tratta semplicemente di “restituire” gli oggetti rubati ai luoghi di origine, ma piuttosto di comprendere che questi oggetti non erano “cose” (né strumenti né opere d’arte), ma veicoli e canali di energia, forze vitali e virtualità che consentivano la metamorfosi della materia. Ricreare una relazione attiva con la memoria.
Se la materia non è un oggetto da sfruttare, ma un ecosistema partecipativo, una riserva di potenzialità, un insieme di soggettività, quali forme politiche potrebbero adattarla? Al di là della democrazia liberale e del nazionalismo vitalista, della terra e del sangue, Mbembe propone una “democrazia dei vivi” che si prenda cura di tutti gli abitanti della terra, umani e non umani. Un’economia dei “beni comuni” che ci costringerebbe a rinunciare alle nostre ossessioni per l’appropriazione esclusiva. E una “de-frontierizzazione” del mondo capace di tutelare il diritto di ogni persona a partire, a spostarsi e a essere in transito. Essere straniero, per sé e per gli altri.
La materia stessa è utopia, diceva Ernst Bloch. Non è una massa passiva che attende la sua forma dall’esterno, ma ha al suo interno un proprio movimento, un proprio principio attivo, è gravida di futuro. È per questo che il brutalismo fa guerra? Ciò che ci chiede è di essere “come il fuoco nel forno” che matura e realizza le potenzialità. Non forzarlo né violarlo, ma ascoltarlo e prolungarne la creazione.
Pubblicato in spagnolo su ctxt e qui con l’autorizzazione dell’autore (traduzione di Comune).
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Non conoscevo Achille Mbembe e la sua puntuale analisi. Riprendendo il concetto di brutalismo trasferisce i suoi significati per dar vita a ciò che può contrastarlo. Dice bene, l’utopia è in essere, è accessibile, dato che va praticata necessariamente nella prossimità. Ribalta naturalmente i macro teoremi di una banale superiorità, appellandosi alla materia, ai corpi, a ciò che biologicamente e fisiologicamente ci appartiene o meglio siamo, in quanto espansione e limite universale di ogni cosa. L’interesse che scopro e nutro per Mbembe, proviene anche dalle assonanze con un mio lavoro di scrittura in essere sul tema dell’utopia. Grazie per questa pubblicazione.