Stralci dell’intriduzione del Rapporto sui Diritti globali 2012 (Ediesse).
È tornata la lotta di classe, ci dicono le cronache di questi mesi dense di conflitti di lavoro e di territorio. Ma quella che domina la scena globale, incidendo in profondità, non è la lotta di resistenza dei lavoratori stritolati dagli effetti della crisi o dei ceti medi che cercano di opporsi alla propria irruente proletarizzazione. All’opposto, è una lotta di classe dall’alto, che promana dalle classi dominanti mondializzate e che è silenziosamente ed efficacemente in corso dagli anni Ottanta. Una “contro-rivoluzione”o un “grande balzo all’indietro”– a seconda delle diverse definizioni utilizzate da alcuni autori – che si sostanzia in un recupero di profitti, privilegi e potere che il precedente ciclo di lotte e di cambiamenti degli anni Sessanta e Settanta avevano concretamente e in profondità messo in discussione in molti Paesi europei e negli Stati Uniti. (…)
Cinque anni di crisi non hanno per nulla invertito questa tendenza: la finanza e il capitalismo globali, pur essendone direttamente responsabili, non hanno visto mettere in discussione la propria supremazia, del resto da tempo fuori controllo. Anzi: i profitti e i patrimoni dei “vincitori” continuano a lievitare, mentre milioni di persone sono precipitate nella povertà e nella disoccupazione. Il dato più recente e appariscente è venuto dalla classifica aggiornata quotidianamente e in tempo reale da “Bloomberg”, il Bloomberg Billionaires Index: ebbene, in pochi mesi, da gennaio ad aprile 2012, il patrimonio delle 40 persone più ricche del mondo si è accresciuto di 95 miliardi di dollari arrivando a superare il trilione di dollari (http://topics.bloomberg.com/bloomberg-billionaires-index).
La ragione della sostanziale impunità del sistema finanziario e dell’imperturbabile sfrontatezza con la quale il colosso dai piedi di argilla è stato rimesso immediatamente in piedi, facendone pagare interamente i costi ai lavoratori e alle classi medie di tutto il mondo – e dell’Europa in modo particolare, e della Grecia in maniera più drammatica e accentuata – è assai semplice: da tempo, ben prima dell’esplodere della crisi, i governi avevano sostanzialmente abdicato ai propri ruoli e poteri, cedendone progressive quote agli organismi sovranazionali come il Fondo Monetario, le Banche centrali, l’Organizzazione mondiale del commercio, le reti non trasparenti delle corporation e delle lobby industriali e finanziarie che hanno il proprio santuario non a caso in Svizzera, nell’annuale assise del World Economic.
Questa analisi non è particolarmente nuova: il movimento altermondialista e le reti del World Social Forum la vanno ripetendo e articolando da quasi tre lustri senza che tali verità e consapevolezze siano riuscite a modificare il corso degli avvenimenti né a influenzare la governance mondiale; ciò dovrebbe indurre una specifica riflessione sul ruolo, gli strumenti, i limiti e l’efficacia possibili dei movimenti nell’epoca della globalizzazione. Evidentemente, non basta avere ragione per trasformare la realtà. Occorre costruire il necessario e allargato consenso, saper istruire e governare i processi, essere in grado di dotarsi degli strumenti complessi, organizzativi oltre che teorici, capaci di diventare davvero lievito e motore del cambiamento e di rendere credibile l’alternativa. I movimenti più recenti, Indignados e Occupy Wall Street in primo luogo, ci stanno provando, con ingenuità, entusiasmo, generosità, determinazione e capacità di innovazione. E sapendo muovere da idee forza semplici, cosa che in Italia è sempre risultata più difficile, per eccessive frammentazioni, minore autonomia rispetto alla politica tradizionale e forse pure per una certa inclinazione alla complicazione, a leaderismi e passatismi.
La parola d’ordine We are the 99percent è tanto esatta quanto comunicativamente efficace; tanto è vero che nel mese di ottobre del 2011 si contavano occupazioni in più di 95 città di 85 Paesi nel mondo, mentre negli Usa le occupazioni avevano interessato oltre 600 comunità. Lo stesso vale per i valori fondanti dell’esperienza di Occupy e di Zuccotti Park, che agli inizi si è coagulata a partire da una richiesta assai semplice: «Chiediamo che Barack Obama istituisca una commissione presidenziale con il compito di porre fine all’influenza che ha il denaro sui nostri rappresentanti a Washington» (Scrittori per il 99%, Occupy Wall Street, Feltrinelli, 2012). Tanto semplice da apparire semplicistica. Eppure, in radice, gran parte delle questioni stanno proprio in questa potenziale distruttività connessa al potere del denaro, non più temperata da valori e filosofie, da regole e culture, come in altre epoche storiche.
(…) Secondo i dati del Congressional Budget Office statunitense, tra il 1992 e il 2007 i 400 americani più ricchi hanno avuto un incremento del reddito del 392%, ma le loro tasse sono calate mediamente del 37%; nel 2007, il 20% degli americani più ricco possedeva l’85% della ricchezza nazionale, mentre l’80% della popolazione solo il 15%. Tendenze analoghe sono registrate dall’OCSE anche negli altri Paesi. In Italia, dicono i dati della Banca d’Italia, alla fine del 2008 la metà più povera delle famiglie deteneva il 10% della ricchezza totale; a fronte, il 10% più ricco possedeva quasi il 45% della ricchezza complessiva. (…) Quando solo dieci persone possiedono beni e capitali per circa 50 miliardi di euro, tanto quanto i tre milioni di italiani più poveri (Giovanni D’Alessio, Ricchezza e disuguaglianza in Italia, Questioni di Economia e Finanza, Banca d’Italia, n. 115, febbraio 2012), significa che il sistema non solo è profondamente iniquo ma non più sostenibile. Il mondo, allora, è tanto guasto da essere divenuto marcio. Mettere in discussione quel potere e quelle esplosive diseguaglianze, per quanto ingenuo e utopico possa apparire, vuol dire riprogettare le forme e i modi del vivere e del produrre, il lavoro e il consumo, la politica e l’economia, il rapporto con il presente e quello con il futuro, il sistema di relazioni e le forme dell’abitare i luoghi, le città e il pianeta, l’ambiente e il rapporto con le nuove generazioni. Occorre, insomma, ripensare i paradigmi che presiedono ai processi di globalizzazione e le istituzioni che li governano, in direzione di una riconversione ecologica dell’economia, di una trasformazione degli stili di vita, di una nuova democrazia, di un’universalizzazione dei diritti.
Una questione che, oltre che urgente, è divenuta vitale e globale. «La transizione dal controllo delle multinazionali sulle risorse della Terra è diventata fondamentale per la sopravvivenza della democrazia e per la libertà degli uomini», scrive Vandana Shiva nel suo ultimo libro, indicando anche i cambiamenti necessari da compiere. Tra di essi, il passaggio dalla competizione alla cooperazione; il passaggio dalla globalizzazione delle multinazionali alla localizzazione economica basata sulla minimizzazione dello sfruttamento di risorse naturali; il passaggio dal consumo illimitato a una cultura di conservazione, dalla monocultura gerarchica a culture inclusive basate sulla diversità e sui diritti della Madre Terra (Vandana Shiva, Fare pace con la Terra, Feltrinelli, 2012). (…)
Se esiste a breve una nuova speranza, più che nella capacità di reazione interna del sistema politico-partitico, sclerotizzato e in evidenza incapace di autoriforma, essa può prendere le mosse forse solo dal basso, come auspica Marco Revelli nell’intervista in questo volume, per disintossicarsi dalla «morfina tecnocratica». (…)
«Una lite scoppiata in Tunisia tra un venditore di frutta esasperato e una poliziotta si trasforma in una rivolta panarabica, così forte da portare alle dimissioni alcuni dittatori al potere da anni. La rivoluzione diventa un virus che si diffonde in tutto il bacino del Mediterraneo e minaccia di arrivare fino al cuore dell’Unione Europea: Bruxelles. Negli Usa il movimento Occupy Wall Street inizia con manifestazioni pacifiche a New York e ben presto si diffonde in centinaia di città nel Paese e nel mondo. La rivoluzione è rapida, il contagio rapidissimo; tutto succede alla velocità di Twitter»: così l’economista Loretta Napoleoni sintetizza gli avvenimenti salienti del 2011 (10 anni che hanno cambiato il mondo, Bruno Mondadori, 2012).
Davanti a questo scenario disastrosamente incipiente, davvero la salvezza pare possibile solo se crescono una consapevolezza e una capacità di mobilitazione, di nuova progettualità e di costruzione di alternative dal basso, dalla società, dai corpi intermedi, dal mondo del lavoro, dalle associazioni e dai movimenti. Come ha scritto Loretta Napoleoni: «In assenza di un punto di contatto concreto la “primavera araba” sarà con molta probabilità il preludio dell’autunno caldo europeo, e di un lungo inverno di crisi e crolli economici. Solo allora la voce della strada, quella che si è alzata dalle piazze spagnole e che da lì è arrivata fino in Israele e, ahimè, ha infuocato la Gran Bretagna, farà breccia nei parlamenti europei e piazza pulita di tutti i farabutti che vi hanno fatto parte. E non sarà tardi per dare inizio al futuro!» (Loretta Napoleoni, Il contagio, Rizzoli, 2011).
Aergio Segio è il coordinatore del Rapporto sui Diritti globali
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