Se la guerra è storicamente inscritta nel maschile resta essenziale moltiplicare i modi con i quali sgretolare il prototipo del “vero uomo”, audace, autosufficiente, vigile nel controllo delle emozioni, coriaceo all’empatia, senza tentennamenti. Per fortuna in ogni epoca e in ogni angolo del mondo ci sono i disertori, coloro che compiono un coraggioso e travagliato esodo da quel codice imperante. Quell’esodo implica una trasformazione profonda delle coscienze per imparare, ad esempio, ad amare tenendo sotto controllo l’istintualità al possesso, ma anche per riconoscere i germi del demone della guerra che si annidano nell’irrilevanza della vita di ogni giorno, nei gesti ordinari troppo spesso orientati da competizioni, privilegi presentati come diritti, arroccamenti. Quell’esodo, infine, ha bisogno della capacità di svelare quanto il codice dell’uomo vero si annidi ancora nell’organizzazione sociale e nella cultura progressista
1. L’idealtipo militare
Nel clima di apprensione, infausta, oscura, che stiamo vivendo in questi mesi, dove guerre si assommano a guerre, e temuti presagi di ordigni nucleari balenano sempre più martellanti nelle nostre menti, ho ripreso in mano il carteggio tra il filosofo ebreo tedesco Gunter Anders e Claude Eatherly, il maggiore dell’esercito Usa che partecipò alla missione del bombardamento di Hiroshima, colui che diede il segnale di via libera1. Anders fu profondamente colpito dalla tragedia esistenziale di Eatherly: era impazzito, quell’uomo, a causa dell’indicibile male commesso. Per di più, proprio per l’esser stato travolto dall’orrore compiuto, era stato profondamente stigmatizzato, deprivato, annientato dagli assetti militari del paese per cui aveva eseguito gli ordini2.
Nello scambio di lettere, si coglie la sollecitudine di un luminoso prendersi cura dell’ex maggiore; anche lui – scrive Anders – era una vittima di Hiroshima. Il filosofo dispiega una attenzione fraterna per quell’uomo che, dopo il gesto sterminatore, non era riuscito più a ritrovare la pace. I rimorsi di coscienza che lo abitavano vengono subdolamente interpretati dalle gerarchie militari come sintomi morbosi di una coscienza fragile, troppo fragile per un Uomo di carattere. Eatherly non avrebbe la colpa di aver causato una carneficina, ma quella di disarticolare l’idealtipo militare. A lui è interdetto il pentimento: “Il pentimento è stato la sua condanna”, gli scrive Anders. Non ci si poteva permettere che i modelli virili si sfaldassero per un deviante: doveva essere incasellato come caso psichiatrico, salvando il sistema assassino che di quell’anima lacerata era stata origine3. Al maggiore venivano contrapposti “eroi sorridenti”: come il compatriota Joe Stiborick, ex radarista sull’Enola Gay, che aveva dichiarato: “È stata solo una bomba un po’ più grossa delle altre”, o il presidente degli Usa, colui che decise di procedere: in un’intervista dichiarò di non sentire i minimi “pangs of conscience”4; come se solo la mancanza di rimorso fosse prova di innocenza5.
Se il vacillare di Eatherly, la sua progressiva frammentazione incrina i paradigmi virili imperanti nelle forze armate, anche tra i civili egli non fu meno pietra di scandalo. Doveva essere “isolato” in assoluto: sarà destituito di autorità anche nel suo impegno per il disarmo.
Il mio contributo all’argomento Genere/sesso e guerra rinviene in questo carteggio la possibilità di sviscerare la convergenza strutturale tra guerra e maschilità. Nell’epistolario si coglie infatti quanto l’identità maschile tipo, che al paradigma del guerriero si è ispirata per millenni, si incardini su un modello antropologico arcaico, ma vitale.
Eatherly, così come l’uomo effeminato, o l’ebreo6, o l’omosessuale “passivo” evocano fantasmi perturbanti che sgretolano il prototipo del vero uomo, audace, autosufficiente, vigile nel controllo delle emozioni, coriaceo all’empatia, incardinato sulla padronanza di sé, senza screpolature, inciampi, tentennamenti; modello incentrato sul codice d’onore: per non essere macchiato o vilipeso, l’onore patriarcale assoggetta tutta la famiglia/clan ai suoi dettami, con divieti e costrizioni, soprattutto sessuali, per le donne.
“Il concetto dell’onore è associato al coraggio o al sangue freddo.” “Il contrasto tra virilità e effeminatezza fu una costante nell’edificazione della maschilità moderna, [basata su] una militarizzazione della mascolinità”‘, osserva lo storico George L. Mosse.
2. Fuori la guerra degli uomini dalla storia
“Il movimento femminista contro guerra, violenza statale e lotta armata è estremamente importante. Lo abbiamo visto nei Balcani, in Turchia, Sudafrica o America Latina, dove ci sono movimenti enormi per la democrazia e contro la violenza. Ni Una Menos o le lotte indigene non sono coinvolte nella lotta armata, ma in mobilitazioni di massa che si battono per estendere la democrazia in tutta la popolazione. Nella ex Jugoslavia le «donne in nero» erano contro la violenza, tutta la violenza, serba o croata. Abbiamo molto da imparare dai movimenti femministi perché hanno riflettuto per decenni sulla violenza a ogni livello, venga essa da Stato, polizia o famiglia”8.
Sono parole recenti della filosofa ebrea Judith Butler: essenziali, incisive; precisano fra l’altro che le violenze provengono da “Stato, polizia o famiglia”. E si dovrebbe aggiungere: istituzioni religiose.
Perché mai le donne sono così sensibili a un ripudio della guerra? Perché “in quanto donne” possono rivendicare una parola contro? Non perché le donne siano essenzialmente (o per natura) miti. Piuttosto perché la guerra è storicamente inscritta nel maschile ed è prodotto degli uomini. Lo slogan “Fuori la guerra dalla storia” – che molti/e antimilitaristi/e, nonviolenti/e, pacifisti/e proclamano – è monco; manca di un elemento caratterizzante fondamentale. Se lo si tralascia, l’enunciato oscura la radice della guerra: l’ideologia patriarcale militarista. Lo slogan potrebbe essere riformulato: “fuori la guerra degli uomini dalla storia”.
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Raramente, troppo raramente, sento voci che leghino la guerra all'”istinto virile”, che considerino la stretta parentela che sussiste tra belligeranza e la millenaria cultura del dominio maschile; e si interroghino sulla sua responsabilità. I prodotti della cultura di un patriarcato millenario sono
certamente anche altro: opere di civiltà e saperi irrinunciabili. Certo non tutti gli uomini si ispirano ai valori che ho descritto. Ma non si negherà l’ideal tipo che è paradigma nella costruzione dell’identità maschile e che permea l’immaginario collettivo. Ci sono poi fortunatamente i disertori che hanno compiuto un coraggioso, travagliato esodo dal codice imperante. Ricordo ancora una volta le parole di uno di loro, un pastore, uomo consapevole, come lui si definisce: esordiva in un suo scritto con queste parole: “Nel mio percorso ho imparato che la violenza è costitutiva del genere maschile”9.
Farei un torto al/la lettore/lettrice se trascurassi10 quella che è una tragedia nella tragedia: gli stupri di guerra. Già in Esodo 3-2021 ho sviluppato questo tema; “Lo stupro di guerra – scrivevo – [si configura come] contesa tra combattenti maschi perpetrata sul terrore e annientamento di corpi di donne… [è] cifra e trofeo di un dominio biopolitico che, in scherno e umiliazione del nemico, conferma la legge patriarcale del possesso sulle proprie donne e del controllo patrilineare sulla discendenza”. Ma le crudeltà e le infamie non si fermano qui. “… la logica sessista vede tuttora nella vittima il «frutto vivente del disonore»; nella sua carne si deposita la vergogna di un crimine di cui lei – non gli aggressori – è resa colpevole”11. In molti paesi la morte civile o, a volte, la morte fisica sono il disumano destino della vittima, sia che il crimine sia avvenuto in guerra o durante altri contesti di ostilità o durante tempi di “pace”. “Sono andata all’ospedale per trovare una ragazza che era stata stuprata, ma nessuna ricoverata risultava aver subito violenze sessuali. Avevo altri nomi di donne violentate. Sono andata a cercare una di loro, a casa sua, ma non c’era più. Sepolta viva o uccisa dalla famiglia per salvare l’onore”12.
3. La lunga durata della metamorfosi intorno al ripudio della guerra
Un vero, serio, fecondo fronteggiamento della mentalità bellicista (che non genera solo guerra, ma un’ampia costellazione le si affianca: attacchi, attentati, conflitti armati, scontri, battaglie ecc.) deve indirizzarsi a una trasformazione profonda delle coscienze, che richiede necessariamente una prospettiva a lungo termine, con l’obiettivo (utopico, ma abbiamo bisogno di utopie) di sfociare in un ribaltamento di stili di vita. A Etty Hillesum, la scrittrice ebrea uccisa ad Auschwitz, devo questo convincimento. Nell’imperversare della Shoah, ella dilatava la sua coscienza con esiti sorprendenti e agiva come balsamo sulle ferite per chi le stava accanto. Colloquiando con un amico, diceva pressappoco così: contro l’odio di chi ci annienta, non serve la risposta reattiva, efficientista. Unica vera via, che va alla radice delle metastasi del male, è la metamorfosi delle coscienze. E il primo passo di tale mutamento si incentra nella capacità di amare tenendo sotto controllo l’istintualità al possesso. Altre pagine riprendono il tema, sigillato nelle parole: “Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato, e soprattutto che si lascia umiliare. Se manca il secondo e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria”13.
Ma un’altra pagina mi preme evocare per dare ancora più smalto a questa accensione dell’anima. “Mercoledì 23 dicembre ’42. Klaas, non si combina niente con l’odio… prendi quel nostro assistente… Odia i suoi persecutori con un odio giustificato. Ma anche lui è un uomo crudele. Sarebbe un capo
perfetto di un campo di concentramento… Vedi Klaas, quell’uomo era pieno di odio per quelli che potremo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui avrebbe potuto essere un perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi. Eppure mi faceva tanta pena… Vorrei tanto raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori; è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi”14. L’orizzonte cui si allude, nel lessico della filosofa Elena Pulcini, è una politica della cura, intesa nel suo significato alto e autorevole: una politica, ovvero gestione della polis, che abbia come obiettivo costitutivo l’incremento della coscienza, individuale e comunitaria, l’impegno pedagogico e politico alla formazione di uomini e donne maturi/e, responsabili, capaci alla fatica ma anche al guadagno dell’accettazione della dualità costitutiva del genere umano, dell’interdipendenza tra i viventi tutti, del sentire empatico, dell’agire nella reciprocità, nel dialogo autentico Io-Tu.
Il demone della guerra è molto più pervasivo, sfuggente, per certi versi conturbante, di quanto lo sia la guerra nella rappresentazione standard, per esempio nelle immagini televisive degli inviati di qualche TV. I suoi germi si adombrano in logiche di “difesa di sacri principi”: se snidati dai loro camuffamenti “civili”, svelano il volto dell’ hybris, quell’impulso alla prepotenza che già il mondo classico tematizzò. Le radici si inabissano nell’odio e nella vendetta. Ma quasi mai questi nomi sono riconosciuti come sentimenti che “mi riguardano”, come sorgente di nostri atti. Siamo ostaggi della paura di “guardarsi”, riconoscendo, con coscienza lucida, il torto di cui siamo stati attori. Esemplare a questo proposito è il noto racconto narrato nella Bibbia, dove Davide è indotto a riconoscere i suoi misfatti attraverso il raggiro maieutico cui il profeta Natan lo sottopone. Quest’ultimo, per un fine tutt’altro che ingenuo, racconta a Davide la vicenda di un crimine, che suona all’interlocutore del tutto sconosciuto. Ma poi il trasporto appassionato del re lo travolge al punto da inveire contro il malfattore di cui si narra, che merita, a suo dire, di essere punito. Chi è dunque quell’abietto? Colpo di scena: avviene l’agnizione. Natan gli risponde con fermezza: “Quell’uomo sei tu”. Davide si era macchiato di un grave crimine che poi aveva denegato: il prezzo era la profonda dissociazione da se stesso, ovvero l’eclisse del volto di Dio16.
I germi del demone della guerra si annidano nel subliminale, nell’irrilevanza della quotidianità, dei gesti semplici e ordinari: rivalità, competizioni, ostentazione di primazia, pretese di salvaguardare privilegi, presentati come “diritti”, arroccamenti presentati come sacrosante difese17, prevaricazioni a sé stessi irriconoscibili dall’amour del soi. Quando l’altra/o, nondimeno, si presenta con la sua soggettività inaggirabile, con la sua differenza, col suo volto irriducibile, il suo starci di fronte è vissuto allora come illegittima rottura di un ordine naturale, un torto ricevuto, per cui occorre annientarlo, contrattaccare e restaurare lo status precedente.
In un altro ambito che ci riguarda da vicino, qui e ora, quello dei/delle migranti, Alessandra Fussi ha osservato:
“Alla maggior parte dei greci non sfuggiva l’arbitrarietà e l’ingiustizia della schiavitù, tuttavia non si riusciva a immaginare un modo di vita alternativo. In modo analogo non è che noi oggi non ci rendiamo conto che condannare migliaia di migranti alla morte per annegamento o alle torture delle carceri libiche sia disumano e razzista. Ma non siamo disposti a mettere in discussione i privilegi che l’attuale regime di apartheid economico-politico, a livello internazionale, ci garantisce”18.
La cecità di fronte alle istanze di chi è figlia/o di un dio minore si annida anche nelle alte sfere dell’organizzazione sociale, nella cultura avveduta e progressista. Un solo esempio: nel dibattito alla Costituente sugli articoli sull’ordinamento familiare, Pietro Calamandrei, l’illustre padre costituente e nonché icona dell’antifascismo, si dichiarò contro l’uguaglianza dei coniugi. Sostenne che il primato del marito costituiva “un’esigenza di quell’unità della famiglia di questa società che, per poter vivere, ha bisogno di essere rappresentata e diretta da una sola persona”. E quella persona era, ancora una volta, di sesso maschile; che peraltro per lo più osannava l’ancillarità femminile, definendo la donna “sacerdotessa domestica dell’umanità”; colei che temprava l’istinto alla forza; ovvero, come ebbe a dire Auguste Comte, colei che “modificava con l’affetto il regno necessario della forza”20. Con interessanti eccezioni: nel cameratismo militare il contatto con il mondo femminile è interpretato anche come sottrazione di virilità 21, che non può essere scalfita ma preservata per l’onore guerriero.
Note
1) Il pilota di Hiroshima, ovvero: la coscienza al bando, Linea d’ombra editore, 1992.
2) Molte sono le risonanze con il caso Eichmann. La “banalità del male” e i “banali “condizionamenti che la cultura androcentrica
esercita sugli uomini dovrebbe prima o poi essere oggetto di cultura politica.
3) Occorrerebbe rispolverare la letteratura che negli anni ’60-70 tematizzò l’argomento istituzioni totali (celebre il testo Asylums di Goffman), elevandolo a questione politica.
4) pene di coscienza.
5) Il pilota di Hiroshima, cit., p. 32.
6) La riflessione sulla convergenza tra uomo effeminato e l’ebreo è di George L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile
nell’epoca moderna, Einaudi, 1997.
7) George L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, 1997, p. 21 e p. 59.
8) Judith Buffer: “Solo una democrazia radicale può porre fine alla violenza in Medio Oriente” intervista in il Manifesto,17 .10.2023.
9) Daniele Bouchard, “Eredità e responsabilità di un uomo consapevole e cristiano critico” in Non solo reato anche peccato, religioni e
violenza sulle donne, Effatà ed., 2018, p. 81.
10) Sono consapevole che l’argomento richiederebbe più spazio, di cui qui non dispongo.
11) Paola Cavallari, “Ish e Ishàh”, Esodo 3-2021, p. 10.
12) Giuliana Sgrena , citata da Codrignani in L’amore ordinato, Effatà, 2005, p. 84.
13) Etty Hillesum, Diario integrale, 1941-1942, Adelphi, 2012, p. 637.
14) Ibid., pp. 768-770.
15) Inutile ripetere che tale formazione non può prescindere dai saperi/pratiche delle donne.
16) 2Sam 12.
17) Ricordiamo una per tutte: la celebre “difesa della razza” di italica memoria.
18) Valentina Pazè, Libertà in vendita, Bollati Boringhieri, 2023, p. 141.
19) Citato da Alessandro Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni cinquanta, Carocci ed., 2006, p. 77.
20) Ibid., p. 58.
21) Alessandro Bellassai, L’invenzione della virilità, Carocci editore, 2011, p. 80
Articolo pubblicato anche in “Esodo” n. 4 dell’ottobre-dicembre 2023
Dino Gerardi dice
C’è un mio commento al post di Paolo Cacciari in cui il maschile (Yang) e il femminile (Yin) sono evocati con riferimento alla sfera economica (e quindi sociale).