A fine agosto la tv satellitare Occupy Brooklyn ha intervistato Norman Finkelstein, dissidente politico e studioso di fama mondiale del conflitto israelo-palestinese (il suo «Immagine e realtà del conflitto israelo-palestinese», secondo Noam Chomsky è il miglior saggio mai scritto sul’argomento), per ragionare di Gandhi, del movimento Occupy, della crisi e di molto altro. Di seguito, alcuni stralci delle risposte di Finkelstein; la trascrizione completa della lunga conversazione è stata pubblicata da Occupywallstreet.net e rilanciata da Z net Italy.
(…) Si presume che la nonviolenza sia piuttosto semplice: non si usa la violenza. E Gandhi sembra, almeno superficialmente, una persona piuttosto semplice. (…) Ma in realtà, con un minimo di riflessione, la cosa non è così semplice (…) Ho cominciato a leggere la sua opera completa. È stata un’impresa più formidabile di quanto mi aspettassi all’inizio. La sua opera completa arriva a qualcosa come 98 volumi. Ciascun volume ha circa 500 pagine. (…) Quello che ha da dire è parecchio complicato, anche se non lo esprime mai chiaramente.
(…) Vengo da una tradizione politica, risalgo agli anni ’70 e mi considero parte di quella tradizione politica molto più lunga che risale a Marx, poi alla seconda internazionale, poi all’internazionale comunista, alla terza internazionale. Dunque tutta quella tradizione marxista (…) Avevamo la scienza dalla nostra parte. E si supponeva che noi uscissimo a illuminare le masse ignoranti che soffrivano di ogni genere di afflizioni. Eravamo usi chiamare la sofferenza per tutte queste afflizioni falsa coscienza o feticismo dei consumi.E si supponeva che noi portassimo loro la verità. (…) Gandhi aveva una visione molto diversa della politica. Per Gandhi la politica non era illuminare le masse in sé, ma indurle ad agire riguardo a ciò che già sapevano essere sbagliato.Che una persona tipica, tu, io, dal momento in cui ci si alza al mattino alla fine della giornata guardiamo con occhio critico quel che ci circonda. Si dice, quello è sbagliato, quello è scorretto, quello è ingiusto, quella cosa non dovrebbe essere così. Abbiamo una litania intera d’ingiustizie che osserviamo ed esprimiamo un qualche genere di sdegno o d’indignazione interiore nel corso di ciascuna giornata. E la maggior parte dell’indignazione è reale, è legittima. Non si tratta di fantasticherie. Ma per Gandhi la sfida consisteva non nel portare illuminazione riguardo all’ingiustizia del mondo. La gente conosce già le ingiustizie. Il problema è farla agire riguardo a ciò che già sa che è sbagliato. E lo scopo della politica, in particolare della disobbedienza civile nonviolenta, era per Gandhi che si presumeva dovesse agire da stimolante per pungolare la gente, pungolare gli spettatori indignati ma ancora passivi, spingerli all’azione. Far sì che facciano qualcosa a proposito di ciò che già sanno essere sbagliato.
E da questo punto di vista il movimento Occupy è stato in molti modi la quintessenza di ciò che Gandhi aveva in mente. Prima di tutto lo slogan che ha catturato l’immaginazione delle masse, «Siamo il 99%». Beh, non c’era bisogno di illuminare la gente sulle ingiustizie del sistema capitalistico, anche se non lo chiamano sistema capitalistico. Non c’era bisogno di illuminarle sulle ingiustizie del sistema. C’era una diffusa opinione comune, specialmente negli ultimi dieci anni, che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in questo sistema. Che c’è un pugno di persone che arraffa una quantità enorme di denaro. E poi ci sono le masse della gente che non solo non se la passano bene, ma se la passano peggio che mai. (…) E per questo che ritengo che lo slogan abbia avuto tanto successo. Esso sintetizzava in poche parole un sentimento diffuso che arrivava al cuore, al centro dell’ingiustizia del sistema (…)
La seconda cosa a proposito del movimento Occupy è stata che le sue tattiche sono state inizialmente mirate, e con successo, a spingere la gente ad agire. Nel caso, per esempio, del movimento per i diritti civili, un momento centrale, specialmente per i giovani neri del paese, sono state le scene dei negozi Woolworth in cui le persone si sedevano al bancone e finivano picchiate dai razzisti bianchi. Molti giovani neri avevano visto quelle scene e si erano detti «… ora è arrivato il momento di smetterla di limitarsi alle parole e di cominciare a fare qualcosa. Io sono uno di loro». E così questa è stata una tipica tattica gandhiana.(…) Lo scopo principale della tattica consisteva nel galvanizzare, nello spingere all’azione, chiunque pensasse le stesse cose di quelle persone sedute al bancone e che però non faceva nulla. E se si ascoltano i testimoni dell’era dei diritti civili, molti di loro sono stati galvanizzati ad agire da cose di questo genere. E lo stesso avviene con il 99% (…). La cosa importante, come ho detto a proposito di Gandhi, non era aprire gli occhi alla gente (…)
Come ogni buon movimento, il movimento Occupy deve attuare una seria autocritica e considerare ciò che ha fatto di giusto e ciò che ha fatto di sbagliato. A questo punto è quasi scomparso. E questo è semplicemente un fatto. (…) Cos’è successo? Cosa è andato storto? E io penso che ci siano due cose, parlando strettamente da esterno, e devo sempre premettere questo avvertimento, due cose sembrano essere state sbagliate.
Uno: la grande abilità di Gandhi era come organizzatore. Aveva radici molto profonde nelle masse indiane. Non parlava dall’esterno. Era tra loro. Viveva come loro. Aveva radici profonde ed era un organizzatore attento, metodico fino alla noia, di ogni dettaglio del suo movimento. La maggior parte della sua opera completa è costituita prevalentemente da lettere. E lui controlla dove va ogni centesimo. Sono soldi della gente. Niente deve essere sprecato. Niente deve essere dilapidato, per non parlare del fatto che nessuno deve essere ingannato. Nessuno la farà franca con il furto. Perciò la prima regola e che devi scavare radici molto profonde nella tua gente. Non sono sicuro di quanto il movimento Occupy sia riuscito inizialmente a fare questo. (…) Sembrava esserci una sensazione di «Noi, l’accampamento, Noi contro loro. Cioè il mondo esterno. Noi eravamo gli illuminati circondati dalla società corrotta». Non è così che si costruisce un movimento. Deve essere in mezzo alla gente. Il momento in cui diventa «noi contro loro», si diventa bersagli facili dei bulldozer, perché non interessa a nessuno.
La seconda cosa che tutti dicevano, Cockburn la definisce qualcosa come l’incessante concionare. Che il movimento Occupy non è mai andato altre i comizi per arrivare a «dove sta la sostanza?». La capacità di non limitarsi soltanto a sintetizzare uno slogan, cosa che è stata fatta brillantemente. Ma quando dobbiamo passare dal sintetizzare uno slogan a sintetizzare una rivendicazione, o una serie di rivendicazioni con gli stessi criteri. Dov’è la coscienza popolare? Dov’è l’estremo cui puoi giungere con loro o con la loro consapevolezza incipiente? Quali sono le loro rivendicazioni. Ovviamente una rivendicazione come nazionalizzare le banche no, la gente era ben lontana da questo. Ma rivendicazioni come … se ci fossero quattro rivendicazioni. Uno: una moratoria dei prestiti agli studenti. Due: un programma di lavori pubblici. Tre: un forte aumento delle tasse ai ricchi. E, quattro, qualcosa riguardo alla crisi dei muti che colpisce così duramente così tanta gente. Se avessero sintetizzato quattro semplici rivendicazioni e lavorato partendo da lì, io penso che ci sarebbero state delle prospettive. (…) Esattamente perché sia successo io non lo so. Non sono all’interno. Non so dire esattamente perché non sia successo. Ma penso che il fattore meno significativo sia stata la repressione della polizia. La repressione poliziesca è stata relativamente minima. E non era necessario che fosse più che minima. Perché hanno valutato saggiamente che il momento per attaccare era quello. Doveva funzionare e ha funzionato. Il movimento è scomparso.
(…) La politica consiste nel mettere in moto la gente. Questa è la nostra politica. Quando si è in una posizione di potere ci sono forze repressive, ci sono forze economiche, si dispone di un mucchio di leve. Quando si è in un movimento popolare si ha una cosa sola. La risorsa è la gente. E si deve avere a che fare con la gente vera. Non la gente che ci si immagina. Non la gente come si desidererebbe che fosse. Ma la gente come esiste concretamente là fuori nel mondo reale. Perciò bisogna stare tra la gente. Ascoltare quello che dice, sapere quello che pensa e allora si sarà in grado di immaginare quale è una rivendicazione realistica e quale non lo è (…)
Gandhi è vissuto negli anni ’30. Negli anni ’30 era in uso quel termine, Weltanschauung, visione del mondo. E la visione del mondo per quelli che stavano a sinistra, la visione del mondo era quella socialista. La tendenza più vasta era una qualche versione del socialismo marxista. Ovviamente c’erano altre tendenze: tendenze anarchiche, eccetera. Ma prevalentemente si trattava di socialismo marxista. E così era impossibile essere attivi in un ambiente politico senza usare, o senza riferirsi in una certa misura, o usare il vocabolario del socialismo di Marx. Quella era la visione del mondo dell’epoca. La Weltanschauung di quel tempo. Non lo è più. Intendo dire che dobbiamo essere onesti al riguardo. (…) Questo significa che dobbiamo cominciare tutti a usare il linguaggio dei messaggini? Spero di no. Significa che dobbiamo tutti cominciare a usare il linguaggio del rap? Spero di no. Ma dobbiamo trovare un linguaggio che arrivi alla gente. E il linguaggio del marxismo in primo luogo non arriva alla gente e, in secondo, non sembra funzionare più.
(…) Dobbiamo prendere la gente per com’è e non per come vorremmo che fosse. E molta gente è colpita dalla crisi economica. Non c’è dubbio al riguardo. C’è un’intera generazione che fondamentalmente è andata perduta. Conosco molte persone, giovani tra il venti e i trent’anni, che non hanno mai avuto un lavoro. Conosco molte persone così. La conseguenza è che molti di loro vanno avanti a farmaci… per la depressione. Molti di loro sono costretti a vivere in casa. Che non è la cosa peggiore del mondo. Ma può essere un’esperienza che riduce a un livello infantile se non hai il tuo reddito personale. (…) Non hai il tuo personale assegno paga, il tuo lavoro, il tuo senso di dignità personale. Questi ragazzi vivono in casa perché non hanno un lavoro. Non possono permettersi di vivere per conto proprio. Così c’è un’intera generazione alla quale è stato inferto un notevole danno (…).
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