Quando cominciarono a scomparire come l’oasi scompare dai miraggi, a dileguarsi senza un’ultima parola, reggevano in mano brandelli di cose che amavano… Ne parla così, nei versi di “Desaparecidos“, una delle poesie simbolo delle sofferenze umane più atroci in América Latina, Mario Benedetti. In Europa, salvo rare quanto tremende eccezioni, siamo abituati a considerarlo un orrore lontano. Riguarda altri mondi, per lo più associati ai pañuelos delle madri argentine, le”pazze” della Plaza de Mayo, e alle dittature dei Videla e dei Pinochet. Sarebbe ora, invece, di coniugare diversamente quel verbo, da “siamo” a “eravamo” abituati, perché il grido delle madri tunisine, nei loro viaggi in Italia e in Europa alla disperata ricerca dei figli migranti fatti scomparire nel Mediterraneo, non lo ha visto e ascoltato solo chi, come tutti i governi europei, sceglie di essere cieco e sordo di fronte a tanto dolore. La coraggiosa testimonianza di María Herrera Magdaleno, raccontata in modo asciutto quanto magistrale da Maria González Reyes su Ctxt. Contesto y Acción, prezioso media web spagnolo, ci consegna il grido della madre di quattro figli fatti scomparire in un altro Paese, quello che forse ha il triste privilegio di occupare il primo gradino sul podio di questo genere di atrocità: il Messico. “Non abbiamo altra scelta che alzare la voce e raccontare cosa sta succedendo”, dice Maria spiegando con parole semplici diverse cose che potrebbero sembrare inspiegabili o astratte a chi non vive in modo diretto certe tragedie sulla propria pelle: perché tanta ostinazione nel trovare un corpo e una tomba su cui piangere? Che tipo di originale legame nasce tra le persone che cercano per decenni i propri familiari? Come mai in Messico sono nati più di 200 gruppi, collegati in rete tra loro, che combattono la stessa lotta da più di 10 anni? Perché tutte /i cercano tutte/i e perché Maria parla di “sorelle”? E perché non vede i suoi figli come vittime? “Vanno in un burrone per cercare 8 persone e ne compaiono 47, 103, 146…”. Sì, sembra assurdo ma può essere anche un solo corpo ritrovato a portare alla luce altri cento assassinii nascosti. Quel corpo, allora, dice Maria, diventa un agente “attivo” nella lotta dei vivi per la giustizia e la verità. Nel dicembre 2010, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito il 30 agosto come Giornata internazionale dei Desaparecidos. Secondo dati ufficiali, dal 2007, in Messico sono state fatte scomparire ben più di 25mila persone, sarebbero oltre 100mila da quando, nel 1964, è stato istituito un registro apposito, ma nel mondo intero, anche in questo momento, ci sono migliaia e migliaia di persone condannate alla tortura, a esecuzioni sommarie e all’oblio in qualche carcere segreto. Non sono pochi i governi che, nella migliore delle ipotesi, si limitano a ostacolare o depistare chi le sta cercando. Sarebbe assai salutare non ricordarsene soltanto alla fine di agosto

Il suo nome è María Herrera Magdaleno. Ha avuto dieci figli e una figlia. “Solo otto di loro hanno vissuto ma quattro sono desaparecidos” Ha un fazzoletto di stoffa in mano. Ci sono momenti, quando parla, in cui si emoziona.
Come tecnica di presentazione, ognuno deve raccontare una sua particolarità. Serve per cominciare a conoscersi nell’incontro tra le persone della Caravana Abriendo Fronteras alla quale María è stata invitata per dare una testimonianza. Lei dice che la sua principale particolarità è che le piace essere abbracciata. Poi racconta che il suo dolore per la scomparsa dei figli in Messico l’ha portata ad abbracciare altre madri che si trovavano nella stessa situazione. Che quello è stato un modo per aprire il dolore e la rabbia degna nel poter andare a cercare i suoi cari.
Nessuna cerca solamente i suoi, tutte cercano tutti. María dice che scavare per trovarli è un modo per lasciare un mondo migliore alle generazioni future. Dice che le persone fatte scomparire non sono vittime, sono attivisti per il cambiamento.
“Io sono realista”, dice, “ormai li cerco solo sottoterra”. E prosegue: “All’inizio pensavo che quello che era successo ai miei figli fosse accaduto per derubarli, ma quando ho visto quante persone scomparivano, da uno Stato all’altro del Messico, ho capito che si trattava di un’altra cosa. Abbiamo cominciato a unirci e ad organizzarci. Tutte le nostre famiglie sanno che il lutto non può essere elaborato così, senza il corpo”. Fa una pausa. “Quando troviamo dei resti umani sotto terra, sappiamo di aver trovato un tesoro, ma quando ritroviamo qualcuno vivo, cosa che non accade quasi mai, le parole non possono descrivere quel che si prova. Celebriamo ogni successo come una vittoria collettiva, è ciò che ci incoraggia a non arrenderci”.

María sorride se il tuo sguardo incontra il suo. Lo fa con quel sorriso che ti brucia dentro quando conosci la sua storia. La tristezza non le si è incollata. Dice che quella è un’attitudine vitale comune alle altre mamme. Che insieme riescono a resistere alla tristezza in un modo che non riuscirebbero mai a raggiungere separatamente.
“Hanno ucciso anche tante madri che erano in cerca di familiari, sono state assassinate con crudeltà. In realtà tutte le persone che cercano, in un modo o nell’altro, sanno che possono incontrare una morte violenta. Negli ultimi due anni hanno assassinato sei compagne”. Ecco perché María vive da anni con una scorta. “All’inizio non volevo, non mi fidavo della polizia perché era stata la polizia a far sparire i miei figli, poi non ho avuto altra scelta. Le peggiori minacce che mi hanno fatto sono quelle in cui dicevano che prenderanno gli altri miei figli”. Respira, beve un po’ d’acqua. “Il rischio maggiore che corriamo è nelle ricerche”.
María racconta che i suoi figli sono scomparsi a due a due. Con i primi due si sono organizzati in famiglia per andare a cercarli. “Tutto inizia con una telefonata in cui qualcuno ti dice: non sono tornati a casa. Passano le ore e qualcosa nel tuo cuore di madre ti dice chiaramente che è successo qualcosa di brutto“.
Il primo impulso dei familiari è sempre quello di cercare. Dura per anni perché non si trovano. Hai bisogno anche di soldi e questo rende tutto più difficile. 28 agosto 2008. 22 settembre 2010. Ci sono delle date che sono rimaste tatuate sulla pelle.
Nelle ricerche hanno incontrato parenti di altri scomparsi che facevano la stessa cosa: provare a trovare i resti per dargli una degna sepoltura e lasciarli riposare in pace. Hanno cominciato ad organizzarsi perché insieme il difficile (il dolore della perdita, l’incertezza, la paura…) fosse più sopportabile.
Hanno formato due gruppi, quelli che cercavano persone vive e quelli che cercavano persone morte. Si cerca in modo differente sopra o sotto terra. Ci sono donne che non vengono uccise, per esempio, vengono utilizzate nel traffico di esseri umani.

Adesso le persone che cercano i familiari sono diventate una rete nazionale di collettivi che si estende per tutto il Messico: Familiares en Búsqueda. Si scambiano informazioni, messaggi su dove vengono ritrovati corpi. Ci si dà un sostegno dal punto di vista emotivo. Sono quasi duecento i gruppi che combattono la stessa lotta da più di dieci anni. Maria accompagna la formazione di nuovi gruppi. “La cosa bella della ricerca è il sentirsi sorelle, con uno stesso obiettivo”.
“Solo da madre a madre si ccomprende la realtà di questo problema, nessuno ti può capire come un’altra madre. Sorgono sempre delle domande: da quanto tempo sarebbe stato lì?, gli hanno fatto molto male prima di morire?, quanto ha sofferto?… La notte è quando si sta peggio, pensare che sono ancora vivi e stanno soffrendo è insopportabile. Tutte noi mamme abbiamo le stesse domande e lo stesso coraggio per ritrovare i nostri figli e le nostre figlie”. Fa una pausa. “Gli uomini si stancano più velocemente perché non creano legami così forti come noi, ecco perché ci sono più donne nel movimento”.
Vanno anche nelle scuole per fare degli incontri, per prevenire, per raccontare.
Esigono che i responsabili della scomparsa aiutino nella ricerca.
“Con il tempo abbiamo visto che il nostro dolore è uguale a quello di altre mamme che hanno familiari fatti scomparire altrove”. Le Madres de la Plaza de Mayo argentine, le madri le cui figlie e figli sono scomparsi nel tentativo di attraversare le frontiere. “Per loro è ancora più dura, i figli sono dall’altra parte di un confine che non possono oltrepassare per andare a cercarli.“
Seduta in un parco, sotto un gigantesco ficus, dopo aver mangiato una insalata e qualche frutto, Maria continua a chiacchierare. Al mattino ha parlato con un folto gruppo di persone. Nelle mani teneva le foto dei suoi figli e quella di un altro ricercatore morto di recente. Quello di adesso è un incontro più intimo. È seduta su una panchina realizzata con un mosaico di mattonelle bianche e blu. C’è un po’ di brezza nonostante il caldo. Dice che ci sono cose che osa raccontare solo nei momenti di maggior intimità.
“Ammucchiano i corpi nelle fosse comuni, proprio mentre cadono. A volte qualcuno infrange la regola del silenzio e l’informazione viene fuori. Una volta a una famiglia fu detto dove si trovava il corpo del figlio accanto ad altre sette persone. Alla fine ne tolsero 142. L’ultimo corpo era quello del figlio. Quel ragazzo è servito a far uscire la verità su tutti gli altri”.
“Se fornisci informazioni sulle persone scomparse in Messico, rischi la vita.” Per questo motivo hanno pensato di mettere delle “cassette postali della pace” nelle chiese che lo consentono. Ci sono persone che mettono dentro messaggi anonimi con le informazioni e con l’indicazione di dove si trova una fossa. “In realtà la gente della zona sa dove sono stati sepolti o se c’è stato un massacro”.

María ha raccontato di informazioni concrete che erano state fornite per localizzare le fosse, perché ci sono persone che, nonostante tutto, non riescono a restar zitte. Informazioni che però è meglio non lasciare per iscritto. Al di sopra della paura, ci sono persone che rompono il silenzio e parlano.
“Le prove sono ovunque, basta volerle trovare.” La pioggia aiuta, a volte seppelliscono le persone quasi in superficie, per la fretta o perché i corpi sono tanti e dentro tutti non ci stanno. L’acqua porta via la terra e le persone appaiono.
Per trovarle si cerca anche di instaurare un dialogo con i funzionari governativi. “Non siamo di fronte alla criminalità organizzata ma piuttosto alla criminalità istituzionalizzata. Il governo non andrà a cercare perché se cerca coloro che hanno causato le morti troverebbe se stesso. Sappiamo che molte volte il luogo in cui si denuncia la scomparsa è lo stesso luogo in cui ci sono persone coinvolte”.
“Abbiamo dovuto imparare i termini usati dalle istituzioni. Noi familiari siamo quelli che sanno di più su tutto questo, abbiamo imparato molto, le nuove famiglie che arrivano fanno le prime pratiche che il governo chiede loro molto più velocemente di prima. Sappiamo già come velocizzare, cosa chiedere, come chiederlo”.
Fa una pausa, María, e parla con indistruttibile determinazione. “Diciamo loro che seduti dietro le scrivanie non troveranno i nostri figli”.
“Spesso i funzionari governativi ci dicono che non c’è nulla nel luogo dove qualcuno ci ha detto che c’è una fossa e non è vero. Una volta è capitato che una donna del gruppo ha scavato nel terreno con un bastone e ha tirato fuori una mandibola. Nello stesso luogo loro avevano assicurato di non aver trovato nulla. Un’altra volta, mentre attraversavo un giardino, è accaduta la stessa cosa. Abbiamo trovato pile di vestiti, pannolini, biberon e giocattoli. Sapete cosa significa. In una delle aree di ricerca c’era un forno. Là hanno bruciato delle persone. Sui muri le vittime avevano tentato di scrivere cose con il sangue, volevano lasciare una testimonianza dell’orrore a cui venivano sottoposti. La gente dei vicini frutteti aveva raccontato di grida di dolore indescrivibili. Siamo tornati cinque volte in quel posto, ogni volta abbiamo sempre trovato resti umani. Anche ossa di bambini e neonati, rapivano intere famiglie”.
I familiari che cercano persone fatte scomparire dicono ai funzionari: mettiti al mio posto, immagina che fosse tua figlia o tuo figlio, oppure tua sorella. Gli dicono che se non cambiamo questa situazione di violenza, anche i loro parenti, un giorno, potrebbero scomparire. “Parlo loro a volte piangendo, ma sempre con coraggio. Le istituzioni non aiutano, ma ci sono persone al loro interno che invece quando riesci a instaurare un dialogo, quando riescono a capirti, allora ti aiutano”.
La voce di María si spezza più volte. E ogni volta lei trova la forza di riprendere a parlare.
“Siamo riusciti a restituire tre persone alle loro famiglie”. Fa una pausa, sembra che la sua mente torni a quei momenti. “Quando vengono ritrovati i resti si prova un sentimento di dolore e di gioia allo stesso tempo. Ci abbracciamo. La prima cosa che pensi è che potrebbe essere tuo figlio o tua figlia. Se riesci a conoscere l’identità di chi è stato trovato è bellissimo e, insieme, molto doloroso”.

Nel parco, mentre Maria sta raccontando, si accende una lite tra due ragazzi. Lei si alza, con i suoi 75 anni, per aiutare a separarli. Poi racconta che al suo paese la cercavano sempre quando c’era gente che litigava. Lei sapeva come calmarli. E così è. Parla con uno dei ragazzi e quello si calma. “Mia madre cantava in chiesa e ci chiedeva di portare tè e cibo nelle altre case che ne erano sprovviste. È vedendo quelle case che ho imparato”.
Il sole sta passando sopra il ficus. Maria sa parlare molto bene. Il gruppo l’ascolta come ipnotizzato attorno al fuoco.
“Non abbiamo altra scelta che alzare la voce e raccontare cosa sta succedendo”. La loro organizzazione continua a crescere perché continuano a uccidere. Vanno in un burrone per cercare otto persone e ne compaiono 47, 103, 146. Sono sempre più di quanto sembrava all’inizio.
“Non voglio morire senza consegnare ai miei nipoti ciò che resta dei miei figli. Non li porto nelle ricerche, provano molta rabbia e risentimento e sono già molto danneggiati dalla scomparsa dei genitori. Non voglio che si facciano più male.” Fa una pausa. “Un giorno mi hanno detto che da grandi vogliono fare i poliziotti. Mi sono preoccupata, ma poi mi hanno fatto capire che volevano fare i poliziotti non per uccidere, ma per andare a cercare i genitori, per trovarli. Sono in un’altra logica, non è quella della vendetta”.
María fa scorrere il filo delle storie come si fa con il filo da cucito che la ha aiutata a guadagnarsi da vivere. Ha iniziato confezionando vestiti per i figli e poi ha continuato a cucire per il vicinato. Tra un racconto e l’altro, fa perfino qualche battuta.
“Quello di cui stiamo parlando è un problema mondiale e la soluzione deve essere mondiale. I miei figli non sono stati fatti scomparire perché sono emigrati, ma quando mi trovo in altri luoghi di massacro come a Melilla, il dolore per i miei figli rivive. Dobbiamo alzare la voce per coloro che non vengono ascoltati”.

Un altro giorno, in un altro luogo, c’è ancora un cerchio di persone che la ascolta. “Voglio che nel mio Paese si sappia che ero qui e che ho gridato forte”.
Ci chiede di suonare la canzone Las buscadoras . Canta mentre piange, e dice che piangere le dà sollievo.
Dove c’è abuso bisogna mettere diritti. Dove le persone camminano sul filo spinato è necessario porre fine alla clandestinità del percorso. C’è brutalità ma c’è resistenza. C’è impotenza ma c’è dignità. Ci sono molte cose che devono essere dissotterrate oltre ai corpi.
María e le donne come lei sono quelle che sostengono la memoria di chi non c’è più. Quelle che sanno che non c’è altro cammino che continuare a cercare modi per non arrendersi.
“Il tempo che mi resta da vivere lo passerò a cercare loro. Se li trovo prima di morire, mi riunirò a loro per qualche giorno e darò loro una sepoltura degna. Poi continuerò a cercare i figli e le figlie di altre madri finché non li troveremo tutti”.
Fonte e versione originale in Ctxt
Traduzione per Comune-info: marco calabria
grazie per queste testimonianze che grondano verità, lacrime e fortezza che solo le madri riescono ad avere sino in fondo