La parola “partecipazione”, sfoggiata in tutti i programmi elettorali degli attuali candidati sindaco a Roma, rivela un deviato tentativo di sanare la crisi di legittimazione, che investe l’ambito della politica – attestata almeno dai dati sull’astensionismo dilagante, che si profila come protagonista di primo piano nei risultati delle imminenti elezioni. Un astensionismo che è il prodotto dello scarto tra l’esigenza di partecipazione da parte dei cittadini e la mancata corrispondenza nelle alternative dei candidati. Eppure basterebbe risalire (o ridiscendere) alla radice del termine “partecipare” per capirne la portata: composto del termine latino partĭceps-cĭpis, partecipe, formato da pars (parte) e capere (prendere) designa l’atto di prender parte – non una parte di qualcosa, che indicherebbe un’appropriazione soggettiva e dunque privata, ma piuttosto prender parte di qualcosa, ossia il soggetto in quanto annesso alla sua comunità. In altri termini, la partecipazione politica significa l’atto di prendersi cura della cosa pubblica.
Nel panorama romano, la rete “Roma Non Si Vende” è una delle esperienze che più si avvale di questa indicazione originaria del termine partecipazione, per farne strumento di ricostruzione del tessuto politico e sociale della città. Nata a seguito delle azioni repressive della giunta Marino prima, e del governo commissariale di Tronca poi, la rete raccoglie una grande molteplicità di esperienze che da anni vedono cittadini protagonisti: associazioni, spazi sociali, comitati di quartiere, centri culturali.
Lo scorso 19 marzo un corteo di oltre ventimila persone ne ha sancito la portata, cui è seguita la stesura (tramite il meccanismo assembleare) di una Carta dei Diritti di Roma Comune: tra i numerosi temi, quelli del rifiuto del debito, del riconoscimento dei beni comuni urbani, del diritto alla salute e alla cura.
Tra le intenzioni della Carta vi è quella di oltrepassare l’attuale dibattito politico, in gran parte ripiegato all’interno della dicotomia legalità–illegalità, che lascia fuori ogni prospettiva di autentica partecipazione della cittadinanza alla sfera politica e ai processi decisionali. A questo proposito è stata inaugurata una piattaforma chiamata DecideRoma che vuole essere uno strumento di autogoverno dal basso, per dare ai cittadini la possibilità di incidere politicamente e di (ri)acquisire sovranità. Una pratica, quest’ultima, che ha innanzitutto una declinazione in senso spaziale: la ricostruzione di un tessuto politico si attua a partire da quella riappropriazione dei luoghi che dovrebbero avere una funzione civica. L’accelerazione della dismissione del patrimonio pubblico, che ha subito una privatizzazione senza scrupoli per farne cassa, va esattamente nella direzione opposta: basti pensare all’elenco degli oltre ottocento beni di proprietà comunale, attualmente toccati da una delibera (la 140/15) che ne prevede la rimessa a bando a prezzi di mercato. (mappa degli sgombri).
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Sabato 14 maggio, alle ore 11, in Piazza dell’Immacolata (San Lorenzo) è indetta una grande assemblea pubblica a cui sono invitati al confronto alcuni candidati sindaco – con l’intenzione di indicargli quella moltitudine di spazi, movimenti, comitati che già esistono e operano per garantire quel diritto alla città – veri e propri esempi di pratiche virtuose da tutelare e non certo da ostacolare.
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