Che rapporto c’è tra femminismo e nonviolenza? Quali sono state le interpretazioni femministe delle opere dei “maestri della nonviolenza” e quali le critiche ai movimenti diretti dagli uomini? Con quali argomentazioni le femministe hanno criticato la teoria della guerra giusta? E ancora, perché il pensiero femminista sulla nonviolenza è stato sottovalutato o taciuto? Le pagine che seguono ripercorrono a grandi linee solo alcune delle fasi cruciali della riflessione femminista sulla nonviolenza, un patrimonio di idee e di esperienze da cui trarre ispirazione nel nostro presente in cui guerre efferate stanno stroncando centinaia di migliaia di vite umane e distruggendo la natura, in cui la minaccia nucleare non è mai stata tanto reale, il militarismo estende la sua influenza in ogni aspetto della vita e la retorica della guerra giusta è pervasiva e divide profondamente anche il mondo femminista. Il principio dell’uccisione difensiva, infatti, è stato sostenuto dalle femministe ucraine e da coloro che le sostengono, come le stesse femministe russe che, pur essendo state le protagoniste indiscusse della protesta contro la guerra, hanno rivendicato il diritto dell’Ucraina alla difesa armata e nelle loro dichiarazioni hanno screditato il pacifismo come “non consapevole”, “astratto” e “irresponsabile”1.
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di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
Dare vita storica al contributo femminista alla nonviolenza
L’attivismo delle donne nelle proteste nonviolente, così come il loro contributo teorico, sono stati a lungo invisibili. I testi classici su questi temi hanno privilegiato gli attori maschili e le azioni dei leader carismatici trascurando o menzionando di sfuggita il contributo delle donne2.
Nei movimenti per la pace e la nonviolenza la leadership femminile è stata scoraggiata e le donne, considerate prive dell’esperienza e dell’autorità necessaria per guidare un movimento, hanno dovuto lottare costantemente per ottenere rispetto e riconoscimento. Il noto manifesto del 1968 per l’obiezione alla guerra del Vietnam in cui appariva lo slogan: “Le ragazze dicono sì agli uomini che dicono no” ben esemplifica il clima sessista che regnava in quei movimenti.
A partire dagli anni Settanta e Ottanta sono state le studiose femministe a portare alla luce episodi di disobbedienza civile e di protesta nonviolenta promossi e guidati dalle donne e a tracciare profili di pensatrici e attiviste. “C’è potere in queste storie e c’è potere nel ricordarle”, ha scritto Pam McAllister, curatrice di due antologie apparse rispettivamente nel 1982 e nel 1988: Reweaving the Web of Life e You Can’t Kill the Spirit. In quest’ultima opera McAllister illustrava 150 casi di azioni nonviolente in cui le donne erano state le protagoniste indiscusse in varie parti del mondo, attiviste “che hanno creato un laboratorio globale in cui la teoria della nonviolenza è stata costantemente messa alla prova e trasformata” (McAllister 1988, p.11). Tra i testi raccolti alcuni risalivano alle radici di questo laboratorio.
Radici
Benché le connessioni tra femminismo e nonviolenza abbiano origini antiche, solo nel XIX secolo si espressero in forme di attivismo sociale. Il movimento abolizionista americano, sorto all’inizio degli anni Trenta, fu uno dei primi movimenti ad adottare tattiche di lotta nonviolenta; le donne, in particolare quacchere, furono le più attive e le più radicali (Ginzburg Migliorino 2002). L’etica universalistica del credo quacchero, fondata sull’idea della sacralità e dell’unità della vita e del valore della nonviolenza, considerava la guerra una sciagura per l’umanità e la Terra.
Con il loro attivismo, le abolizioniste (Lydia Maria Child, Abby Kelley, Elizabeth Cady Stanton) intendevano diffondere la consapevolezza che le strutture oppressive della società erano la causa e la conseguenza dell’esclusione delle donne dalla sfera politica e della loro emarginazione sociale e che schiavitù e condizione femminile erano questioni inseparabili. Una tale impostazione non suscitava unanimi consensi tra gli abolizionisti. Il mancato riconoscimento della violenza strutturale e sociale che colpiva le donne fu la motivazione principale che condusse alla scissione del movimento nel 1840 e avrebbe rappresentato a lungo un ostacolo alla partecipazione femminile nei movimenti per la pace e la nonviolenza.
Negli stessi anni anche in Europa suffragio, impegno per le riforme sociali, pace e rispetto della natura si intrecciarono nella riflessione e nell’attivismo femminista. Fu Frederika Bremer (1801-1865), la “Jane Austen di Svezia”, a coniugare nella sua visione femminismo, pacifismo e nonviolenza e a mettere in discussione le strutture patriarcali della società e del cristianesimo. Nel 1854, nel corso della guerra di Crimea, Bremer pubblicò un progetto di associazione internazionale delle donne per la pace (Appeal to the Women of the World to Form a Peace Alliance), un appello rivolto alle donne cristiane affinché formassero un’organizzazione mondiale e si prendessero cura della Terra.
A lungo ignorato, lo scritto di Bremer fu ripubblicato nell’imminenza del Congresso internazionale per la pace delle donne all’Aia nella primavera del 1915, l’evento di maggior rilievo del pacifismo a livello internazionale durante la Grande guerra. Organizzato da Jane Addams (1869-1935), femminista, pacifista, fondatrice del più importante social settlement d’America (Hull House, Chicago) e premio Nobel per la pace nel 1931, il convegno gettò le basi della prima organizzazione internazionale pacifista femminile, la Women International League for Peace and Freedom (WILPF) il cui principio fondamentale era l’opposizione a tutte le guerre, offensive e difensive, il disarmo e il nesso tra nonviolenza, pace, femminismo e giustizia sociale. Le 1136 donne di 22 paesi che si riunirono all’Aia in piena guerra affermarono che i valori della cura, della conciliazione e l’impulso a conservare la vita, che nelle donne era più vivo rispetto agli uomini, avrebbero dovuto riversarsi nel mondo devastato e creare nuove forme di convivenza.
Jane Addams lettrice di Tolstoj e Gandhi
Prima presidente e guida spirituale della WILPF, Jane Addams era stata profondamente influenzata dal pensiero di Tolstoj e in seguito da quello di Gandhi. Con lo scrittore russo si incontrò nel 1896 a Jasnaja Poljana e con Gandhi ebbe un breve scambio epistolare. Ai due “maestri della nonviolenza” nel 1931 dedicò lo scritto Tolstoj and Gandhi in cui metteva in rilievo le affinità del loro pensiero. La sua profonda ammirazione per i due “maestri”, da cui trasse la propria fiducia nella nonresistenza, tuttavia, non fece di lei una loro discepola.
Nel pacifismo e nel principio della nonviolenza così come erano stati espressi dallo scrittore russo vedeva la persistenza di ideali statici, basati su un credo e su appelli al dogma. All’ingiunzione a cessare di compiere il male, opponeva la necessità di ideali “più aggressivi”; “al consiglio della perfezione” opponeva l’idea di un continuo “aggiustamento” di ideali e di prassi fondati sull’esperienza. Democrazia, pace e nonviolenza dovevano diventare un modo di vita, risultato del “dispiegamento di quei processi vitali che conducono allo sviluppo collettivo” e che era ben riconoscibile nella esperienza dei settlement che avevano ricevuto un forte impulso dall’azione femminile (Bianchi 2023).
Jane Addams seguì sempre con attenzione gli esperimenti di Gandhi, ma non mancavano le dissonanze tra le loro visioni e metodi. Addams interpretò il concetto di satyagraha in termini di “energia morale”, una definizione che enfatizzava la trasformazione sociale attraverso la cooperazione, la condivisione, l’intreccio delle relazioni sulla base della comprensione empatica, non già della sofferenza volontaria (Agnew 2020). Il processo morale prefigurato da Jane Addams mal si conciliava con la retorica gandhiana del “soldato di pace”, del sacrificio, della sfida della morte, delle “nobili qualità del soldato”. Quella retorica, che suonava troppo simile a quella che aveva mandato milioni di uomini alla morte in guerra, doveva essere superata e la sofferenza non poteva essere un processo di redenzione.
“Siamo tutti e tutte parte l’uno dell’altra”
Nel 1926 Jane Addams aveva auspicato, riferendosi a Gandhi, che “quel grande maestro che più di ogni altro uomo vivente si [era] risolutamente votato alla tipica avventura cristiana non ancora esplorata della nonresistenza”, potesse davvero indicare la via (Fisher 2003, p. 265).
Negli Stati Uniti la nonviolenza iniziò ad essere messa in atto su vasta scala tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta del Novecento come metodo per abolire la segregazione. Nel movimento per i diritti civili, a cui si sarebbero ispirati anche i movimenti femminili, come Women Strike for Peace nato nel 1961 contro le sperimentazioni nucleari, l’attivismo femminile ebbe un ruolo centrale nel pianificare le strategie, coordinare le tattiche e le azioni del movimento, ma rimase in gran parte invisibile. Ne è un esempio la grande marcia di Washington del 28 agosto 1963 quando le attiviste rimasero ai margini dell’evento.
In quell’anno fu incarcerata a Birmingham Barbara Deming (1917-1984) per aver partecipato a una manifestazione per i diritti civili. Femminista, poetessa, scrittrice e attivista contro la segregazione e contro il nucleare, influenzata da Gandhi a partire dal suo viaggio in India nel 1959, negli anni Settanta e Ottanta Deming offrì un quadro teorico e un modello per i movimenti femministi che si andavano sviluppando in varie parti del mondo.
Nello scritto del 1977 Remembering Who We Are, risalendo all’origine del patriarcato, Deming affermò che il genere è l’opposizione originaria; la costruzione dell’“Altro” è stata la fonte e il modello di tutte le forme di violenza. Per eliminare la violenza tra gli esseri umani e contro la natura occorreva sfidare la menzogna fondamentale del patriarcato, ovvero che le donne e gli uomini sono diversi per natura, che le donne non appartengono a sé stesse, ma agli uomini. Se il movimento pacifista non avesse maturato la consapevolezza della connessione tra tutte le oppressioni e non avesse rinunciato alla gerarchia degli obiettivi, avrebbe conservato una incongruenza di fondo e la sua azione sarebbe stata inefficace.
A parere di Deming, la strategia nonviolenta femminista è rivoluzionaria, coraggiosa, inflessibile, anti-patriarcale; essa fa ricorso alla forza morale, sfida la struttura del potere, ma rifiuta il concetto e il termine di nemico. È una forza che si basa sul potere della verità, una pressione che costringe l’avversario a fare i conti con la propria coscienza; essa va oltre l’appello morale e le petizioni; al potere non fa richieste, ma dice: “accetta questa situazione che noi abbiamo creato”. A una tale forma di pressione se ne doveva accompagnare un’altra, ovvero la rassicurazione dell’avversario attraverso il riconoscimento della comune umanità, della comune capacità di pensiero, azione e cambiamento. La nonviolenza femminista quindi era un equilibrio tra autoaffermazione e rispetto degli altri.
L’opposizione nonviolenta, ne era convinta, è l’unica che consente di affrontare la complessità del reale e di liberarsi dalle distinzioni nette che fanno parte delle illusioni su cui si fonda il patriarcato. Impossibile, ad esempio, tracciare una linea netta tra oppressi e oppressori; anche gli oppressi sono molto spesso a loro volta oppressori. Riconoscere questa complessità rende impossibile rispondere alla violenza con la ritorsione o all’aggressione con l’uccisione difensiva. Non si trattava di passività, tutt’altro.
[…] io direi che può essere molto più passiva, molto più disperata l’azione che risponde con le stesse modalità e accetta la visione del nostro oppressore, ovvero che non c’è nulla che ci impedisca di cercare di distruggerci l’un l’altro (Deming 1984, p. 289).
Rispetto dell’avversario e nello stesso tempo inflessibilità, affermazione del proprio potere furono i principi che animarono i movimenti femminili che si sarebbero sviluppati di lì a poco.
La nonviolenza è celebrazione della vita
Negli anni Settanta emerse un movimento transnazionale femminile che elaborò in modo nuovo i valori della nonviolenza, del femminismo e dell’ecologia. Negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone, in Australia, si moltiplicarono le proteste contro il nucleare in cui le donne furono le protagoniste indiscusse. Fu Petra Kelly, pacifista influenzata da Gandhi, Martin Luther King e Rosa Luxemburg, a fare opera di collegamento tra questi movimenti e a darne risonanza a livello internazionale3.
Nel 1980 e nel 1981 negli Stati Uniti le donne circondarono il Pentagono, “il luogo del potere imperialista che ci minaccia tutti-e”, e nella Dichiarazione collettiva analizzarono da un punto di vista femminista le relazioni tra ecologia, patriarcato, militarismo e razzismo.
In Gran Bretagna nel settembre 1981 le prime donne provenienti dal Galles si accamparono di fronte alla base missilistica di Greenham Common dove, negli anni successivi, si sarebbero avvicendate decine di migliaia di donne.
Ricordando l’esperienza di Greenham, un modello per altri numerosi campi nel mondo, Gwyn Kyrk, attivista e studiosa ecofemminista, ha scritto: “La nonviolenza femminista è forte, divertente e conferisce potere”; è una celebrazione della vita attraverso la creatività. Essa si articola in sei principi: l’assertività, la gioia, la franchezza, il sostegno e la preparazione, la flessibilità delle tattiche e la resistenza. Lo stato d’animo delle donne di Greenham, come quelle di altri campi, è stato ben espresso dalle parole di Petra Kelly, colei che fece da collegamento tra i movimenti antinucleari a livello internazionale e che nel suo pensiero riuscì a fondere femminismo, nonviolenza ed ecologia: “Se non facciamo l’impossibile, dovremo affrontare l’impensabile”.
Era importante, continua Kirk, che ogni donna sentisse che quello che stava facendo era giusto per sé, non perché qualcuno aveva stabilito che era la cosa giusta da fare, come accadeva nei movimenti guidati dagli uomini.
La capacità di vivere per anni all’esterno della base, impedendo che i missili vi fossero introdotti di nascosto, ha colpito al cuore il principio alla base del militarismo, il segreto, all’ombra del quale si compie l’opera di distruzione. Le attiviste hanno portato questo processo di morte e distruttività al centro dell’attenzione pubblica e hanno affermato i valori della vita. Esse hanno fatto ciò che non potevano non fare: hanno lasciato la loro vita normale, hanno vissuto in tende, dormito sulla nuda terra, ma l’enfasi non fu mai sul sacrificio di sé, bensì sul riconnettere i legami con la vita. “Ritessere la ragnatela della vita”, riparare, rigenerare, guarire sono le frasi e termini che ricorrono nelle canzoni, nelle poesie, negli opuscoli, nei titoli delle antologie prodotte in quegli anni (Kyrk 1989, pp. 115-132). Le attiviste di Greenham volevano andare oltre la resistenza, trasformare la collera in energia per l’azione, una creatività rigeneratrice non basata sull’odio, ma sull’amore e riaffermare con forza il diritto di tutte le creature alla vita. E hanno vinto. Il campo fu definitivamente chiuso nel 2000 e ora Greenham Common è una zona di rifugio per la fauna selvatica.
La nonviolenza è un abbraccio
La protesta a Greenham aveva raggiunto il culmine nel dicembre1982 quando 30.000 donne invitate per telefono o per posta, si recarono al campo e circondarono la base tenendosi per mano. Nell’appello si leggeva: “Portate oggetti personali che rappresentino la minaccia di una guerra nucleare e che esprimano la nostra rabbia, la nostra gioia, le nostre vite. Vogliamo decorare l’intera palizzata con oggetti personali”.
Così il 12 dicembre i 15 chilometri di recinzione della base apparivano completamene “addobbati di oggetti” che rappresentavano ciò che aveva valore nella vita delle donne: fotografie, abiti infantili, giocattoli, e così via. Le convenute, ricorda Ann Petitt, colei che diede avvio alla marcia per Greenham, circondarono la base “con amore, una negazione spirituale del suo proposito omicida (Petitt 2006, p. 147).
L’idea di circondare la base era balenata una sera al campo accanto al fuoco quando Barbara Doris, infermiera di Liverpool e tra le fondatrici del campo, che si era recata negli Stati Uniti per partecipare alla Pentagon Action, ricordò che le donne americane si erano ispirate al principio sciamanico dei nativi, quello di contrastare il male abbracciandolo con l’amore.
Pochi mesi dopo, nel febbraio 1983, a conclusione dei lavori del tribunale di Norimberga contro le armi nucleari “di primo colpo” e di tutti gli strumenti di distruzione di massa all’Est e all’Ovest, organizzato dai Verdi, Petra Kelly e Hermann Verbeck nel loro appello per l’azione nonviolenta4 si richiamarono all’esempio di Greenham.
Le donne a Greenham Common, in Inghilterra, hanno formato una catena, una catena di esseri umani, intorno a una base militare per armi nucleari. Facciamo appello alle donne perché formino una catena intorno al mondo e non solo oppongano resistenza a coloro che dicono che la guerra è inevitabile, ma amino solo quegli uomini che vogliono levare la loro voce contro la violenza.
Petra Kelly era stata ispirata anche dai movimenti femminili del Sud del mondo e in particolare dal movimento chipko sorto all’inizio degli anni Settanta, quando le donne dei villaggi himalaiani abbracciarono gli alberi delle foreste per impedirne l’abbattimento.
La storia dell’attivismo femminile, infatti, ha offerto numerosi esempi di azioni dirette nonviolente che comunicano affetto e cura e che sono ancora in gran parte da ricostruire. Uno di questi è il già citato appello di Frederika Bremer in cui la pacifista svedese invitava le donne di tutto il mondo a circondare la Terra di energie guaritrici, “abbracciandola come se fosse un bambino”, parole che ancora negli anni Ottanta e Novanta del Novecento risuoneranno nei titoli delle antologie ecofemministe: Reweaving the Web of Life, Reclaim the Earth, Healing the Wounds, Reweaving the World.
Le femministe del centro Les Circauds in Francia
Il primo gennaio 1983, quando la protesta a Greenham era in pieno svolgimento e si era estesa a tanti altri paesi, apparve l’opuscolo Piecing it Together: Feminism and Nonviolence a cura di un gruppo di studioall’interno del Centro di incontro del movimento nonviolento Les Circauds sorto nel 1971 nella regione di Lione a partire dall’esperienza degli obiettori alla guerra d’Algeria. In Francia il movimento nonviolento, infatti, si era concentrato sull’obiezione di coscienza e riguardava prevalentemente gli uomini, ma negli anni si andò affermando una sezione femminile che rimise in discussione il ruolo delle donne all’interno del movimento pacifista, affrontò la questione della violenza e quella del rapporto tra femminismo, nonviolenza ed ecologia.
Nel 1976 le attiviste di Les Circauds promossero un convegno internazionale dal titolo: Le donne nel movimento non violento (Kambourakis 2019). Da questo incontro le femministe inglesi nell’autunno dello stesso anno creano un gruppo di riflessione Femminismo e nonviolenza, organizzarono alcuni seminari e nel 1980 a Laurieston in Scozia, un convegno internazionale sul tema donne e militarismo.
Anche tenendo conto dei diversi orientamenti della nonviolenza e dei femminismi, sarebbe facile vedere come si mescolerebbero bene insieme. In entrambi la liberazione è della massima importanza, insieme alla convinzione nella forza di ciascun individuo, un’avversione per il dominio e la gerarchia, la riaffermazione dell’importanza dei sentimenti, l’apertura al cambiamento di sé stessi e una preoccupazione per tutte le forme di vita (Piecing it Together 1983).
Anche le donne riunite a Laurieston si espressero sul tema della sofferenza. “Anche noi siamo preparate a soffrire, ma non consideriamo la sofferenza come qualcosa che ha valore in sé: farlo pensiamo sia una forma di machismo”. La riflessione sulla nonviolenza doveva prendere le mosse dall’analisi del patriarcato; la violenza del capitalismo patriarcale doveva essere compresa e sfidata se si volevano contrastare altre forme di violenza; senza andare alle radici dell’oppressione femminile, senza decostruire le strutture dell’oppressione, non è possibile alcun cambiamento radicale.
Alle donne presentate come naturalmente pacifiste opposero l’immagine di vigorose attiviste per il cambiamento benché sia innegabile che le donne sono ancora vicine all’essenza della vita umana.
In una società che visibilmente premia l’aggressione e il successo della violenza, sia il femminismo che la nonviolenza richiedono un certo tipo di comportamento umano e presentano una sfida all’autorità. Non è facile essere nonviolenti e ancora più difficile vedere la nonviolenza come una assertiva, immaginativa forma di resistenza (ivi).
A differenza delle lotte armate, la nonviolenza, si leggeva nell’opuscolo, offre a ciascuno, e non solo ai giovani e generalmente maschi, la possibilità di essere incluso su base egualitaria e dà ai partecipanti e alle partecipanti maggior controllo e pertanto maggior potere.
La critica alla “logica dell’uccisione difensiva”
Tratti comuni degli scritti femministi sulla nonviolenza sono la convinzione dell’impossibilità di fare una distinzione di valore tra gli esseri umani e tra tutte le forme di vita e l’idea che la nonviolenza non possa consentire eccezioni. Ha scritto recentemente la femminista americana Judith Butler in la forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico:
Se ammettiamo un’eccezione al principio della nonviolenza, significa che ci sentiamo pronti-e a combattere e a infliggere un danno ad altri, forse anche a ucciderli, e siamo in grado di supportare tutto ciò con argomentazioni morali. Secondo questa logica si compie un’operazione in nome dell’autodifesa, o della difesa di coloro che appartengono al più ampio regime del sé – coloro con cui è possibile identificarsi (Butler 2020, p. 81).
La violenza, infatti, sostiene Butler, si riproduce sotto forma di logica difensiva “intrisa di paranoia e di odio” (ivi, p. 41). Molti autori e autrici hanno criticato la teoria della guerra giusta in cui l’uccisione difensiva è presentata come un atto morale inevitabile che produce giustizia; chi non la esercita perde la sua dignità umana (Poe 2008; Chae 2018).
Come ha scritto recentemente Lee-Ann Chae da una prospettiva pacifista e femminista, l’orizzonte morale è angusto: giusto/ingiusto; giusto/sbagliato; altrettanto ristretta è la dimensione temporale in cui si è chiamati a operare la scelta: “Ecco quando hanno calpestato i miei diritti, quando la nostra sovranità è stata violata, quando hanno sferrato il primo colpo. Ecco quando la nostra storia ha inizio e non consideriamo come rilevante nient’altro” (Chae 2023). Gli scenari ristretti in cui si muove il discorso pubblico tra apologia della resistenza e del nazionalismo, distorcono il pensiero, creano immaginari che rendono impossibile la ricerca della pace e lasciano in ombra tutto il resto: ciò che è accaduto prima, cosa accade lungo la strada, cosa potrebbe accadere dopo, ovvero ignorano i danni della guerra, non solo umani e materiali, ma anche culturali e spirituali: la distruzione della cultura e della memoria, della sensibilità per la vita e del valore della cura.
Inoltre, come ha ricordato Elaine Scarry, in La sofferenza del corpo, il dolore, la morte, le ferite, la distruzione di tutto ciò che sostiene la vita – l’unica vera essenza della guerra, l’unico obiettivo di tutta l’attività militare – non potranno mai trasformarsi in democrazia, libertà o giustizia. La loro realtà incontestabile non può essere trasferita ad alcuna ideologia o astrazione. Solo ciò che è intrinseco alla guerra ne può determinare gli esiti e le conseguenze sul piano sociale, umano e politico. Non libertà, bensì dispotismo; non democrazia, bensì rafforzamento del militarismo; non pacificazione, bensì incremento della violenza nei rapporti sociali, di genere e di classe e contro la natura. La forza della nonviolenza è l’unica via per arrestare queste illusioni e menzogne che hanno origine nel pensiero patriarcale.
Bibliografia
Agnew Elizabeth, Jane Addams, Mohandas Gandhi, and the Promise of Soul Force, in “Peace & Change”, Vol. 45, n. 4, 2020, pp. 481-512.
Alfonsi Silvia, Petra Kelly. Vivere e pensare oltre i confini, in Bruna Bianchi-Francesca Casafina (a cura di), Oltre i confini. Ecologia e pacifismo nella riflessione e nell’attivismo femminista, Milano 2021, pp. 187-218.
Bianchi Bruna, Jane Addams lettrice di Tolstoj, in Eadem, “non resistere al male con il male”. Obiezione di coscienza e pacifismo nel pensiero di Tolstoj, Milano 2023, pp. 129-152.
Butler Judith, La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, Milano 2020.
Chae Lee-Ann, Pacific Resistance: A Moral Alternative to Defensive War, in “Social Theory and Practice”, vol. 44, n. 1, 2018, pp. 1-20.
Chae Lee-Ann, Talking to Children About War, “Journal of Pacifism and Nonviolence”, 1, 2023, pp. 52-64.
Deming Barbara, We Are All Part of One Another. A Barbara Deming Reader, edited by Jane Meyerding, Philadelphia 1984.
Fisher Marilyn, Adams Essays and Speeches on Peace, Bristol 2003.
Kambourakis Isabelle, Articuler écologie et féminisme dans les années 1970. L’exemple du Centre non-violent des Circauds, “Travail, genre et societées”, 2019, 2, pp. 71-87, https://shs.cairn.info/revue-travail-genre-et-societes-2019-2-page-71?lang=fr#s1n2.
Kirk Gwyn, Our Greenham Common: Feminism and Nonviolence, in Adrienne Harris and Ynestra King (eds.), Rocking the Ship of State. Toward a Feminist Peace Politics, Boulder-San Francisco – London 1989.
McAllister Pam, Reweaving the Web of Life. Feminism and Nonviolence, Philadelphia 1982.
McAllister Pam, You Can’t Kill the Spirit, Philadelphia 1988.
Petitt Ann, Walking to Greenham. How the Peace-camp began and the Cold War Ended, Hanno, Glamorgan 2006.
Piecing it Together: Feminism and Nonviolence, 1983, https://wri-irg.org/en/story/2010/piecing-it-together-feminism-and-nonviolence.
Poe Danielle, Replacing Just War Theory with an Ethics of Sexual Difference. “Hypatia”, vol. 23, n. 2, 2008, pp. 33-47.
Scarry Elaine, La sofferenza del corpo. La distruzione e la creazione del mondo (1985), Bologna 1990.
Sharp Gene, Politica dell’azione nonviolenta. Le tecniche (1973), Torino 1986.
1* Una prima versione di questo articolo è apparsa nella rivista “Esodo”, 2024, 1, pp. 18-25.
Si vedano il manifesto Femministe russe contro la guerra nei primissimi giorni del conflitto: https://jacobinitalia.it/contro-laggressione-militare-di-putin/ e soprattutto l’aggiunta programmatica al manifesto del 24 agosto 2022: https://teletype.in/@femantiwarresistance/manifesto_addition in cui si risponde ad un manifesto delle femministe europee e delle Americhe del 17 marzo 2022 contro la spirale della violenza e l’invio di armi. Per quanto riguarda le femministe ucraine si veda il manifesto Il diritto di resistere: https://ytali.com/2022/07/08/il-diritto-a-resistere-il-manifesto-delle-femministe-ucraine/.
2 Valga per tutti l’esempio dell’opera del 1973 di Gene Sharp, a tutt’oggi punto di riferimento degli studi, Politics of Nonviolent Action. Tra le 196 tattiche e i relativi casi documentati l’azione delle donne è sottorappresentata. Significativi i casi delle petizioni di gruppo, di rifiuto di pagare le tasse, dei raduni di protesta, tattiche tradizionalmente praticate dalle donne, in cui non è menzionata alcuna azione da loro promossa (Sharp 1986, pp. 21-22; 62-64; 123-126).
3 Su questa importante ecopacifista femminista rimando a un recente saggio (Alfonsi 2021).
4 https://comune-info.net/non-permettere-di-assuefarsi-allidea-della-guerra/
Giovanna Calvi dice
Utile e completa storia del femminismo pacifista! Scoraggiante vederne i risultati…le giovani donne odierne sono meno sensibili e coinvolte? Sono soprattutto alcune donne “anziane” a tenere il testimone …dove abbiamo sbagliato?
JLC dice
Quelli che sono in alto hanno secoli alle spalle di guerre, patriarcato e capitalismo. Tutto ciò che apre crepe in quel dominio va inevitabilmente incontro ad alti e bassi. A noi il compito di riconoscere l’importanza delle crepe aperte dai movimenti delle donne e dai movimenti nonviolenti. Non sappiamo bene come allargarle, sappiamo però che altre e altri hanno cominciato e che dobbiamo farlo in tanti modi diversi, ovunque, ogni giorno.