Per farsi un’idea piuttosto precisa della portata dell’impatto della pandemia sull’estrattivismo, forse basterà ricordare che il 27 marzo scorso la quotazione dell’oro era scesa fin sotto i 1500 dollari l’oncia. Già in aprile, però, una volta acquisita la dimensione mondiale della propagazione del virus, il prezzo del principe dei metalli – con il petrolio simbolo indiscusso dell’impresa estrattiva mineraria – era schizzato a cifre impensabili, stabilendo un record dietro l’altro, fino a sfondare in agosto il muro storico dei 2000 dollari. Le previsioni di alcuni addetti ai lavori parlano ora del raggiungimento della vertiginosa cifra di 4 mila dollari l’oncia entro tre anni. Non sarà difficile, dunque, immaginare cosa possa significare oggi questa escalation per i conflitti sociali e ambientali in paesi, come il Perù, dove le imprese minerarie comprano abitualmente ogni autorità politica e controllano di fatto lo Stato, l’esercito e la polizia. In Perù viene utilizzata legalmente anche per fornire servizi di sicurezza a pagamento per le compagnie minerarie. L’avvelenamento sistematico della terra e dell’acqua che l’estrazione comporta incontra da molti anni un’opposizione disperata quanto tenace da parte dei popoli indigeni della Cordigliera andina, ma l’emergenza sanitaria ha trasformato di fatto il Perù in uno Stato di polizia mineraria, ora anche sul piano delle leggi. In questa terza puntata della sua grande inchiesta internazionale (qui e qui le precedenti), Alexik racconta episodi illuminanti di quella mutazione, per poi spaziare, dall’Honduras alla Turchia, passando per l’Armenia e le Filippine. Un quadro planetario devastante di estrazione forsennata delle risorse naturali, con relativa criminalizzazione della protesta sociale, realizzazione di profitti astronomici e l’assassinio sistematico e più impunito che mai dei leader dei movimenti che difendono il territorio e chi lo abita da secoli
“La violenza per l’estrattivismo non è una conseguenza ma una condizione necessaria” (A. Acosta).
Nel capitolo precedente abbiamo potuto approfondire come il lockdown generalizzato imposto in tempi di pandemia, riducendo il controllo popolare dei territori, le relazioni fra i vicini e la visibilità delle aggressioni, abbia esposto in molte parti del mondo i militanti sociali e ambientali a un rischio maggiore di intimidazione, assalti ed esecuzioni extragiudiziali.
Allo stesso tempo le misure di emergenza sono andate a colpire le forme classiche dell’opposizione sociale, creando un contesto favorevole per l’aumento della violenza istituzionale, sia nei termini dell’inasprimento normativo contro le lotte che della repressione di piazza.
Proviamo a delineare una panoramica internazionale di queste tendenze iniziando dal Perù – attualmente sotto la presidenza del neoliberista Martín Vizcarra – dove lo scorso 27 marzo, cioè 11 giorni dopo la decretazione del lockdown, è stata promulgata la “Legge di protezione della polizia“, che prevede la possibilità di un uso sproporzionato della forza, la licenza di uccidere e l’impunità per gli effettivi della polizia e dell’esercito1.
Il provvedimento, frutto di un iter palesemente incostituzionale, è entrato in vigore nel pieno dello Stato di Emergenza Nazionale dichiarato in nome della pandemia, che pone i membri della polizia nazionale e delle forze armate sotto la catena di comando dell’ordine pubblico interno.
È una legge particolarmente pericolosa per l’opposizione sociale e per le lotte in difesa dei territori, tenendo conto che la polizia peruviana viene anche utilizzata per fornire servizi di sicurezza a pagamento per le compagnie minerarie – nel 2019 erano in vigore 29 contratti di questo tipo – e che in questa funzione esercita violenza sulle comunità2.
Sul piano politico, a giudicare dalla scelte operate negli ultimi trenta giorni da Martín Vizcarra nella designazione delle compagini di governo, il progetto che emerge è quello della costruzione di uno ‘Stato di polizia mineraria’, con la nomina in posizioni apicali del potere esecutivo di personaggi che agiscono in rappresentanza degli interessi delle imprese estrattive e con maturata esperienza nella repressione dei movimenti che contrastano le miniere.
Personaggi come Pedro Cateriano Bellido, già primo ministro con delega all’Interno sotto la presidenza di Ollanta Humala3, ruolo in cui si distinse per il tentativo di ‘pacificare’ con la mano pesante i conflitti minerari4.
O come Rafael Belaunde Llosa, nipote dell’ex presidente Belaunde e figlio del proprietario della società mineraria Argento SRL, impresa a cui sono state contestate più di 100 responsabilità ambientali.
O ancora come l’attuale premier, Walter Roger Martos Ruiz, ex Capo di Stato Maggiore delle forze armate, affiancato dal neo ministro dell’energia e delle miniere Luis Miguel Incháustegui Zevallos, che ha ricoperto in passato il ruolo di vicepresidente presso le compagnie minerarie Golds Fields e Lumina Coppers.
Il 20 luglio scorso la polizia e l’esercito hanno attaccato la popolazione della provincia di Espinar, in piena ribellione contro la multinazionale anglo-svizzera Glencore, la principale esportatrice di rame del Perù.
Glencore è fra quelle imprese che dall’inizio della ‘fase 1’ hanno continuato normalmente le proprie operazioni, mentre la gente normale rimaneva bloccata nelle sue attività di sussistenza a causa delle misure adottate dal governo durante la pandemia.
Per sostenere la popolazione colpita dalla crisi le autorità locali di Espinar avevano deliberato l’uso di un fondo istituito da un accordo quadro con la compagnia mineraria nel 2003, che prevedeva la devoluzione del 3% dei suoi utili annuali verso progetti di sviluppo nella zona.
Una compensazione misera in confronto ai danni arrecati agli ecosistemi e alle persone, con l’inquinamento di acqua, aria e suolo, e l’avvelenamento degli abitanti che presentano da anni metalli pesanti nel sangue (mercurio, cadmio, arsenico) ben oltre i limiti consentiti5.
Un mese fa la Glencore si è opposta all’utilizzo del fondo, innescando ampie proteste popolari.
La risposta del governo presieduto da Cateriano Bellido non si è fatta attendere, con l’invio di poliziotti infiltrati, l’uso di armi da fuoco sui manifestanti (con 5 feriti, di cui due minorenni), l’arresto di giovani e l’apertura di un’inchiesta contro otto dirigenti delle organizzazioni sociali.
Per non essere da meno del predecessore, l’attuale governo di Incháustegui Zevallos si è da poco occupato dell’aggressione contro il popolo amazzonico Kukama Kukamiria, che vive di pesca sui fiumi Marañón, Tigre, Urituyacu e Huallaga, fiumi a cui è legata la sopravvivenza e la cosmovisione delle comunità. Il nove agosto scorso, giornata internazionale dei popoli indigeni, la polizia peruviana ha attaccato una protesta pacifica di questo popolo contro lo sfruttamento petrolifero delle sue terre e l’inquinamento delle acque da parte della impresa canadese PetroTal Corp, assassinando tre manifestanti e ferendone 11.
Restando in America Latina, passiamo all’Honduras, dove la narcodittatura di Juan Orlando Hernández ha imposto al paese il coprifuoco dal 15 marzo, oltre alla sospensione di diritti fondamentali come la libertà di espressione e di riunione.
Il 25 giugno il governo ha approfittato del blocco imposto alla società honduregna per imporre l’entrata in vigore del nuovo codice penale, contestato dalle organizzazioni sociali come segue:
“Ripudiamo un codice penale che criminalizza le proteste sociali, mette a rischio l’esercizio effettivo delle libertà di riunione e di associazione, ponendo in pericolo coloro che esprimono opposizione alle decisioni dei settori al potere, e definisce come crimini il “disordine pubblico”, la “disobbedienza all’autorità”, le “riunioni e manifestazioni illecite” e il “terrorismo”, in termini così ampi e ambigui che si prestano immediatamente alla discrezione e all’arbitrio al momento della loro interpretazione e applicazione”.
Durante la pandemia sono aumentate nel paese le provocazioni dei militari, che pretendono di entrare in quelle comunità che hanno deciso di chiudersi per autotutela sanitaria, controllando autonomamente gli accessi dall’esterno. Tra queste ci sono le comunità resistenti ai progetti minerari ed estrattivi, che hanno sempre subito forme particolarmente dure di minacce e repressione da parte della polizia e dell’esercito.
Crescono in questo modo le occasioni di frizione con l’esercito e di conseguenza gli arresti arbitrari di militanti, che vengono messi ulteriormente a rischio per l’estensione dell’epidemia nelle carceri6.
Continuano a rischiare il contagio nei penitenziari honduregni otto difensori dell’acqua, detenuti illegalmente dal settembre scorso a causa delle loro opposizione, nel municipio di Tocoa, a una miniera di minerali di ferro a cielo aperto di proprietà della Pinares Investment7.
Giusto per stabilire due pesi e due misure, in nome dell’emergenza Covid è stata tentata invece la scarcerazione – bloccata dalle proteste – degli assassini di Bertha Caceres, uccisa nel 2016 per la sua lotta contro le dighe sul fiume Gualcarque.
Nel frattempo un altro compagno honduregno ha fatto la fine di Bertha: Marvin Damián Castro Molina, dell’organizzazione MassVida, è stato ritrovato ucciso dopo la sua desaparecion il 13 luglio.
Aveva sempre lottato per difendere il territorio dall’imposizione di progetti minerari, idroelettrici ed agroindustriali nella zona di Choluteca, nel sud del paese.
Anche il governo populista e militarista di Rodrigo Duterte nelle Filippine ha approfittato della pandemia per far passare il tre luglio la nuova Legge antiterrorismo, seguita da un’ondata di ritorsioni contro i media indipendenti attraverso la tattica del ‘red tagging’8.
Una legge che verrà utilizzata anche contro i movimenti di difesa ambientale che operano già ora in un contesto violentissimo, che ha determinato l’uccisione di 119 difensori della Terra nei primi tre anni della presidenza Duterte (2016/2019), il doppio di quelli ammazzati nel triennio precedente9.
Durante il lockdown, il 30 aprile, è stato ucciso l’architetto Jory Porquia, membro del Movimento ecologico Madia-es, che aveva svolto un ruolo fondamentale nelle campagne contro l’estrazione mineraria su larga scala, le centrali elettriche a carbone e le grandi dighe.
Jory Porquia era il progettista dei mulini del Panay Fair Trade Center, una rete di cinque cooperative delle cui attività beneficiano oltre 10.000 famiglie sulle isole Panay, e la cui ‘colpa’ è quella di aver tolto molti piccoli contadini dalla dipendenza dei latifondisti.
Poco prima della sua morte era coinvolto nelle operazioni per gli aiuti alimentari e nella cucina comunitaria nella città di Iloilo, per far fronte alla pandemia di COVID-19.
Quarantadue persone, tra cui familiari e colleghi, sono state arrestate durante una carovana di protesta per il suo assassinio, ma non i suoi sicari.
Va detto che Duterte ha accresciuto enormemente la violenza non solo contro i militanti, ma anche contro la popolazione in generale, soprattutto nel corso delle campagne antidroga che hanno provocato la morte di 20.000 persone, prevalentemente povere, tramite esecuzioni extragiudiziali.
Violenza che si è manifestata anche in tempi di pandemia con l’arresto di 76.000 persone per violazione del lockdown, e particolarmente contro chi scendeva in strada per la perdita del lavoro e la scarsità degli aiuti alimentari da parte del governo.
In nome dell’emergenza Covid-19 sono stati sgomberati con la mano pesante gli accampamenti di protesta attorno alla miniera di Didipio, gestita da OceanaGold Philippines Inc., nella provincia di Nueva Vizcaya.
Gli accampamenti resistevano fin dal luglio 2019, quando ventinove comunità locali indigene e contadine avevano cominciato a bloccare gli accessi dei veicoli al sito minerario, che si estende per 27.000 ettari.
Il 6 aprile scorso un centinaio di poliziotti ha forzato il blocco delle ‘barricate umane’, in modo da permettere la fornitura di 63.000 litri di carburante per riattivare i generatori che azionano le pompe della miniera.
E’ l’ultimo atto di forza, in ordine di tempo, della australiana Oceana Gold, che negli anni ha imposto lo sgombero forzato di intere comunità per l’ampliamento della miniera di oro e rame, distruggendone le case con i bulldozer ed il fuoco, sotto la supervisione di forze di sicurezza private. La lotta contro Oceana Gold conta anche due morti nel 2012: la attivista Cheryl Ananayo e suo cugino Randy Nabayay, uccisi a colpi d’arma da fuoco in una esecuzione extragiudiziale.
In linea con il generale delirio repressivo in vigore nel paese, altri attacchi contro i movimenti antiminerari hanno interessato la Turchia, con lo sgombero del 28 aprile, nel distretto di Cannakale, dei presidi contro la miniera di Kirazli, della Alamos Gold.
Da 276 giorni migliaia di persone avevano popolato quegli accampamenti per proteggere il Monte Ida e le aree limitrofe dalle attività dell’impresa, che avevano già causato il taglio 200.000 alberi e che potevano mettere a rischio un bacino idrografico da cui si attinge l’acqua per 180.000 abitanti.
Lo sviluppo della miniera era stato sospeso dall’ottobre 2019, quando il governo turco non ha rinnovato le concessioni della società a seguito di proteste diffuse.
Gli accampamenti servivano da presidi di controllo per assicurarsi che la compagnia non rientrasse nella miniera, ma con il pretesto dell’epidemia le autorità turche hanno proceduto all’evacuazione dei campi ‘per motivi sanitari’.
Ai militanti sono state comminate multe di 8.000 dollari per aver ‘disobbedito alle misure sanitarie in vigore per il COVID-19’. Multe pesanti se si pensa che il salario minimo in Turchia è di 300 euro al mese, e 600 quello medio.
Dopo lo sgombero si teme che il governo possa rinnovare il permesso alle attività della Alamos Gold in qualsiasi momento.
Di sicuro, per ora, si prodiga affinché nessuno ne parli: il 26 luglio la polizia turca ha attaccato una conferenza stampa del Yeşil Sol Parti (il partito verde), finalizzata a denunciare l’inquinamento da cianuro generato dal processo di estrazione dell’oro, in riferimento alla regione di Çanakkale. In quella occasione venti attivisti sono stati arrestati.
Una situazione simile è stata registrata in Armenia, dove il 4 agosto la forza pubblica ha spalleggiato le guardie private della compagnia britannica Lydian, rimuovendo con le gru i blocchi eretti nel 2018 dalla popolazione residente, contraria alla apertura di una miniera d’oro presso il Monte Amulsar, a soli 7 km dal noto sito turistico e centro termale della città di Jermuk.
Vari manifestanti sono stati tratti in arresto.
Dalle Filippine alla Turchia e all’Armenia, la violenza al servizio dell’estrazione aurifera cresce in contemporanea con l’aumento del prezzo dell’oro, le cui quotazioni stanno schizzando in alto per la crisi pandemica e nella prospettiva di una recessione globale. (Continua)
- Qui l’analisi del provvedimento e dei suoi profili di incostituzionalità, redatta dalla Red de Protesta y Accion Mineria Ambiente Comunidades
- Juliana Bravo Valencia, Juan Carlos Ruiz Molleda, Ana María Vidal Carrasco (a cura di), Informe: Convenios entre la Policía Nacional y las empresas extractivas en el Perú. Análisis de las relaciones que permiten la violación de los derechos humanos y quiebran los principios del Estado democrático de Derecho, Lima, Febbraio 2019, pp.36.
- Una nomina che può essere considerata come l’emblema della continuità che unisce, nei loro tratti fondamentali, le politiche del ‘nazional progressismo’ di Humala con quelle dei suoi successori dichiaratamente neoliberisti, che non a caso utilizzano gli stessi soggetti, buoni per tutte le stagioni.
- Cateriano
viene ricordato per la repressione a Cajamarca contro l’opposizione
popolare al progetto di estrazione aurifera Conga, e per l’invasione
militare della Valle del Tambo, la cui popolazione era da anni scesa in
lotta per impedire l’avvio del devastante progetto di estrazione del
rame ‘Tia Maria’ da parte della transnazionale Sothern Perú Coper Corp.
Nella primavera del 2015 sulla Valle del Tambo calarono 4.000 effettivi della polizia militare, macchiandosi di una serie di abusi, con infiltrazioni fra i civili, irruzioni violente nelle case, lanci di lacrimogeni dagli elicotteri, un agricoltore ucciso. - CooperAcción, Derechos Humanos sin Fronteras, Instituto de Defensa Legal y Broederlijk Delen, Metales pesados tóxicos y salud pública:el caso Espinar, 2016, pp. 44.
- Denuncia del Centro Hondureño de Promoción para el Desarrollo Comunitario (CEHPRODEC).
- La Pinares è legata a una delle famiglie più potenti del paese, la famiglia Facussé, proprietaria anche della Dinant, un gigante dell’ agribusiness e dei biocarburanti accusato dell’assassinio di decine di piccoli agricoltori contrari alle piantagioni di olio di palma a Bajo Aguán, nel nord dell’Honduras. In: Global Witness,Honduras, the deadliest place to defend the planet, gennaio 2017, pp.52.
- La tattica di propaganda del “red tagging” nelle Filippine è stata spesso diretta verso individui e organizzazioni critiche nei confronti del governo, etichettati come “comunisti” o “terroristi”, indipendentemente dalle loro attuali convinzioni o affiliazioni.
- Global Witness, Defending Tomorrow. The climate crisis and threats against land and environmental defenders, July 2020, pp. 52.
Fonte: Carmilla on line. Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione
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