Qualcuno ha già scritto che il crollo del Ponte Morandi è la metafora di un paese che cade a pezzi. Marco Arturi, che da ragazzo quel ponte lo ha percorso due volte al giorno per andare a lavorare al porto, non sa se sia esattamente così ma si dice sicuro che con il suo crollo abbiamo perso tutti un pezzo della nostra innocenza. L’inammissibile tragedia di Genova segna un punto di non ritorno: ci mette di fronte alle nostre responsabilità individuali e collettive. È arrivato il tempo di smetterla di affidare deleghe di comodo per poi distribuire responsabilità e condanne seduti in poltrona. Non si può accettare una logica in base alla quale scampare a una tragedia sia una sorta di roulette russa. Un po’ come nel “Sorpasso” di Dino Risi – una commedia tragica degli anni in cui s’inaugurava il Ponte Morandi, che raccontava un’altra Italia e un’altra metafora, quella di un paese lanciato verso il futuro con esuberanza – ma anche con ingenuità, superficialità, cialtroneria e arroganza – convinto di avere la sorte dalla sua e un talento formidabile
di Marco Arturi
“Il sorpasso” è un film del 1962 diretto da Dino Risi. La trama la conosciamo un po’ tutti, ad ogni modo si può ricordare che i due personaggi centrali sono uno studente introverso (Roberto Mariani, interpretato da Jean Louis Trintignan) e un irresistibile cialtrone (Bruno Cortona, intepretato da Vittorio Gassmann) che si incontrano il giorno di Ferragosto in una Roma deserta; Cortona coinvolge un recalcitrante Mariani in una cavalcata on the road a bordo della sua Lancia Aurelia supercompressa che li porterà fino alle porte di Livorno passando per Civitavecchia, la campagna maremmana e Castiglioncello. E’ un film denso di riferimenti impliciti e metafore, tutte riguardanti un paese che si protende verso il futuro con esuberanza ma anche con ingenuità, superficialità, cialtroneria e arroganza.
La costruzione del ponte Morandi – non sapevo neanche che si chiamasse così: da bambino per me era “il ponte di Brooklyn” e da ragazzo, quando lo percorrevo con mio cugino due volte al giorno per andare a lavorare in porto, il ponte sul Polcevera – è iniziata l’anno seguente a quello del film: quell’Italia era talmente ambiziosa da non temere la vertigine e la sospensione, anzi. Era un paese diverso da questo, lanciato in corsia di sorpasso con la convinzione di avere la sorte dalla sua e di essere dotato di un talento ineguagliabile.
Qualcuno ha già scritto che il crollo di oggi è la metafora di un paese che cade in pezzi. Io non so se le cose stiano veramente così: quello di cui sono certo è che oggi abbiamo perso un pezzo della nostra innocenza. Perché un ponte – non un ponte qualsiasi: quel ponte, un nodo di comunicazione attraversato in continuazione da migliaia di mezzi – che viene giù in quel modo è una tragedia inammissibile, una vicenda che ci mette di fronte alle nostre responsabilità individuali e collettive. Di fronte a un fatto del genere nessuno può dire io non c’entro; piuttosto è necessario dirsi che forse è arrivato il tempo di smetterla di affidare deleghe di comodo per poi distribuire responsabilità e condanne seduti in poltrona che tanto la colpa è sempre di altri. Non si può accettare una logica in base alla quale scampare a una tragedia sia una sorta di roulette russa e poi a chi tocca non s’ingrugna: ve lo dice uno che solo nell’ultimo anno ha percorso il ponte Morandi una cinquantina di volte. E’ il caso di capire che oggi su quel viadotto c’eravamo tutti indistintamente.
Il Sorpasso è una commedia ma finisce in tragedia; lo studente timido muore e lo spaccone si salva per miracolo. Ma non siamo tutti Bruno Cortona: possiamo somigliargli nella cialtronaggine ma non abbiamo il suo talento, la sua vitalità inarginabile e forse nemmeno la sua fortuna. Esattamente come l’Italia, che da un pezzo ha smarrito l’allegria, l’entusiasmo e l’attitudine al sogno, anche se non ha perso la voglia di correre incurante dei rischi e di quello che c’è a bordo strada.
Mettiamocelo in testa perché è così: oggi siamo tutti come l’autista del camion della foto, fermo a un passo dal baratro e risparmiato dal caso. Dopo questo ferragosto tragico lui non sarà più uguale a prima, come del resto – presumibilmente – il personaggio di Gassmann: di fronte alla immagini di Genova c’è da sperare che lo stesso valga anche per ciascuno di noi.
Mando un forte abbraccio agli amici e ai compagni genovesi, come a tutti i miei parenti: qualcosa mi dice che dopo oggi nemmeno loro saranno più gli stessi.
Roberto dice
L’autore in questo articolo descrive esattamente le stesse sensazioni che ho avuto io quando ho appreso la notizia, anche se non ci passo così spesso da Genova visto che sono di Lucca, ma quel ponte vertiginoso era molto familiare anche a me.
E chissà quante volte mi ha sfiorato il pensiero, la paura, di finirci di sotto a quel ponte, quando percorrevo la rampa curva al suo ingresso.
Genova per me è stata anche teatro di un giorno dopo il quale in effetti non sono stato più lo stesso nel mio rapporto con l’informazione e le istituzioni, il G8 del 20 e 21 luglio 2001, ma da allora molte volte la memoria di quell’evento è sfumata di fronte alla routine e alla fatica di affrontare i problemi quotidiani. Pensare con la propria testa richiede un esercizio continuo, ogni giorno.
Mi unisco alla speranza dell’autore che questo tragico evento ci resti per sempre impresso per segnare un cambiamento, un colpo di reni della nostra società.
Un abbraccio di solidarietà a tutte le persone coinvolte in questa tragedia.
Roberto
Roberto Renzoni dice
Purtroppo ed in tempi brevi, che non scongiureranno altre tragedie, non c’è modo di evitare queste opere che distruggono ambiente, territorio e vite umane. Chi comanda di qualunque colore sia – ammesso vi sia una differenza nel colore – le grandi opere le deve fare; chi le subisce ha da resistere. Non sono assenti le resistenze, che crescano e si rafforzino.