Siamo quelli che respingono, ci scopriamo vulnerabili, ci troviamo a vagare in strade semideserte senza capire come abbiamo fatto a diventare l“’altro” in una manciata di ore. Ci scopriamo prima di tutto ciechi di paura, ma come i protagonisti di Cecità possiamo capire che in realtà lo siamo diventati, è la paura che acceca. Per questo possiamo sfruttare l’occasione della forzata empatia di questi giorni per riscoprirci allo stesso tempo fragili e solidali. Saramago direbbe «anche l’amore, che dicono sia cieco, ha da dire la sua»
Sono tornata nella mia stanza di ragazza per cercare quel libro che mi aveva lasciata turbata e pensierosa tanti lustri fa. Uno di quei libri che ti ricordi nitidamente: rammenti i colori della copertina, dov’eri quando lo leggevi e le sensazioni che sedimentavano nell’anima sfogliandolo. In quel libro c’era già tutto: la paura del contagio, il fastidio per il diverso, la spietatezza, le restrizioni, l’anonimato dei protagonisti individuabili solo per il loro ruolo (il medico, la moglie ecc), la bestialità dell’uomo e la banalità del male, ma anche la speranza di una resistente e salvifica solidarietà.
In queste interminabili giornate cittadine di limitazioni, ansia, imposizioni, chiusure e sospetti a ogni colpo di tosse, rileggere Cecità di José Saramago può essere una sorta di antidoto omeopatico al panico da contagio.
C’erano tra quelle pagine già tutti i sintomi del nostro malessere. E anche le indicazioni per la terapia.
Il rallentamento (almeno se non sei un medico o un infermiere) di queste giornate sospese e timorose può aiutare a scoprire che “dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo” e siamo, o possiamo essere, malattia ma anche cura.
Siamo quelli che respingono, forti della nostra buona sorte e del nostro passaporto rosso e giusto in tasca, ma anche quelli che oggi, respinti a nostra volta per una grottesca catarsi, si indignano delle frontiere e tentano di abbattere o almeno di eludere confini e zone rosse.
Siamo quelli dominati dalla paura dell’”altro” che ora improvvisamente si trovano a suscitare allarme e pregiudizi negli “altri” e a subire conseguenti forme di allontanamento.
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Francia, Slovenia, Svizzera, Israele, Arabia Saudita, Giordania, Kwait e Iraq non gradiscono la nostra infetta presenza e l’Algeria ha appena respinto una nave di connazionali imponendoci quella pratica di chiusura dei porti della quale, pure, siamo maestri. Una dispettosa nemesi.
Le polizie tedesche e svizzere mosse a compassione hanno sospeso i respingimenti di stranieri irregolari o “dublinati” verso il nostro virulento Paese.
E noi attoniti ci troviamo di colpo a vagare in strade semideserte con costosissime mascherine a tapparci la bocca (ma a Genova se ne vedono poche perché siamo più parsimoniosi che paurosi) senza capire neppure come abbiamo fatto a diventare l“’altro” in una manciata di ore.
Ci scopriamo vulnerabili, deprivati repentinamente dell’immunità alle sfighe della quale, con insensata spocchia, ci sentivamo, immeritatamente titolari. A dire il vero a Genova le piogge e i crolli avevano già dolorosamente incrinato la nostra sicurezza di crederci esonerati da catastrofi e sventure. Ma mai ci eravamo sentiti così disarmati ed esposti a flagelli e discriminazioni che pensavamo fossero solo destinati ad “altri”.
Ci scopriamo ciechi di paura e come i protagonisti senza nome del libro potremmo capire che
“eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecati”.
Ma potremmo sfruttare l’occasione della forzata empatia di questi giorni per riscoprirci oltre che fragili anche solidali. Saramago direbbe
“anche l’amore, che dicono sia cieco, ha da dire la sua”.
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Alessandra Ballerini è avvocata civilista specializzata in diritti umani e immigrazione. Tra i suoi libri La vita ti sia lieve (per Melampo edizioni), storie di migranti e altri esclusi.
Fonte: Repubblica di Genova (qui pubblicato con l’autorizzazione dell’autrice).
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