Il bisogno di sole, del cielo azzurro e del verde degli alberi, dell’odore dei boschi e dell’oceano, il bisogno di toccare, odorare, dormire, fare l’amore. Questo insieme di bisogni e desideri, che per migliaia di anni è stata la condizione di base per la riproduzione sociale, è qualcosa che il capitalismo ha incessantemente tentato di superare. In questo straordinario articolo, tratto da Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo (D Editore), Silvia Federici ricostruisce una storia del corpo: non lo fa descrivendo le diverse forme di repressione, ma raccontando il corpo come terreno di resistenza. La nostra lotta deve oggi cominciare con il riappropriarsi del corpo, conclude Federici, e possiamo farlo aggrappandoci, ad esempio, alla filosofia presente nella danza, perché mima i processi tramite i quali ci relazioniamo con il mondo, con gli altri corpi, trasformiamo noi stessi e lo spazio intorno a noi. “I nostri corpi hanno ragioni che dobbiamo imparare a conoscere, riscoprire, reinventare. Dobbiamo ascoltare il loro linguaggio come via per la salute e la cura. Allo stesso modo dobbiamo ascoltare il linguaggio e i ritmi della natura…. Esiste una politica immanente nel corpo: la capacità di trasformarsi, di trasformare gli altri, e di cambiare il mondo…”
La storia del corpo è la storia degli esseri umani, perché non esiste pratica culturale che non venga come prima cosa applicata al corpo. […] Si può ricostruire una storia del corpo descrivendo le diverse forme di repressione che il capitalismo ha attivato nei suoi confronti. Invece ho deciso di scrivere del corpo come terreno di resistenza, cioè del corpo e dei suoi poteri – il potere di agire, di trasformarsi, del corpo come limite allo sfruttamento. Abbiamo perso qualcosa in mezzo all’esistenza con cui guardiamo al corpo come costrutto sociale e performativo. La sua visione come produzione sociale (discorsiva) nasconde il fatto che esso sia un contenitore di poteri, capacità e resistenze sviluppate nel lungo processo di evoluzione in simbiosi con l’ambiente e tenendo conto delle pratiche intergenerazionali che hanno posto un limite naturale al suo sfruttamento. Per corpo come “limite naturale” mi riferisco alla struttura di bisogni e desideri creata non solo dalle decisioni che prendiamo con cognizione di causa o dalle pratiche collettive, ma anche dai milioni di anni di materiale evolutivo: il bisogno di sole, del cielo azzurro e del verde degli alberi, dell’odore dei boschi e dell’oceano, il bisogno di toccare, odorare, dormire, fare l’amore.
Questa struttura accumulata di bisogni e desideri, che per migliaia di anni è stata la condizione di base per la riproduzione sociale, ha posto dei limiti al nostro sfruttamento ed è un qualcosa che il capitalismo ha incessantemente tentato di superare.
Il capitalismo non è il primo sistema basato sullo sfruttamento del lavoro umano. Più di qualsiasi altro sistema conosciuto, però, ha cercato di creare un’economia in cui il lavoro fosse il principio essenziale dell’accumulazione; è stato dunque il primo a rendere l’irreggimentazione e la meccanizzazione del corpo la chiave per l’accumulazione di ricchezza. Uno dei suoi principali compiti sociali è stato fin dal principio quello di trasformare le nostre energie e i poteri del nostro corpo in poteri da utilizzare per lavorare.
In Calibano e la Strega (2004) ho analizzato le strategie che il capitalismo ha adottato per riuscire in questo suo intento, per rimodellare la natura umana così come ha cercato di rimodellare la terra per renderla più produttiva e per far diventare gli animali delle fabbriche viventi. Ho parlato della storica battaglia che ha intrapreso contro il corpo, contro la nostra materialità, e delle molte istituzioni che ha fondato a questo scopo: la legge, la frusta, la regolamentazione della sessualità, insieme alla miriade di pratiche sociali che hanno ridefinito la nostra relazione con lo spazio, con la natura e tra esseri umani.
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Il capitalismo è nato dalla separazione della gente dalla terra, e il suo primo compito è stato quello di rendere il lavoro indipendente dal susseguirsi delle stagioni, in aggiunta ad aver allungato la giornata lavorativa oltre i limiti di sopportazione. Generalmente si sottolinea l’importanza dell’aspetto economico in tutto questo processo, della dipendenza economica che il capitalismo ha creato sulla base di relazioni di tipo monetario, e del suo ruolo nella formazione di un proletariato salariato. Ciò che non sempre cogliamo è quel che la separazione dalla terra e dalla natura ha significato per il nostro corpo, pauperizzato e privato dei poteri attribuitigli dalle popolazioni precapitalistiche.
La natura, come sostenuto da Marx è il nostro corpo inorganico, ed è esistito un tempo in cui riuscivamo a leggere i venti, le nuvole e i cambiamenti nelle correnti dei fiumi e dei mari. […]
La fissazione per lo spazio e per il tempo costituisce una delle tecniche più elementari e persistenti che il capitalismo ha usato per appropriarsi del corpo. Osserviamo gli attacchi che lungo il corso della storia hanno colpito vagabondi, migranti e senzatetto. La mobilità è una minaccia se non è in funzione del lavoro, dato che fa circolare conoscenza, esperienze, lotte. In passato gli strumenti di controllo erano le fruste, le catene, i ceppi, la mutilazione, la schiavitù. Oggi, oltre alla frusta e ai centri di detenzione, come metodi per controllare il nomadismo abbiamo la sorveglianza informatica e la periodica minaccia delle pandemie sulla scia dell’influenza aviaria.
La meccanizzazione – la trasformazione del corpo, maschile e femminile, in una macchina – è da sempre uno dei propositi del capitalismo. Anche gli animali sono ridotti a macchine, cosicché le scrofe possano raddoppiare i cuccioli, cosicché le galline possano produrre un flusso ininterrotto di uova mentre quelle improduttive sono costrette a terra, impossibilitate a stare sulle zampe prima di venire portate al macello. […] Perciò nel XVI e nel XVII secolo (il tempo della manifattura), troviamo il corpo immaginato e disciplinato secondo il modello delle macchine semplici, come la pompa o la leva. Si trattava di un regime culminato nel taylorismo, nello studio di tempi e metodi, in cui ogni movimento era calcolato e tutte le energie incanalate verso il compito da svolgere. La resistenza assumeva allora la forma dell’inerzia, con il corpo dipinto come un animale stupido, un mostro che si oppone agli ordini.
Con il XIX secolo, invece, abbiamo una concezione del corpo e delle tecniche di disciplina modellate sul motore a vapore, dove la produttività era calcolata in termini di input e output, e dove “efficienza” diventa la parola chiave. Sotto questo regime la disciplina del corpo veniva messa in atto attraverso restrizioni alimentari e con il calcolo delle calorie necessarie per lavorare. Il punto massimo, in questo contesto, fu la tabella nazista in cui viene specificato di quali calorie necessitava ciascun tipo di lavoratore. Qui il nemico era la dispersione di energia, l’entropia, lo spreco, il disordine. Negli Stati Uniti, la storia di questa nuova economia politicizzata comincia negli anni intorno al 1880, con l’attacco ai locali e il rimodellamento della vita familiare con al suo centro la casalinga a tempo pieno concepita come strumento anti-entropico sempre a disposizione, pronta a cucinare un nuovo pasto, ad asciugare un corpo sporco dopo averlo lavato, a sistemare un vestito appena rammendato e di nuovo consunto.
Ai nostri tempi, i modelli per il corpo sono il computer e il codice genetico, che costruiscono un corpo de-materializzato, disaggregato, immaginato come un conglomerato di cellule e geni, ognuno con il suo programma, che non si cura del resto e del bene per il corpo nella sua totalità. […]
Abbiamo interiorizzato questa visione al punto da aver interiorizzato la più profonda esperienza di alienazione autoimposta, dato che non solo dobbiamo affrontare una grande bestia che non obbedisce ai nostri ordini, ci troviamo davanti anche un gruppo di micro-nemici impiantati proprio dentro di noi, pronti ad attaccarci in qualsiasi momento. Le aziende sono state costruite sulla paura generata da questa concezione del corpo, mettendoci alla mercé di forze che non controlliamo. È inevitabile, dunque, se interiorizziamo questa visione, non piacersi. Il nostro corpo ci spaventa, e non lo ascoltiamo. Non ascoltiamo ciò che vuole ma ci uniamo all’attacco contro di lui con tutte le armi che la medicina ha da offrire: radiazioni, colonscopie, mammografie, e noi ci uniamo a questo attacco piuttosto che levare il corpo dagli spari. Così facendo siamo pronti ad accettare un mondo che trasforma le parti del corpo in merce per un mercato, lo vediamo come un deposito di malattie: il corpo come piaga, come fonte di epidemie, il corpo senza ragione.
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Allora la nostra lotta deve cominciare con il riappropriarsi del corpo, con la sua rivalutazione e la riscoperta della sua capacità di resistere, di espandersi, deve cominciare con la celebrazione dei suoi poteri individuali e collettivi.
La danza è centrale per questa riappropriazione. Nella sua essenza, l’atto di danzare è un’esplorazione e un’invenzione di ciò che il corpo è in grado di fare: delle sue capacità, dei suoi linguaggi, delle sue articolazioni, di quel che desideriamo in quanto esseri umani. Sono arrivata alla conclusione che ci sia della filosofia nella danza, poiché mima i processi tramite cui ci relazioniamo con il mondo, con gli altri corpi, trasformiamo noi stessi e lo spazio intorno a noi. Dalla danza impariamo che la materia non è stupida, non è cieca, non è meccanica ma ha i suoi ritmi, i suoi linguaggi, e che si attiva da sé, si organizza da sé. I nostri corpi hanno ragioni che dobbiamo imparare a conoscere, riscoprire, reinventare. Dobbiamo ascoltare il loro linguaggio come via per la salute e la cura. Allo stesso modo dobbiamo ascoltare il linguaggio e i ritmi della natura come via per la salute e la cura della terra. Il potere di influenzare ed essere influenzati, di muoversi ed essere mossi, capacità irriducibile che si esaurisce solo nella morte, è costitutiva del corpo. Esiste una politica immanente in esso: la capacità di trasformarsi, di trasformare gli altri, e di cambiare il mondo.
Lergio dice
https://www.zone-info.it/wp/?p=5112
Federico Battistutta dice
Lo trovo un testo letteralmente magnifico!
Angela Marchini dice
Grazie!
Silvia Di Fazio dice
Ho letto con molto piacere tutto quello che Silvia Federici ha scritto, in particolare la chiusa dell’articolo:
” Esiste una politica immanente nel corpo: la capacità di trasformarsi, di trasformare gli altri, e di cambiare il mondo”.
Angela Irma Par dice
Ode al corpo danzante.
Ode a Silvia Federici, immensa.