
“Vogliamo sapere quale paura e quale rabbia
possano essere soddisfatte dalla distruzione“
(Women’s Pentagon Action, Dichiarazione unitaria, 1981)
Inquinamento di acque, suoli, aria. Fin dai primi giorni dell’invasione dell’Ucraina la guerra ha avuto un drammatico impatto sulla popolazione e si è rivelata un incubo ecologico. Migliaia di ordigni esplosivi sono stati lanciati su città, industrie, depositi di materiali tossici, boschi, zone protette e nei pressi delle centrali nucleari.
“Se si considera l’aumento delle emissioni dovute all’attività militare – ha detto Doug Weir, direttore di Ceobs (Conflict and Environment Observatory) -, la fuoriuscita di sostanze tossiche e le nubi causate dalla distruzione delle industrie e dei depositi di carburante, la contaminazione del suolo e delle acque con metalli pesanti e sostanze chimiche rilasciate dalle armi, la distruzione dei raccolti e della vita selvatica, l’impatto è sbalorditivo”.
In un paese altamente industrializzato e tra i più inquinati al mondo, e in particolare nel Donbass dove il conflitto che ha infuriato dal 2014 ha lasciato la regione sull’orlo della catastrofe ambientale – 530.000 ettari distrutti, di cui 150.000 di foreste – le conseguenze a lungo termine e permanenti saranno incalcolabili.
Secondo il ministero ucraino per l’ambiente e le risorse naturali, nel 2020 vi erano nel paese 23.727 aziende potenzialmente pericolose e 2987 depositi di pesticidi altamente tossici situati nelle vicinanze dei centri urbani.
Alle nubi nere che persistono per giorni causate dagli incendi degli apparati industriali si aggiungono costantemente enormi quantità di particelle di cemento, vetro, amianto, diossina e altri componenti tossici rilasciati nell’atmosfera dai bombardamenti sulle città. Si aggiunga l’inquinamento del mare dovuto alle mine e allo sversamento di sostanze inquinanti che estenderà i suoi effetti mortali alle acque di mari lontani.
Nel complesso si calcola che decine di migliaia di chilometri quadrati del paese dovranno essere bonificati da mine, residui di esplosivi, rottami di migliaia di carri armati e la coltivazione dei suoli sarà a lungo impossibile. Lo ricorda l’esito della guerra russa in Cecenia dove metà dei terreni “non offrono più le condizioni ambientali per la vita”, intrisi come sono di 20.000 tonnellate di inquinanti.
Ma è stato il rischio nucleare in seguito all’occupazione e al danneggiamento delle più grandi centrali d’Europa che, insieme alle minacce di ricorrere alle armi nucleari da parte del presidente Putin, hanno dato la dimensione della catastrofe umana ed ecologica che getta la sua ombra sul mondo. La reale entità delle distruzioni non sarà conosciuta che dopo la cessazione delle ostilità, ma rispetto ad altri conflitti gli insulti all’ambiente naturale sono stati monitorati e accertati con maggiore prontezza e hanno ricevuto maggiore attenzione. A partire dalla fine di febbraio numerose istituzioni pubbliche e organizzazioni non governative compiono regolarmente accertamenti. Il ministero per la protezione ambientale e le risorse naturali dell’Ucraina fino ad ora ha pubblicato 12 rapporti e ha registrato 254 crimini contro l’ambiente. Coadiuva il ministero Ekodia, una ong ucraina impegnata nel contrasto al cambiamento climatico.
Tra le organizzazioni pacifiste è stata l’olandese PaxforPeace, che già aveva monitorato i danni ambientali nel corso della guerra in Siria e in Iraq, a seguire la situazione per identificare i siti che presentano rischi a medio e lungo periodo attraverso i social e le immagini satellitari. Anche Ceobs, una organizzazione non-profit sorta in Inghilterra che compie studi sulle conseguenze ecologiche dei conflitti e avanza proposte per proteggere l’ambiente anche in tempo di guerra, già dopo le prime 48 ore di guerra aveva registrato le distruzioni e prospettato i rischi causati dal conflitto.
La distruzione degli ecosistemi: foreste, steppe, zone umide
Se i danni ambientali che hanno ripercussioni dirette sulla vita umana hanno ricevuto una crescente attenzione, lo stesso non si può dire della distruzione degli ecosistemi, della perdita di biodiversità, del destino di molte specie di animali protette sospinte nella notte dell’estinzione e di quello degli animali selvatici in generale già drammatico a causa della crisi climatica e dalla continua deforestazione. Secondo l’ultimo rapporto del ministero ucraino per l’ambiente il 20 per cento delle zone protette ha subito danni gravissimi.
Molto è stato scritto sugli animali domestici che hanno condiviso con la popolazione il trauma dell’esodo, si sono sperduti o sono stati abbandonati. Si è parlato molto meno della sorte degli animali che vivono in condizioni di prigionia e sfruttamento nelle campagne e nelle città – circhi, zoo, parchi di divertimento – anch’essi colpiti dai bombardamenti, e ancor meno degli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi, esposti a una morte più atroce di quella per cui sono stati fatti nascere. Solo le organizzazioni contro la crudeltà nei confronti degli animali, come World Animal Protection o le associazioni antispeciste, che considerano gli animali come individui e non solo astrattamente come “specie”, hanno dato visibilità alle loro sofferenze e alla morte di massa (leggi veganzetta.org e veganfta.com).
La guerra ha causato danni ingenti alle foreste, prima fra tutte la foresta di Irpin presso Kiev e Buča, dove si sono svolti i combattimenti che hanno portato alla riconquista del territorio. “La violenza al paesaggio è brutale e onnipresente: terra bruciata, sottobosco devastato dai missili, alberi spezzati e sradicati, attrezzature militari sparse ovunque”. La foresta è ora un cimitero di carri armati russi (fonte edition.cnn.com).
La guerra inoltre sta alterando gli habitat naturali e i corridoi migratori di numerose specie animali. Nel periodo più delicato dell’anno, “il rumore” della guerra e la devastazione degli habitat possono interrompere i cicli vitali di un gran numero di uccelli e mammiferi. L’Ucraina, infatti, ha ricordato Les Underhill, già direttore della Animal Demography Unity dell’Università di Cape Town, si trova al crocevia di importanti rotte migratorie di oltre 400 specie di uccelli provenienti dalle regioni del Paleartico occidentale e della zona afro-eurasiatica.
Decenni di impegno di conservazione delle zone umide uniche al mondo rischiano di essere spazzati via in poche settimane. È il caso della Polesia, il “Serengeti europeo”, una zona umida di 180.000 chilometri quadrati, uno scrigno della biodiversità per la quale era stata avanzata la proposta di inclusione nell’Unesco World Heritage. Altre zone protette di grande rilievo sono quelle del Delta del Danubio e delle coste del Mar Nero-Azov, anch’esse devastate dal conflitto (fonte newscientist.com).
Sempre sulle coste del Mar Nero e su quelle di Turchia, Bulgaria e Romania si è riscontrato “uno straordinario aumento” della mortalità dei delfini dovuto con tutta probabilità ai traumi acustici provocati dalle attività militari che hanno costretto gli animali a cambiare le loro rotte migratorie (fonte The guardian).
Se è vero che la Russia porta la responsabilità in grandissima parte dei danni ambientali, non bisogna dimenticare che anche l’esercito ucraino contribuisce al danneggiamento della natura e che i combattimenti che si svolgono sul territorio vedono impegnati entrambi gli eserciti nell’opera di distruzione. Lo ha ricordato recentemente Olena Kravčenko, direttrice esecutiva di Environment People Law, un centro di ricerca ambientale di Leopoli. Non solo le attività di conservazione sono cessate, ma le risorse naturali, come le foreste, sono sfruttate sempre più intensamente, impoverendo progressivamente il manto verde del paese e condannando a morte la fauna selvatica. “Si dice che l’abbattimento dei boschi avviene per i bisogni dell’esercito, ha dichiarato Kravchenko. Ma è per i bisogni dell’esercito o a causa della corruzione che esiste nell’industria forestale? I danni all’ambiente vengono da entrambe le parti” (edition.cnn.com).
Oltre alle distruzioni causate dalle armi, la guerra uccide la natura in molti altri modi: aggravando la corruzione e le attività illegali di sfruttamento e commercializzazione di animali e risorse naturali, causando la sospensione del lavoro delle ong impegnate in progetti di protezione ambientale e l’abbandono dei progetti stessi da parte dei governi (ceobs.org).
Clima
Ogni giorno che passa la possibilità che l’Ucraina possa conservare parte del suo ambiente naturale intatto si restringe, così come si restringe globalmente la possibilità di passare a una economia non dipendente dai combustibili fossili. Com’è noto, la guerra è il fattore più importante dell’aggravamento del riscaldamento globale e porta ad un aumento esponenziale delle emissioni (ceobs.org). Anche in tempo di pace l’entità delle emissioni delle attività militari è enorme, molto spesso non rilevata o “nascosta” sotto altre attività (la voce aviazione militare scompare sotto quella generale di aviazione; l’industria militare sotto quella generica di attività industriali, le basi militari sotto quella di “edifici pubblici”) e la valutazione del 6 per cento delle emissioni globali è molto al di sotto della realtà (globalcitizen.org).
Secondo gli studi compiuti negli ultimi anni, le emissioni nel corso delle guerre hanno raggiunto picchi elevatissimi. Si calcola che gli Stati Uniti e i suoi alleati abbiano fatto esplodere oltre 337.000 bombe e missili in paesi extraeuropei negli ultimi venti anni. In un dettagliato rapporto il Watson Institute della Brown University, si afferma che la guerra al terrorismo ha causato il rilascio di 1,2 miliardi di metri cubi di gas climalteranti nell’atmosfera (pdf).
Oltre ai danni diretti, la guerra in corso impedisce o ritarda gli impegni presi sulla riduzione dell’uso dei combustibili fossili.
Nel novembre 2021 la Russia si è dotata di uno strumento legislativo che prevedeva l’azzeramento delle emissioni entro il 2060. Benché il presidente della commissione parlamentare per l’ecologia Fetisov abbia affermato che la Russia rispetterà gli accordi di Parigi, da più parti si stanno moltiplicando le pressioni affinché si abbandoni quell’impegno e le compagnie energetiche continuano a chiedere un allentamento dei limiti alle emissioni e la cessazione delle verifiche (theconversation.com).
Le sanzioni, inoltre, hanno interrotto la cooperazione internazionale con gli scienziati russi impegnati negli studi sul clima e nella messa a punto di misure per la decarbonizzazione ed è stato impedito loro l’accesso alle banche dati sul clima.
Infine, c’è da temere che la guerra, rafforzando il militarismo e la sua logica, rafforzi anche la tesi che il cambiamento climatico sia una causa di instabilità e che richieda una soluzione militare, in primo luogo attraverso l’incremento di risorse e di armamenti (globalcitizen.org).
Com’è noto, il riscaldamento globale inasprisce la competizione per le risorse. A parere di Svetlana Krakovska, la climatologa ucraina a capo della delegazione dei ricercatori ucraini dell’Ipcc, tra le cause della guerra non bisogna dimenticare la questione della scarsità di acqua in Crimea (climatechangenews.com). Prima dell’annessione nella penisola l’85 per cento dell’acqua potabile giungeva dal fiume Dnepr attraverso il canale settentrionale della Crimea, ma dal 2014 l’Ucraina ha interrotto questo approvvigionamento e la crisi idrica nella penisola si è andata progressivamente acuendo. Il timore che un disastro ecologico, umano e sanitario dovuto alla scarsità di acqua potesse aumentare le pressioni per la restituzione della Crimea, già nel 2020 aveva fatto prevedere un’aggressione russa dell’Ucraina per il controllo delle risorse idriche (euromaidanpress.com). Da qualche tempo, tuttavia, una grave siccità ha colpito anche l’Ucraina, mentre le sue acque giorno dopo giorno vengono inquinate dalle attività militari.
L’imputabilità penale
“La Russia pagherà per questi crimini – ha detto Evgenia Zasiadko, la studiosa che dirige la sezione di Ekodia dedicata al clima –, non solo per le persone che sono state uccise o in qualche modo colpite, non solo per le infrastrutture e le città, ma anche per i danni all’ambiente”. (globalcitizen.org). L’Ucraina – ha presagito il ministro della Protezione ambientale Ruslan Strelets – potrebbe diventare il primo paese al mondo a ricevere risarcimenti per crimini di ecocidio.
Fin dai primi giorni di marzo l’ufficio del procuratore generale ucraino ha definito le occupazioni delle centrali nucleari un atto di terrorismo e un “mandato di ecocidio”; il termine ecocidio è stato usato anche per descrivere i bombardamenti russi dei centri di ricerca di Kiev in cui è conservato materiale nucleare (https://science.thewire.in).
L’Ucraina è tra i pochi paesi (insieme alla Russia) che contemplano nel proprio codice penale il crimine di ecocidio inteso come “distruzione di massa di flora e fauna, avvelenamento di aria e acque e altre azioni che possono causare un disastro ambientale”.
A livello internazionale invece, mancano strumenti adeguati. Infatti, la gravità dei danni causati dalla guerra ha messo in luce anche la fragilità degli strumenti giuridici a protezione dell’ambiente. Dal punto di vista giuridico le difficoltà di vedere riconosciuti i crimini di ecocidio è stata messa in luce recentemente da Rachel Killean, giurista della Queen’s University di Belfast (ceobs.org).
L’ufficio del procuratore della Corte penale internazionale, scrive Killean, ha annunciato che avrebbe aperto un’indagine sui crimini commessi in Ucraina, ma l’esito è quanto mai incerto. In base allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (1998), articolo 8(2), la Corte ha competenza su atti quali: “deliberati attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza la perdita di vite umane tra la popolazione civile, e lesioni a civili o danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti” (pdf). L’imputabilità si basa dunque, continua Killean, su un punto di vista soggettivo militare e riconosce il principio della necessità militare e quello della proporzionalità della violenza rispetto all’obbiettivo. Il riconoscimento dei crimini di ecocidio potrebbe avvenire collegandoli ai crimini di guerra e contro l’umanità commessi contro i civili. Le norme a protezione dei civili, infatti, proteggono anche l’ambiente da cui le popolazioni dipendono. In prospettiva, conclude la giurista, la soluzione più opportuna sarebbe quella di includere nello statuto della Corte penale internazionale il crimine di ecocidio, così come già include il crimine di genocidio. È questo lo scopo della campagna Stop Ecocide.
Ma è certo che nessuna forma di riparazione potrà porre rimedio alle estinzioni delle forme di vita e ai danni degli ecosistemi che, una volta distrutti, non ritorneranno mai più al loro stato originario. L’erba e gli alberi potranno forse ricrescere, ma i livelli di inquinamento saranno permanenti e non solo in Ucraina; le sostanze tossiche rilasciate nell’aria, inevitabilmente ricadranno con la pioggia sui suoli e nei fiumi con tutto il loro potenziale di morte e malattie, e i bambini saranno le prime vittime. Come ha dichiarato in più occasioni Doug Weir, i rimedi che si posso portare alla distruzione ambientale sono molto costosi, difficili dal punto di vista tecnico e, come si è visto nel caso di altri conflitti, non sono stati messi in atto (leggi euronews.com e abcnews.go.com).
La protezione dell’ambiente in relazione ai conflitti armati
Da circa un decennio la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, nel tentativo di includere nella normativa il concetto di protezione dell’ambiente prima, durante e dopo i conflitti e di estenderlo all’“ambiente delle popolazioni indigene”, ha elaborato una serie di linee guida articolate in 28 punti (progetto Perac, Protection of Environment in relation to Armed Conflicts) che, sebbene introduca il principio nuovo della protezione, non si discosta da quello della proporzionalità della violenza in base alle necessità militari. “La proibizione di saccheggio o di attacco di una parte di un ambiente naturale”, si legge al principio 13(3) del progetto, si applica solo nel caso in cui quell’ambiente non sia diventato un obiettivo militare (ceobs.org).
In autunno 2022 il progetto dovrebbe essere portato all’assemblea generale dell’Onu. Si legge nel rapporto che sintetizza le posizioni dei vari stati sulle linee guida. Il processo Perac ha preso avvio dalla consapevolezza che il solo diritto internazionale umanitario non era in grado di garantire sufficiente protezione all’ambiente e perché altri corpi di legge, come i diritti umani e il diritto internazionale dell’ambiente, potevano essere applicati per l’intero ciclo temporale dei conflitti e pertanto potevano colmare i vuoti della protezione (ceobs.org)
E tuttavia molte sono state le obiezioni da parte di alcuni stati; anche la formulazione del punto 13, “l’ambiente naturale sarà rispettato e protetto in accordo con il diritto internazionale applicabile e in particolare con le leggi di guerra”, ha suscitato resistenze. La proibizione di rappresaglie sull’ambiente o sui civili è un altro principio (16) che ha sollevato l’opposizione da parte delle potenze nucleari, tanto che, hanno scritto Karen Hulme e Doug Weir nel 2021, è stato incluso solo nelle raccomandazioni finali1. Francia, Regno Unito, e particolare gli Stati Uniti, stati che si sono tenacemente opposti all’applicazione dei principi del diritto internazionale umanitario all’ambiente, hanno invocato la necessità di essere libere di prendere misure coercitive, ovvero, come ha affermato Doug Weir, “di usare le armi atomiche” (https://science.thewire.in).
Il nucleare si rivela dunque sempre cruciale nella strategia delle maggiori potenze e la volontà di considerare l’ambiente un legittimo bersaglio è costantemente ribadita.
Eppure, molti altri stati, così come molte organizzazioni internazionali e della società civile in vari paesi stanno spingendo verso un’altra direzione, verso la protezione dei civili e la prevenzione della distruzione ecologica. Lo ha ricordato Ray Acheson con riferimento al progetto di Humanitarian Disarmament, attualmente impegnato nella proibizione delle armi esplosive (humanitariandisarmament.org).
Oltre alla proibizione delle mine antiuomo, delle munizioni a grappolo, delle armi nucleari e l’impegno incessante per prevenire le armi autonome, il lavoro per porre fine alla violenza delle armi esplosive è parte di un progetto più ampio di “Humanitarian Disarmament”. Collettivamente questi sforzi contribuiscono a gettare le basi per ridurre la produzione e il commercio internazionale delle armi e i profitti di guerra. La riduzione delle spese militari, la deviazione dei fondi verso i bisogni sociali e quelli del pianeta, e una inversione delle relazioni internazionali dalla guerra alla diplomazia, la solidarietà e la cura è l’imperativo per la nostra sopravvivenza (wilpf.org).
[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web
di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
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