Abbiamo bisogno di una nuova poetica politica. Per esempio, di una parola nuova per parlare di lotta, concetto che associamo meccanicamente alla mobilitazione, all’agitazione attivista, a un processo separato della vita. Dobbiamo aprire anche quel concetto e reinventare ciò che è lottare. Una lotta è un regalo che ci facciamo: l’opportunità di cambiare, di trasformarci mentre trasformiamo la realtà, di cambiare pelle. Non ce ne sono tante. La catastrofe della società contemporanea non è qualcosa che sta arrivando. È produrre un tipo di relazione con il mondo: la posizione dello spettatore e della vittima. Non si tratta di darle nuovi contenuti ma di uscirne

di Amador Fernández-Savater
In La société du spectacle [La società dello spettacolo], un libro che fin dalla sua uscita nel 1967 è diventato un classico (vale a dire, un libro sempre contemporaneo), il pensatore francese Guy Debord afferma che la vera catastrofe della società moderna non è un evento in arrivo, e nemmeno un processo in corso (cambiamento climatico, ecc.), bensì un tipo di relazione con il mondo: la posizione di spettatore, la soggettività spettatrice.
In che senso? Lo spettatore non entra in contatto con il mondo. Lo vede di fronte a sé. Da un “osservatorio” (lo spettacolo) che concentra lo sguardo: centralizza e virtualizza, separa dalla diversità delle situazioni concrete che compongono la vita. Lo spettatore è incapace di pensiero e di azione: si limita al giudizio esteriore (bene/male), alle genericità e all’attesa. È una figura dell’isolamento e dell’impotenza. Lo spettatore di Debord non è stato affatto superato dall’”interazione” dei social network: si è semplicemente trasformato nell’ “opinionista” dei nostri giorni, che ha sempre qualcosa da dire su ciò che accade (sullo schermo), ma non ha alcuna capacità di cambiare nulla.
Lo spettatore è una categoria astratta, non qualcuno in concreto. Per esempio, è chiunque si relazioni con il mondo esprimendo opinioni sugli argomenti mediatici, senza dare a sé stesso alcun mezzo adeguato per pensare o agire al riguardo. Chiunque di noi può collocarsi nella posizione di spettatore e chiunque può anche uscirne. Questo è ciò che ci interessa adesso. Come uscirne?
Lo spettatore stregato
È appena uscito in Argentina La brujería capitalista (Hekht libros) [in italiano Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio era uscito già nel 2016 per merito di Ipoc, con la bella prefazione di Stefania Consigliere], un libro della filosofa Isabelle Stengers e dell’editore Philippe Pignarre che ci permette di andare avanti su questi temi. Anche per strade diverse da quelle di Guy Debord. Cosa voglio dire?
Per Debord, lo spettatore è un essere ingannato e manipolato. Lo spiega molto chiaramente nei suoi Commentari sulla società dello spettacolo [Commentaires sur la société du spectacle], il libro che ha scritto nel 1988. Stengers e Pignarre spostano tale questione: non si tratta di bugie o di illusioni, bensì di “stregonerie”. Vale a dire: il problema è che la nostra capacità di attenzione viene catturata e la nostra forza di pensiero viene bloccata. Pertanto, l’emancipazione non passa dall’avere o dal dire la Verità, ma dal generare “contro-sortilegi”: trasformazioni concrete dell’attenzione, della percezione e della sensibilità.
Vediamolo con più calma. Lo spettatore rimane intrappolato di continuo in quello che gli autori chiamano “alternative infernali”. Per esempio: o si erigono recinzioni alte e appuntite, o si verificherà un’invasione di migranti. O si abbassano i salari e si smantellano i diritti sociali, o le imprese se ne andranno altrove con il lavoro. Isolato di fronte al suo schermo, lo spettatore è ostaggio dell’alternativa tra due mali. Come sfuggire?
Non si tratta di “critica”. Infatti, lo spettatore può essere molto critico, assistere per esempio indignatissimo -come noi tutti, oggi – allospettacolo della corruzione, godere nel veder rotolare le teste dei potenti, ecc. Però questo non cambia nulla. Continuiamo nella posizione di spettatori: vittime della situazione, ridotti al giudizio morale, alla genericità (“sono tutti corrotti”, la “colpa è del sistema”) e in attesa che qualcuno “risolva” il problema.
Usciamo dalla posizione di spettatori quando torniamo capaci di pensare e di agire. E torniamo capaci di pensare e agire producendo quello che gli autori chiamano una “presa” o un “appiglio”. Vale a dire uno spazio di pensiero e di azione a partire da un problema concreto. In quel momento non siamo più di fronte a uno schermo, esprimendo opinioni e in attesa, ma siamo coinvolti in una “situazione di lotta”. Oggi come ieri, sono queste situazioni di lotta che creano nuove impostazioni, nuovi potenziali e mettono la società in movimento.
Senza pensiero né creazione è impossibile che ci sia alcun sostanziale cambiamento sociale e il male (la corruzione o quant’altro) prima o poi riprodurrà i suoi effetti. In questo senso, mentre blocca il pensiero e la creazione, la società dello spettacolo è una società ferma, un ciclo infinito degli stessi problemi.
Situazione di lotta
Non si apre una situazione di lotta perché si sa, ma proprio al fine di sapere. Non si crea una situazione di lotta perché abbiamo preso coscienza o aperto finalmente gli occhi, ma per pensare e aprire gli occhi in compagnia. La lotta è un apprendistato, una trasformazione dell’attenzione, della percezione e della sensibilità. Il più intenso, il più potente.
Gli autori forniscono diversi esempi; per esempio, la lotta dei farmaci anti-AIDS. Nel 2001, 39 imprese farmaceutiche mondiali, sostenute dalle loro associazioni professionali, hanno aperto un procedimento contro il governo sudafricano che garantiva la disponibilità a costi moderati dei farmaci per l’AIDS. L’alternativa infernale allora diceva: o ci sono brevetti e prezzi alti, oppure è la fine della ricerca. Il progresso ha un prezzo e un costo.
Ma le associazioni di malati di AIDS escono dal loro ruolo di vittime e politicizzano il problema che li colpisce: ricerca, disponibilità dei farmaci, diritti degli ammalati, rapporto con i medici. Pensano, creano, agiscono. Suscitano nuove connessioni con associazioni umanitarie, altri ammalati, imprese farmaceutiche sensibili, Stati favorevoli come il Brasile, ecc. Perché la mappa di una situazione di lotta (gli amici e i nemici) non è mai chiara prima di essere aperta, è la lotta che la ridisegna. Non c’è un “soggetto politico” a priori, la situazione di lotta lo crea.
L’alternativa infernale perde forza e gli industriali finiscono per ritirare la loro richiesta. Non perché gli interessati abbiano opposto loro delle buone argomentazioni critiche, ma perché hanno creato una nuova realtà: nuove legittimità, modi di vedere, sensibilità, alleanze. In una situazione di lotta, ci dicono gli autori, le diagnostiche critiche sono “pragmatiche”, vale a dire, inseparabili dalla questione delle strategie e dei mezzi adeguati. In definitiva, dalle alternative infernali si esce solamente “attraverso il mezzo”: attraverso situazioni concrete, per mezzo di pratiche, dalla vita.
Possiamo pensare, in questo stesso senso, alle lotte degli ultimi anni: dalla PAH a YO SÍ Sanidad Universal, passando per i movimenti dei pensionati e delle donne. Una situazione di lotta è l’ “intellettuale” più potente: non solo descrive la realtà, ma la crea, suscitando nuove connessioni, problematizzando nuovi oggetti, inventando nuovi enunciati. In effetti, gli intellettuali-portavoce (nuovi e vecchi) sorgono molte volte in assenza di situazioni di lotta, per rappresentare coloro che non pensano.
Senza situazioni di lotta non c’è pensiero. Senza pensiero non c’è creazione. Senza creazione siamo intrappolati nelle alternative infernali e spettacolari. La rappresentazione si separa dall’esperienza sociale. Rimangono solo i giudizi morali, le generalizzazioni e l’attesa. Il brusio quotidiano dello spettacolo mediatico e politico, così come dei nostri social network.

Che la gente pensi
Oggi vediamo crescere un po’ ovunque movimenti ultraconservatori. Come combatterli? La soggettività alla quale si rivolgono tutti questi movimenti è la soggettività spettatrice e vittimista: ”il popolo sofferente”. La vittima critica ma non intraprende un processo di cambiamento; ritiene qualcun Altro colpevole di tutti i suoi mali; delega le sue forze ai “salvatori” in cambio di sicurezza, ordine, protezione.
Oggigiorno, ascoltiamo persone di sinistra dire: contendiamo il vittimismo alla destra. Facciamo come Trump o Salvini, ma con altri contenuti, più “sociali”. È una nuova alternativa infernale: fare come la destra affinché la destra non cresca. Un modo di riprodurre la catastrofe che, come dicevamo all’inizio, è inscritta nella stessa relazione da spettatore e da vittima con il mondo.
Nel 1984, a una domanda su che cos’è la sinistra, il filosofo francese Gilles Deleuze rispondeva: “La sinistra ha bisogno che la gente pensi”. A questo punto mi pare l’unica definizione valida e l’unica uscita possibile. Non contendere alla destra la gestione del risentimento, della paura e il desiderio di ordine, ma uscire dalla posizione di vittime. Che la gente pensi e agisca, come si è fatto durante il 15M, l’unico sbarramento contro la deriva a destra che ha funzionato per anni in Spagna.
Dobbiamo smettere di ripetere che “la gente” non sa, che la gente non può, che non ha tempo né lucidità per pensare o agire, che non può apprendere o produrre esperienze nuove, che può solo delegare e che l’unica discussione possibile – tra quelli “edotti”, chiaro, tra quelli che non sono “la gente” – è su quali modi di rappresentanza sono migliori di altri. C’è molta destra nella sinistra.
Bisogna che la gente pensi: non dobbiamo convincerla o sedurla, considerarla come “oggetto” delle nostre pedagogie e strategie. Dobbiamo aprire processi e spazi dove affrontare insieme i nostri problemi, tessere alleanze insperate, creare nuovi saperi. Dobbiamo imparare a vedere il mondo con i nostri occhi, essere i protagonisti del nostro stesso processo di apprendistato.
Pensare è l’unico contro-sortilegio possibile. Implica andare oltre ciò che si sa e inizia con l’assumere un “non sapere”, rischiare di dubitare o vacillare. È l’arte di liberare l’attenzione dalla sua cattura e rovesciarla nella propria esperienza. Mettere il corpo, esattamente quello che manca alla posizione di spettatore, di salottiero, di commentatore della politica, di polemista nei social.
Di sicuro abbiamo bisogno di una nuova poetica politica. Per esempio, di una parola nuova per parlare di lotta, che associamo in modo molto rapido alla mobilitazione, all’agitazione attivista, a un processo separato della vita, ecc. Dobbiamo reinventare ciò che è lottare. In realtà, una lotta è un regalo che ci facciamo: l’opportunità di cambiare, di trasformarci mentre trasformiamo la realtà, di cambiare pelle. Non ce ne sono tante.
Una situazione di lotta non è alcun cammino di salvezza. La vede così solo lo spettatore, che si mette in relazione con tutto dall’esterno. Da dentro, è una trama infinitamente fragile, molto difficile da sostenere e alimentare. Ma è anche quel regalo. L’occasione di imparare, assieme ad altri, di cosa è fatto il mondo che abitiamo, di metterlo in tensione e di metterci in tensione, di metterlo alla prova e metterci alla prova. Per non vivere e morire da idioti, cioè, come spettatori.
Articolo pubblicato su eldiario.es e su Rebelión con il titolo Tener necesidad de que la gente piense
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
Gli altri articoli di Amador su Comune
“Katéchon”
Resistere amando,
non è solo resistere
è anche creare,
aprire gli occhi,
risvegliarsi dal sonno,
sorridere e amare.
È sfuggire lo scontro,
senza capovolgere dialettiche
che si ritrovano sempre contro,
ma entrare in un tempo nuovo.
Porgere la guancia, l’altra,
per incrociare una seconda volta un viso,
per guardarsi negli occhi, piangere,
trovare un amico.
Anche io sto leggendo questo libro.
Non voglio ancora pronunciarmi, da strega mi sento in alcuni casi in affanno dato che gli autori parlano di sortilegi infernali attuati dal capitalismo, ma Castagnola sostiene che alla fine del libro ci sarà una sorpresa …… aspetto e leggo con attenzione, ma spesso il pensiero sfugge via, altrove, come se non capendo, vorrei in realtà dire, non sono d’accordo.
Ma amo leggere, amo i libri; sono per me motivo di grande ispirazione e azione!
Grazie e comunque l’ortica rinasce sempre … anche intorno ai palazzi del potere.
FINITO.
le ultime 30 pagine sono un manifesto di quello che in questi ultimi 10 anni ho agito, pensato, condiviso, riflettuto.
La sorpresa è veramente magica!
Magari si riesce sui temi ad organizzare qualcosa.
Un cerchio?
IL CERCHIO : “il Cerchio non ha né sopra né sotto, né inizio ne fine. E’ il simbolo della totalità, dell’interezza, dell’uguaglianza. E’ una forma pura e in quanto tale racchiude in sé più spazio di ogni altra figura geometrica, così come la sfera ha volume superiore a quello delle altre forme solide, pur occupando una superficie notevolmente inferiore.
Si tratta di forme protettive. (…) Quando vogliamo evocare un senso di eguaglianza in un gruppo, ci sediamo in cerchio per evitare disparità e fare sì che tutte/i possano guardarsi in viso. Quando celebriamo i nostri rituali siamo solite/i tracciare un cerchio per non disperdere l’energia che creiamo. Quando compiliamo un incantesimo o un’intenzione sacra, spesso per sigillarlo lo iscriviamo in una circonferenza”
Il sentiero della Terra . integrarsi con i ritmi della Natura – Starhawk – Le civette di Venexia – I saggi