Certo, la didattica via web può aiutare, se evitiamo accanimenti pedagogici e se siamo consapevoli che fare scuola significa prima di tutto incontrarsi. Tuttavia, in questi giorni difficili dovremmo sapere almeno altre due cose. La prima: per gli alunni in situazione di difficoltà, primi fra tutti i compagni con disabilità, quella didattica è ancora più escludente. La seconda: gli educatori e le educatrici che ogni giorno seguono quei bambini e ragazzi, in questi giorni, lo prevede il loro contratto, non prenderanno lo stipendio
La scuola non c’è, nella nostra regione, l’Emilia Romagna, non c’è da due settimane. Non c’è per nessuno, per i piccolissimi degli asili nido, per i bambini della scuola dell’infanzia, per quelli della primaria e delle medie e per i grandi delle scuole superiori.
Le scuole si stanno organizzando: alcuni insegnanti mandano compiti e suggerimenti ai propri studenti, si va dai consigli di lettura, agli esercizi di recupero e rinforzo, dalle indicazioni di ripasso e studio e di scrittura.
Alcuni insegnanti hanno attivato classi on line e diverse forme di e-learning: insegnanti davanti ai propri pc, studenti davanti al pc, o più probabilmente davanti al tablet e alcuni ai telefoni, per provare a ricomporre una situazione di classe.
Non è semplice, ma in tanti ci stanno provando e alcuni colleghi mi raccontano anche di collaborazioni positive tra compagni, tra chi non ha accesso a internet e altri che mettono a disposizione le proprie abitazioni e i propri strumenti.
Eppure la scuola continua a non esserci, nella misura in cui scuola significa incontrarsi in uno spazio comune e condiviso che si costruisce insieme come spazio di tutti, dove si impara a conoscersi e a riconoscersi secondo un patto educativo, che lega anche i più diversi, per estrazione sociale, per storia personale, per carattere, aspettative ed esperienze. La scuola continua a non esserci come spazio di un noi, in cui ogni io trova il proprio posto e cresce.
La scuola continua a non esserci per gli alunni in situazione di difficoltà, primi fra tutti i compagni in situazione di disabilità, che in questi giorni sono ritornati ad esistere solo dentro le loro famiglie, più o meno forti, allargate, sostenute, a volte molto sole.
Per gli alunni in situazione di disabilità la didattica on line non è possibile nella maggior parte dei casi: molti non leggono, non parlano, non sanno scrivere. Questi ragazzi sono irraggiungibili a distanza, per loro è necessario il contatto fisico, sentire la voce della maestra e della compagna di classe e contemporaneamente tenerla per mano, accarezzarla o semplicemente starle seduta a fianco.
Per loro scuola è costruzione di autonomie sociali e non si può fare in altro modo che a scuola. Per loro scuola è l’unica occasione di trascorrere del tempo insieme ai coetanei, prendere insieme a loro posto al banco, aprire insieme la cartella, fare merenda, rispondere all’appello, colorare, suonare uno strumento, correre in palestra, e non si può fare in altro modo che a scuola.
Alcuni studenti in situazione di disabilità attraverso tablet e applicazioni specifiche riescono a comunicare, a scrivere e a leggere, ma anche per loro la motivazione nasce nell’incontro quotidiano con i compagni e con gli insegnanti. La motivazione a partecipare tutti insieme, a partire dalle diversità, nasce dentro la classe e grazie all’operato di bravi insegnanti ed educatori che sanno lavorare per costruirla e rafforzarla. E non si può fare in altro modo che a scuola.
Allora cosa si fa? So di alcuni insegnanti di sostegno e educatori che hanno telefonato agli alunni, altri li hanno incontrati, altri ancora hanno inviato fotografie, altri ancora hanno preparato lavori, spesso anche su quaderni cartacei, a quadretti grossi, quelli di 1 centimentro, e li hanno consegnati a mano.
Cosa c’è dietro a queste scelte? C’è la consapevolezza che la didattica forse in parte si può fare on line, ma che il lavoro didattico e il lavoro educativo, soprattutto per i più piccoli, soprattutto per gli alunni in situazione di difficoltà, sono tutt’uno, sono una costruzione faticosa e quotidiana, fatta di studio, ascolto, osservazione, attenzione, cura, e non si può fare in altro modo che a scuola. C’è la consapevolezza che per tutti i ragazzi, ma soprattutto, ancora una volta, per i più piccoli e per quelli in situazione di difficoltà occorre costruire delle classi, in cui si apprende perché si è insieme, si apprende dalle domande dell’altro, dai tempi dell’altro, dagli errori dell’altro, dalle curiosità dell’altro, dalle lingue dell’altro e dai silenzi dell’altro, dalla diversità dell’altro, che diventa qualcosa che riguarda tutti, che obbliga tutti a guardarsi e a vedersi da nuovi punti di vista, e le classi, queste classi non possono essere virtuali.
Allora affrontiamo l’emergenza e andiamo avanti, costruiamo comunque le classi virtuali e spediamo i compiti via mail, whatsapp e in tutti i modi a nostra disposizione, scarichiamo app e facciamo tutti del nostro meglio.
Io, da parte mia, cerco di muovermi in queste classi virtuali, carico il materiale per gli alunni in situazione di maggiore difficoltà, cerco di guidare quelli che lontani dalla scuola, rischiano davvero di perdersi, prendo contatti con qualche famiglia e ad alcuni telefono, per sentire le voci, per raccontare la cura che sostiene e motiva.
Io, da parte mia, continuo a provare a svolgere il mio lavoro che è insegnamento ed educazione, e lo faccio, esattamente come a scuola, insieme alle educatrici e agli educatori che lavorano in classe con me. Condividiamo idee, progetti, scambiamo osservazioni, confrontiamo punti di vista e costruiamo lavori, pagine, giochi, letture possibili, ascolti possibili. Dal confronto quotidiano, dal reciproco aiuto, dalle conoscenze e dalle esperienze messe in comune facciamo scuola ogni giorno, e stiamo continuando a farlo anche in questi giorni senza scuola. Eppure le educatrici e gli educatori in questi giorni senza scuola non sono pagati, il loro contratto prevede questo: che se la scuola è chiusa non siano pagati. Come se il loro lavoro non prevedesse anche momenti di programmazione, di riflessione di costruzione, di confronto e scambio, di studio e progettazione.
Pensiamoci ogni volta che accettiamo che i lavoratori più deboli contrattualmente paghino i tagli alla scuola pubblica, i tagli ai servizi e al welfare, paghino sulla loro pelle dovendo accettare contratti senza garanzie, come se non fossero necessari per fare scuola, anche quando la scuola non c’è. Pensiamoci e facciamocene carico, oggi che la scuola non c’è e domani quando la scuola tornerà dentro le classi.
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Fulvia dice
È un articolo molto bello, molto sentito e molto vero: la scuola non può essere una serie di immagini scambiate da lontano: la scuola è stare insieme, fisicamente, è voci, è dialogo in presenza dei dialoganti, è gruppo; in questo momento forse non si può fare altro, ma i nostri governanti non cerchino di convincerci che quella on-line sia ‘scuola’
Laura dice
Ho un figlio con disabilità ormai uscito da 10 anni (con successo) dalla scuola. Abbiamo entrambi un ricordo positivo della scuola e degli insegnanti “di sostegno”. Ma il successo è stato soprattutto merito suo e merito mio. Ho smesso di lavorare e mi sono dedicata alla sua “causa” e anche a quella degli altri con un intenso impegno di volontariato. Sono stata fortunata a potermelo permettere. Mio figlio conduce una buona vita e ha bisogno di un supporto educativo non intensivo ma costante. Questi “educatori” sono spesso precari e altrettanto spesso pagati dalla famiglia (o da mio figlio che lavora). È ingiusto. Ma la causa a parer mio è proprio l’organizzazione del nostro welfare. Per decenni soldi soldi soldi a pioggia, senza senso, senza meriti, senza un piano preciso ed anche purtroppo con qualche imbroglio. Stanziare risorse economiche non basta e a volte è anche dannoso senza un disegno culturale e politico. Se non sai guidare inutile comprarti la Ferrari. Ma anche la 500. Buon lavoro a tutti