La lotta per i beni comuni in Italia ha l’immagine di un fiume carsico che scorre sotterraneo per poi riemergere con forza in superficie. Sebbene sovente lasciato sullo sfondo da istituzioni e media il tema è, infatti, da sempre presente nei movimenti. La straordinaria vittoria dei referendum sull’acqua, le esperienze dei “beni comuni emergenti” (Teatro Valle, Asilo Filangieri….), la Commissione Rodotà, i diversi regolamenti per i beni comuni urbani: quelle lotte hanno coltivato piani teorici e pratici, connessioni con movimenti internazionali e inevitabili conflitti interni gestiti, comunque per far crescere le differenti lotte che si oppongono all’espansione dei rapporti capitalisti. Oggi quel movimento, come ricordano in questo testo Ugo Mattei e Paolo Maddalena, ha rafforzato non solo coesioni interne, ma anche la consapevolezza intorno a due concetti fondamentali (con ricadute sulla vita di ogni giorno ma anche sul referendum del settembre 2020). Il primo: la titolarità dei beni comuni appartiene al popolo inteso come comunità (nello spazio e nel tempo). Il secondo: riconoscere un bene comune significa prima di tutto operare una diffusione del potere decisionale
In Italia la lotta per I beni comuni ha incominciato ad articolarsi, nei primi anni del nostro secolo, come difesa di quanto appartiene al popolo rispetto alle privatizzazioni neoliberali. Attraverso la resistenza per i beni comuni abbiamo articolato un’ideologia politica radicalmente alternativa al neoliberismo, denunciando i veri e propri saccheggi che si sono celati dietro slogan sempre più dominanti quali la concorrenza, l’efficienza, la governance, l’innovazione tecnologica ad ogni costo….
Le tappe salienti sono state: il 2008, con la proposta di riforma della Commissione Rodotà, che ne ha legato la definizione all’implementazione dei diritti costituzionali fondamentali e agli interessi delle generazioni future, senza precisare tuttavia che essi sono “proprietà collettiva” del Popolo sovrano; il 2011, con la clamorosa vittoria dei referendum sull’acqua bene comune, contro il rigurgito del nucleare e la “messa a gara” dei servizi pubblici locali; il 2013 con il movimento per i beni comuni emergenti (Teatro Valle, Asilo Filangieri….) e la cosiddetta Costituente per i beni comuni, guidata dallo stesso Rodotà e che sfociò nella candidatura al Quirinale; il 2015 con la diffusione capillare dei diversi regolamenti per i beni comuni urbani; e infine il 2018 quando, a seguito del crollo del Ponte Morandi, nasceva il Comitato Rodotà per riproporre, sotto forma di Legge Iniziativa Popolare, il vecchio testo di riferimento, del 2008.
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Quest’ultima iniziativa, proprio per il mancato riferimento alla proprietà collettiva del Popolo, ha provocato una spaccatura fra diverse sensibilità del movimento per i beni comuni, depotenziandone la capacità di incidere. La diatriba è stata in realtà più tecnica che sostanziale e a seguito di diverse discussioni fra i giuristi più sensibili a queste tematiche, i tratti teorici unificanti sono tuttavia finalmente prevalsi.
Oggi il movimento per i beni comuni si è ricompattato. Tutti noi oggi riconosciamo che la titolarità dei beni comuni appartiene direttamente al popolo inteso come comunità – nello spazio e nel tempo, quindi comprensiva anche delle generazioni future – ed è perciò direttamente fondata nell’Articolo 1 della Costituzione. È il popolo attraverso il processo democratico inteso nel senso più ampio a “riconoscere” quali siano i beni comuni e dunque a collocarli anche culturalmente “fuori mercato” (res extra commercium), informandone il governo a una logica della cura e del bisogno. Si tratta naturalmente di comunità ecologica aperta, non comunità proprietaria chiusa, e infatti l’accesso e la tutela diffusa, oltre alla gestione condivisa e partecipata sono le cifre strutturali dei beni comuni.
Ogni utilità sociale può essere riconosciuta come “bene comune” attraverso atti politici formali o informali di natura costituente (Bruce Ackerman parla di momenti costituzionali). Riconoscere un bene comune significa operare una “diffusione del potere decisionale” rispetto ad esso, secondo i tratti della democrazia partecipativa autentica, vero brodo di colura della rappresentanza che oggi il movimento dei beni comuni difende votando NO al referendum. Già nel 2016, il Popolo ha ripreso nelle proprie mani il momento costituente, bocciando una trasformazione della Costituzione in chiave decisionista, efficentista e neoliberale. ll vero processo costituente materiale è infatti quello che attua, non che riscrive la Costituzione, proprio a partire dai suoi tratti democratici di sovranità popolare diffusa sui beni comuni. La diffusione del potere (e quindi la massima partecipazione in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni ma anche reinventando tratti di governo democratico dell’economia ai sensi dell’Articolo 43 della Costituzione) è la cifra dominante di ogni discorso sui beni comuni. La Costituzione nata dalle Resistenza è il primo bene comune. Essa deve appartiene, nel modo più collettivo possibile, al popolo italiano.
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