Non basta nominare il concetto di cura come grimaldello per aprire percorsi nuovi nei movimenti e perfino nelle istituzioni. Questo è il tempo per fare un passo ulteriore, dice Lea Melandri, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare, «e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellare. È su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata…». Si tratta di pensare la cura non come costrizione né come ruolo salvifico delle donne, ma come «restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi», e ancora come «buona vita, “passione dell’uomo”…». Appunti verso lo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo
Foto di Giulia Tomassetti Pellegrini, tratta dalla pag. fb NON UNA DI MENO
“Chi si occupa dei lavori di casa – scrivono quelli di Salary.com – dovrebbe guadagnare 7.000 euro al mese…”. Rilevare in termini quantitativi – tempo e denaro – quello che qualcuna, già negli anni Settanta, ha chiamato “il lavoro d’amore“, un lavoro non riconosciuto come tale e come aggregato della grande economia, è sicuramente importante. Sulla violenza domestica si è cominciato a discutere con un certo rilievo dopo che sono usciti rapporti nazionali e internazionali nel merito. Ma non basta. Dovremmo chiederci perché le donne, pur consapevoli che con l’emancipazione, l’integrazione nel mondo del lavoro extradomestico, non è venuta meno la responsabilità della cura e del lavoro domestico, ancora stentano ad abbandonare il potere che viene loro dal rendersi “necessarie”, indispensabili a figli, mariti, padri, ecc. Le cure materne non riguardano solo i figli piccoli – e anche i questo caso, l’accudimento possono farlo uomini e donne, genitori biologici e non biologici -, ma vengono estese anche a persone autonome e in perfetta salute.
Antonella Picchio, femminista economista, impegnata su questi temi da tanti anni, lo dice in modo chiarissimo:
Ciò che distrugge le donne non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza. I patriarchi non si sono mai retti in piedi da soli, perché hanno costruito un sistema patriarcale di controllo sul corpo e le menti delle donne. Non sono solo le pratiche e i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita dei nostri compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi.
Le donne sono “schiave” della loro forza? “Il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”, scrive Sibilla Aleramo.

A sottrarre la cura alla naturalizzazione che ne aveva fatto per secoli un destino femminile, confuso con l’attitudine materna e con l’amore, era già stata negli anni Settanta Lotta Femminista: un lavoro gratuito che di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale, svolto – come scrive Antonella Picchio – fuori dalle negoziazioni dirette con le imprese e per lo più tacitato e invisibile nelle negoziazioni con lo Stato.
Ma a distanza di tempo forse è possibile fare un passo ulteriore, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare o la monetizzazione dello Stato, e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellare. È su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata, diventare un “paradigma di interesse generale”, così da far apparire definitivamente superata l’idea di conciliazione come problema delle donne e l’idea delle donne come categoria del lavoro. Se non è più subalternità, dedizione, costrizione, ma neppure ruolo materno e salvifico delle donne, se è restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi, ma anche benessere, buona vita, “passione dell’uomo” nel senso marxiano, allora effettivamente la posta è più alta e si può ambire a proporre una soluzione all’altezza dei tempi e dei problemi di oggi. Quante donne sono ancora schiave della loro forza? Quanto è ancora legata la funzione materna alla loro identità, al bisogno di contare e dare un senso alla propria vita? Quante sono disposte a riconoscere che il sacrificio di sé per il bene di un figlio può pesare su di lui come un macigno, un debito inestinguibile? Sono domande a cui è ancora la pratica ereditata dalla stagione più radicale del femminismo, che può far fronte: dare parola alla soggettività, ascoltare dal racconto delle stesse lavoratrici la storia delle loro aziende – cosa si produce, come si produce -, e dall’esperienza di una giudice del lavoro che cosa è oggi la precarietà per i giovani, fatta di contratti a termine, di attese angosciose di proroghe e contenziosi giudiziari.
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– Certo la cura “non è solo una questione da risolvere con un “buono” welfare…” ma purtroppo dagli anni ’70 il welfare non è diventato “più buono” ma è peggiorato. Grazie alla teorizzazione della “buona” privatizzazione dei servizi portata avanti da chi questi servizi privati se li poteva pagare, e venduta al resto della popolazione con la favola del “ruscellamento” propinata dal neoliberismo (se alcuni/e diventano più ricchi/e e liberi/e poi lo diventeremmo tutti/e…).
Come è andato a finire lo sappiamo tutti/e. Dunque, cara Lea, la tua leggerezza nel sottovalutare il welfare mi preoccupa.
– Idem per “dare parola alla soggettività…”. Quando ormai la stessa oggettività del tasso di povertà, di precarizzazione, dei morti sul lavoro, dei working poors, ecc, ecc, è ben nota a tutti/e, eppure “sorvoliamo”. Colpa di chi non sa esprimere la propria “soggettività”?
– A scanso di equivoci, non rinego certo l’autocoscienza e la consapevolezza di quel “resto” che abbiamo fatto emergere ma non siamo più negli anni ’70 e la massa di lavoro gratuito sulla quale si regge la nostra società non si svolge più solo nella famiglia e, se è erogato soprattutto da donne, si è allargato anche agli uomini.
– A questo proposito segnalo il libro di Maud Simonet, Travail gratuit: la nouvelle exploitation? Textuel, 2018. Et la bella trasmissione di Arte “Et si on travaillait tous et toutes gratuitement? reperibile su youtube.
Ovvero come la riflessione sul lavoro gratuito elaborato dal femminismo a proposito del lavoro domestico può essere utile per analizzare oggi la massa sempre crescente del lavoro gratuito oggi.
Grazie per un articolo che finalmente affronta il problema dal punto di vista del potere e della forza. È il rovescio della medaglia, il modo a mio avviso in cui le donne sono infine le prime vittime e sostenitrici del patriarcato. Il valore è sempre dato ad un’idea del potere. Meglio studiare che lavare i piatti, tu lavora che io preparo la cena,..e si manda avanti, (“dominando” altrimenti) un mondo dove nello scarto (attività o oggetto privo di valore) perdiamo parte del valore della vita..inquinandoci in un equivoco non più sostenibile.
L’ho pensata come te finché non ho vissuto in campagna. In città le sole mansioni di cura che sono rimaste sono quelle tradizionalmente femminili. È estinto l’uomo che provvede ad altri bisogni casalinghi come la legna, il piccolo allevamento domestico, la trasformazione di alimenti, le riparazioni e costruzioni.
Mentre le donne lottavano per la propria emancipazione gli uomini consolidavano la propria indipendenza dal lavoro domestico maschile.
Sarebbe interessante leggere una storia della demascolinizzazione dell’uomo.