
di Luciana Percovich*
L’articolo di questa pagina fa parte del libro di Luciana Percovich, Verso il Luogo delle Origini. Un percorso di ricerca del sé femminile, 1984-2014, edito da Castelvecchi. Una prima versione è stata pubblicata su Queer/Liberazione il 15 maggio 2005. Si tratta di un breve invito a riflettere, indirizzato a compagni e compagne di strada in maggioranza acriticamente schierati in favore delle tecnologie della riproduzione assistita. Una voce fuori dal coro, ma non solitaria.
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Per tutto il 2004 ci eravamo incontrate per confrontarci, e non senza qualche difficoltà e reticenza, presso l’Università delle Donne di Milano, in un gruppo di donne, alcune delle quali appartenenti al primo nucleo di Medicina delle donne degli anni Settanta, che si dette come nome “pro-creativo” per discutere di PMA (procreazione medicalmente assistita). Nello stesso anno fu partorita la legge 40: brutta e insoddisfacente proprio perché frutto di una tensione non risolta tra molteplici punti di vista, più che semplicisticamente tra opposti schieramenti (laici a cattolici). Di questo irrisolto conflitto, molto spesso addirittura tra parti diverse di sé, ricordo qui due libri che trattano questi temi con ampiezza: Un’appropriazione indebita. L’uso del corpo della donna nella nuova legge sulla procreazione assistita, raccolta di 23 saggi brevi di altrettante autrici ( 2004) e Madri Selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile, di Alessandra Di Pietro e Paola Tavella (2006).
Nel presente, questo conflitto si ripropone con maggiore durezza sul tema della maternità surrogata per le coppie omosessuali maschili, dove il corpo femminile rischia di diventare nuovamente mero contenitore del desiderio (e del denaro) altrui, sull’onda lunga di uno slogan di cui sembra essersi smarrito del tutto il senso “il corpo è mio e lo gestisco io”.
Dell’infinita plasmabilità dei corpi
C’è un assunto implicito della legge sulla PMA e che il dibattito in corso finora ha scarsamente indagato: l’infertilità/infecondità delle donne (e degli uomini), che invece vale la pena di interrogare, specialmente alla luce della storia recente delle donne e di come il femminismo abbia affrontato i temi della salute, del corpo e della scienza.
Come si è arrivate/i dal bisogno o desiderio di vincere la fecondità, debordante solo fino a vent’anni fa, al desiderio o bisogno di vincere un’infertilità, da verificare e comprendere nelle sue cause, repentinamente diffusa? La questione, vista dalla parte delle donne, investe aspetti simbolici e politici non indifferenti.
Infatti, se il controllo della fertilità ha comportato negli anni Settanta uno sviluppo di strategie difensive e di crescita del senso di sé, di autonomia di giudizio e di assunzione di responsabilità, la “cura” della sterilità significa riconsegnare i corpi a tecnologie esterne a sé e al proprio controllo. Quasi a rinnovare una plasmabilità, solo per un momento sospesa, dei corpi/menti femminili al desiderio altrui.
Negli anni Settanta, all’insegna dello slogan provocatorio “l’utero è mio e lo gestisco io”, le donne, imbrigliate dopo una resistenza millenaria dal trionfo del patriarcato attraverso il potere religioso e scientifico (la “medicalizzazione” del corpo femminile raggiunse un suo apice nella seconda metà dell’Ottocento, momento di picco delle diagnosi di isteria e di cure a base di isolamento e isterectomia), hanno cominciato a spezzare la fitta rete di controllo gettata sui loro corpi e sessualità. Si trattò di un movimento sincronico che, tra il 1971 e il 1972, negli Stati Uniti e nei vari paesi europei portò all’invenzione della pratica del self help e alla fondazione dei primi Centri per la Salute delle donne.
Nel 1969, era uscito il libro The Doctors’ Case against the Pill, un atto d’accusa sulla mancata informazione da parte dei medici e della Food and Drug Administration alle donne sottoposte a terapie ormonali (la famosa pillola Pincus, contenente dosi massicce di ormoni) sui possibili danni ed effetti collaterali della pillola, che allora si andava diffondendo. Nel 1970 fu pubblicata la prima edizione del Boston Women’s Health Book Collective, Our Bodies, Ourselves. Tradotto in Italia nel 1974, col titolo Noi e il nostro corpo, il libro trattava, seguendo un approccio completamente diverso da quello medico ufficiale, tutti gli aspetti legati al benessere e al disagio del corpo (contraccezione, aborto, menopausa, malattie veneree, uso dei farmaci, ecc.), visto nella sua unità con la mente e la sessualità. La novità dell’approccio stava nel non isolare il disturbo, la malattia dalla totalità della vita di ogni persona (lavoro, condizioni economiche, affettive, psicologiche, ecc.).
Sempre nel 1974, in Italia veniva pubblicato Anticoncezionali dalla Parte della Donna, a cura del Gruppo femminista per una medicina delle donne di Milano, seguito nel 1976 da Insieme Contro, esperienze dei consultori femministi in Italia, e da Avanti un’altra, Donne e Ginecologi a confronto, e si aprivano i primi consultori autogestiti. E qui forse non è inutile sottolineare che fu questa la risposta delle donne femministe al problema dell’aborto, e che le proposte di legge vennero invece lanciate da altre componenti della “società civile”. E che ogni slogan urlato in piazza (“Aborto libero!”) era accompagnato dalla sempre ribadita volontà “Non vogliamo più abortire!”.
Nel decennio successivo ci fu un primo mutamento di interesse e di pratiche: uno spostamento dai temi della contraccezione e dell’aborto a quelli del parto e della maternità, e un approfondimento di riflessione teorica sulle questioni venute a galla nel decennio precedente, quali il ruolo della medicina nella vita delle donne, i presupposti interpretativi e normativi sottesi al rapporto medico/malato/malattia, il ruolo subalterno delle donne non solo in medicina, ma nella scienza in generale.
Il testo apripista di questa riflessione fu una traduzione dall’inglese, intitolata Alice attraverso il Microscopio: il potere della scienza sulla vita delle donne (1985). Seguirono Donne Tecnologia Scienza: un percorso attraverso mito, storia, antropologia (1986), Sul Genere e la Scienza (1987), In sintonia con l’organismo: la vita e l’opera di Barbara McClintock (1987), La Morte della Natura. Dalla Natura come Organismo alla Natura come Macchina (1988), La nube e il limite: donne, scienza, percorsi nel tempo (1990) e Donne senza Rinascimento (1991).
Il primo di questi libri, Alice attraverso il Microscopio, introduceva temi come donne, scienza e società, corpo femminile e controllo tecnologico, ed era firmato da un gruppo di Brighton, formatosi già nel 1976 con lo scopo di mettere a fuoco i problemi sollevati dagli sviluppi della ricerca scientifica e dalle sue applicazioni, e ai riflessi che le moderne tecnologie potevano avere sulla vita delle donne. Di particolare attualità, anche se allora non fu subito evidente quali sviluppi avrebbero avuto e quanto ci avrebbero toccato da vicino, i saggi intitolati “Tecnologia in sala parto” e “Ingegneria della riproduzione: la soluzione finale?”. Anche se superati in alcuni aspetti tecnici, data la rapida evoluzione di queste tecnologie basate sulla ricerca genetica proprio negli ultimi vent’anni, avevano il merito di affrontare per la prima volta da un punto di vista femminile gli aspetti inquietanti di quella che oggi chiamiamo “riproduzione assistita” e che allora erano ancor meno noti di oggi al grande pubblico e soprattutto alle donne. Fecondazione in vitro, clonazione, partenogenesi, placenta artificiale erano parole e temi che invece avevano già una certa circolazione nel movimento delle donne negli Stati Uniti e in Inghilterra, anche grazie ad alcuni stimolanti romanzi di “fantascienza” scritta da donne come Judith Merril, Joanna Russ, Marge Piercy, Margaret Atwood e Naomi Mitchison.
Poi, negli anni Novanta, la svolta, il passaggio dalla cosiddetta medicina scientifica alla medicina tecnologica del presente: in questo passaggio, che ha iniziato a trasformare i confini della vita, il tema della procreazione assistita è diventato infine oggetto di discussione pubblica, perché i giornali hanno cominciato a pubblicare i casi estremi e i governi a legiferare nel merito.
Del dibattito generale su donne e scienza, è qui rilevante ricordare almeno un punto fermo acquisito in quegli anni. La Scienza Moderna, nata in Europa tra il Cinquecento e il Seicento, fu alla sua origine – come continua a esserlo nel presente – un progetto maschile (il temporis partus masculus di Franceco Bacone) che “condensa il duplice impulso ad appropriarsi del materno (sostituire la capacità di generare la vita attraverso processi artificiali elaborati per via tecnologica) e a reprimerlo (ridurlo a puro principio passivo, oggetto di manipolazioni)” (E. Fox Keller, 1987); e che essa, Scienza Moderna, emerse come nuovo ordine economico e scientifico insieme (C. Merchant, 1988). Nel suo centro ideologico troviamo i concetti di passività e controllo, attribuiti sia alla donna che alla natura per poterli applicare sia alla sfera della produzione che della riproduzione, concetti che allora emergevano nella forma galvanizzante di un Progetto, mentre ora li sperimentiamo nella loro forma in buona parte realizzata di Consumo Pianificato travestito da Domanda del Mercato (le donne che non riescono a restare incinte, i malati che non possono essere curati se non con il ricorso a cellule staminali …).
Alla luce di questa storia recente riassunta in poche righe, è lecito chiedersi se l’apparente e rinnovata disposizione delle donne a lasciar manipolare i loro corpi esista veramente?
O se non siamo piuttosto di fronte a una forzatura del Mercato (farmaceutico e genetico, in prepotente espansione), che vuole vendere i prodotti secondari di un’impresa scientifica diventata Impresa Globale, addetta alla manipolazione a scopo di lucro dei semi delle piante e dei gameti umani, per cancellare “le imperfezioni della natura che sbaglia” (Vandana Shiva), sostituirle con la linearità e la regolarità della catena di produzione artificiale e “necrotecnologica” (Mary Daly), e mettere il Brevetto sulla materia vivente?
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