I distretti territoriali sono, per gli attori dell’economia solidale, uno strumento di aggregazione di diverse forze sociali interessate a costruire forme di relazione comunitaria. Cioè a mettersi-in-comune per trasformare dal basso – cioè alla radice – le relazioni umane tra le persone e tra le persone e l’ambiente naturale. In una visione strategica, l’aggregazione di diverse attività solidali in un distretto economico serve, oltre che a migliorare le singole prestazioni in un’ottica di coordinamento produttivo, a promuovere un progetto generale di sviluppo locale. Se però si punta a sviluppare le capacità di autogoverno delle comunità, la stessa nozione di “distretto di economia solidale” potrebbe risultare limitante e riduttiva. Meglio allora preferire, come ha fatto la Regione Friuli Venezia Giulia in un recente testo di legge, la locuzione Comunità dell’economia solidale. Sarà utile per definire un “insieme di persone fisiche residenti in un determinato territorio che, nella rete dei reciproci legami sociali e delle attività volte a soddisfare il ben vivere dei suoi membri, perseguono attivamente l’attuazione dei principi della solidarietà, della reciprocità, del dono, del rispetto dell’ambiente”
di Paolo Cacciari*
La locuzione “distretti di economia solidale” (DES) nasce in seno alla Rete di economia solidale italiana (RES) nei primi anni di questo secolo ed è così definita nella Carta RES (disponibile su www.economiasolidale.net), sottoscritta a Padova nel 2003: “Tali distretti si configurano quali ‘laboratori’ di sperimentazione civica, economica e sociale, in altre parole come esperienze pilota in vista di future più vaste applicazioni dei principi e delle pratiche caratteristiche dell’economia solidale”. Andrea Saroldi, uno dei pionieri dei movimenti dell’“altra economia”, ricostruisce bene la genesi e gli sviluppi dei DES nel suo scritto I Distretti (Saroldi, 2016). Un altro promulgatore e studioso dell’economia solidale, Davide Biolghini, ricorda nello scritto DES come Distretto (Biolghini, 2013) che il termine “distretto” veniva usato per richiamare la esperienza di successo dei “distretti industriali” italiani.
I distretti industriali godono di una sterminata letteratura. Il pensiero distrettualista si occupa delle relazioni che vi sono tra assetti produttivi, territori, società.
Nel tempo del fordismo, del gigantismo della grande industria centralizzata e verticalizzata, il territorio era concepito come supporto inerte indifferenziato dove poter insediare qualsiasi tipo di attività, se opportunamente infrastrutturato. I “poli” industriali venivano scelti dalla programmazione economica nazionale secondo criteri sociopolitici che prescindevano da considerazioni sulle specificità dei luoghi (ricordiamoci, solo per fare un esempio, il dibattito negli anni ’60 sulla localizzazione del Terzo polo siderurgico che vagava tra Porto Marghera, il Polesine, Gioia Tauro, Taranto…).
Con il maturare della crisi delle grandi produzioni di base nei paesi di più antica industrializzazione (delocalizzazione degli stabilimenti “a bocca di miniera”, rapida industrializzazione dei paesi asiatici, concorrenza spietata sul versante del costo del lavoro, dumping ambientale, terziarizzazione dell’economia, uscita di scena del grande capitale di stato, ecc.) emergono soprattutto in Italia negli anni ’80 e ’90 del Novecento nuovi modelli di sistemi locali di produzione di piccole e medie imprese integrate tra loro in ambiti territoriali circoscritti: i distretti industriali a specializzazione produttiva, capaci di produrre beni tipici ed eccellenti. Tanti “Made in” capaci di esportare nel mondo (pensiamo ai distretti più famosi: il tessile a Prato, le scarpe nelle Marche, la sedia nel Friuli, l’orafo nel vicentino, il sanitario in Emilia e così via). Se ancora oggi il settore manifatturiero italiano regge (l’Italia è la seconda in Europa, dopo la Germania, per valore di produzione industriale) è merito di ciò che i distretti hanno saputo creare. Interi scaffali delle biblioteche sono dedicati agli studi sui distretti industriali. Gli autori sono Arnaldo Bagnasco, Aldo Bonomi (Bonomi, 2015), Enzo Rullani (Rullani, 2003), Giacomo Becattini (Becattini, 2015) e molti altri. Si scopre che vi è un “intimo rapporto” tra i sistemi produttivi e l’ecosistema vivente che li ospita, li accoglie e li sorregge mettendo loro a disposizione giacimenti patrimoniali culturali e naturali, competenze diffuse, storiche sapienze produttive e vocazioni locali. Si scopre che tra i fattori produttivi non vi sono solo la disponibilità di “forza lavoro” generica, di “materie prime” e di capitale finanziario, ma anche e sempre di più di “capitale sociale”. Vale a dire: di un tessuto di relazioni che crea una “coralità produttiva”, una “comunità operosa”, cooperante, che si identifica con le sorti dell’impresa e ne condivide il bene. C’è chi lo ha chiamato capitalismo molecolare e popolare. Becattini definisce il distretto industriale come una “unione organica di una popolazione e di un apparato produttivo” (Becattini, 2015, p. 22). Si tratta di un ritorno al territorio e alla società (dopo il crollo della grande industria fordista) che viene da lontano. Il riferimento culturale va ad Adriano Olivetti e alla sua utopica “fabbrica comunità”, fabbrica come bene comune.
Ma anche il tempo dei distretti industriali si esaurisce presto. Con il nuovo secolo prende sempre più forma la globalizzazione economica, con tutto ciò che contiene (nuove tecnologie, finanziarizzazione, nuove catene di produzione del valore delle merci, ecc.) e che comporta per gli assetti produttivi delle singole imprese. Per fare una battuta potremmo dire che i distretti diventano dislunghi. Le aziende che si salvano nella competizione globale si internazionalizzano partecipando a reti infinite e filiere interminabili (la specializzazione produttiva viene esasperata, così come la divisione internazionale e tecnica del lavoro; la componentistica viene dislocata ed assemblata in luoghi diversi) coordinate da imprese transnazionali: le famigerate corporations, quel pugno di grandi agglomerati che controllano la maggioranza delle produzioni e dei commerci internazionali. Cambiano così gli assetti proprietari e il rapporto tra le imprese e il loro territorio di insediamento torna ad essere precario, indifferente.
In questo contesto (qui riassunto inevitabilmente troppo rapidamente) domandiamoci: che significato può avere recuperare e rilanciare il concetto di distretto in un’ottica di economia solidale.
In primo luogo l’intento della RES italiana è di riaccendere l’attenzione sulle relazioni esistenti tra economia-territorio-società. L’economia solidale si iscrive nelle esperienze pratiche e nelle teorie dello sviluppo locale integrato e autosostenibile (Magnaghi, 2000). L’economia solidale intende superare la separazione tra i fattori produttivi e quelli sociali. Per l’economia solidale la “ragione sociale” dell’impresa non è il profitto, la valorizzazione economica, l’accumulazione monetaria, la massimizzazione degli utili, la remuneratività dei capitali investiti. L’impresa dell’economia solidale non segue le logiche della crescita indefinita. È esplicitamente alternativa al capitalismo (Ripess, 2015). Le finalità di un sistema economico solidale sono il benessere generale, collettivo delle comunità insediate, nel loro insieme e nella loro totalità. Le imprese dell’economia solidale, quindi, sono inserite in un processo di produzione sociale allargato e integrato. Potremmo dire – per usare linguaggi consoni al pensiero economico – che le imprese eco-solidali operano dentro il paradigma della responsabilità sociale e ambientale. Rispondono, cioè, non solo al proprio tornaconto, ma a quello del sistema sociale dentro cui sono inserite. Il concetto di distretto territoriale si integra con quello della rete. Immaginiamo tessuti economici (reti di imprese) capaci di sostenere la vita delle comunità locali, dimensionati e finalizzati a dare risposte ai loro bisogni e desideri.
In secondo luogo il richiamo al concetto di distretto economico per l’economia solidale significa porre l’attenzione sulle basi materiali della produzione di valore. L’impresa sociale è auto-sostenibile, quindi ecologica. Pensa alla preservazione e alla rigenerazione dei cicli biologici degli ecosistemi. La singola impresa e il distretto di cui fa parte sono inseriti in una bioregione all’interno della quale i bilanci di materia e di energia devono tornare in equilibrio. In questo senso l’economia solidale – per usare termini diventati di moda – è “circolare”, chiude il cerchio del metabolismo antropico. Ma l’economia solidale nell’ottica del distretto territoriale non è guidata solo dalla preoccupazione di difendere la biodiversità e il patrimonio storico paesaggistico, ma di “metterli a valore” utilizzandoli nel modo più appropriato come beni comunitari, rendendoli accessibili e condividendoli tra tutti gli abitanti insediati. I patrimoni territoriali comuni, quindi, – come il “capitale sociale” – costituiscono il “capitale naturale” di base di ogni forma di economia.
In terzo luogo il concetto di distretto obbliga le imprese a pensarsi come interdipendenti e inter-agenti. A monte e a valle. Nella catena delle forniture, della logistica, della distribuzione e del consumo. Il processo produttivo solidale coinvolge una pluralità di soggetti cooperanti, con-correnti e non competitivi. Reti, reti di impresa, filiere, associazioni, consorzi, fiere… che operano in modalità sussidiarie, intersettoriali, trans-disciplinari, orizzontali e mirano al benessere generale delle comunità insediate. Per queste ragioni il distretto a cui si riferisce l’economia solidale non è una aggregazione di aziende simili, non è un sindacato corporativo tra imprese dello stesso settore, nemmeno uno strumento per condividere servizi, ottenere particolari riconoscimenti e finanziamenti pubblici e abbattere i costi d’esercizio. Il loro approccio al mercato non sarà mai mirato a conquistare rendite da monopolio, “vantaggi competitivi” a svantaggio di altre imprese, nicchie esclusive ed escludenti, ma a realizzare momenti di co-progettualità per stabilire il giusto dimensionamento delle produzioni in ragione dei fabbisogni reali dei fruitori finali, a coordinare i flussi di domanda e offerta di beni e servizi, a dar vita a gruppi di domanda e offerta (GODO, come lo sono le Comunità di sostegno all’agricoltura), a costruire forme di mutuo aiuto per condividere rischi e socializzare i risultati, a condividere saperi, conoscenze e tecnologie necessarie all’innovazione produttiva, altro ancora. In quest’ottica è possibile immaginare forme giuridiche innovative di aggregazione come le cooperative e le fondazioni di comunità, i sistemi di scambio non monetari tra imprese e tra imprese e consumatori, altro ancora.
Infine, possiamo quindi affermare che i distretti territoriali sono per gli attori dell’economia solidale (imprenditori, ma non solo) uno strumento connettivo e di aggregazione di tutte quelle diverse forze sociali interessate a costruire forme relazionali comunitarie. Cioè a mettersi-in-comune per trasformare dal basso – cioè in radice – le relazioni umane tra le persone e tra le persone e l’ambiente naturale. In una visione strategica l’aggregazione di diverse attività solidali in un distretto economico serve, oltre a migliorare le singole prestazioni in un’ottica di coordinamento produttivo, a promuovere un progetto generale di sviluppo locale nella sua generalità.
Il distretto si propone come un modello e uno strumento connettivo anche al di fuori del perimetro delle imprese solidali che vi partecipano. Mira a formare cittadinanza competente, consapevole (come quella dei “consumatori critici”). Svolge una funzione di “coaching territoriale” (Orazi, 2011). Incalza i poteri pubblici affinché mettano in atto politiche realmente finalizzate al benessere collettivo delle popolazioni (e non all’utilità degli “investitori”) in ogni campo: bioedilizia, energie rinnovabili, forniture biologiche di mense e mercati, mobilità dolce, informatizzazione open source, riduzione, riuso e riciclo dei rifiuti, garanzie al microcredito, monete complementari, welfare di prossimità e rigenerativo e quant’altro sia utile a buon vivere delle comunità.
In tal senso i distretti sono attivatori di politiche economiche, sociali, educative, urbanistiche assieme alle istituzioni scolastiche, universitarie, socio-sanitarie, municipali. Negozia l’uso delle risorse collettive (Parecipatory and Negotiated Territorial Development). Elabora “Statuti dei luoghi” che definiscono in forme partecipata le peculiarità territoriali, storiche e paesaggistiche degli ambiti spaziali. Individua e crea spazi di sovranità (alimentare, energetici, educativi …) liberati da ogni forma di inquinamento, sfruttamento, violenza. Promuove partnership e protocolli di intesa con il pubblico che quindi smette di essere “ente erogatore” e controllore burocratico esterno, ma diventa compartecipe e corresponsabile dei risultati. Crea consulte di cittadinanza (ad esempio: food council, assemblee di gestione e dei beni comuni urbani recuperati ad un uso sociale, patti di sussidiarietà sul modello Labsus) in generale mira a sviluppare la capacità di autogoverno delle comunità.
In questa ottica la stessa nozione di “distretto di economia solidale” (inteso come un soggetto associativo che si costituisce come rete locale di imprese che rispettano determinati requisiti di sostenibilità sociale e ambientale e che può anche assumere una qualche forma giuridica riconosciuta) può risultare limitante e riduttiva. Meglio allora procedere come ha fatto la Regione Friuli Venezia Giulia nella legge Norme per la valorizzazione e la promozione dell’economia solidale (n. 4/2017) che nelle definizioni (art. 3) preferisce usare la locuzione “Comunità dell’economia solidale” e la definisce come “insieme di persone fisiche residenti in un determinato territorio che, nella rete dei reciproci legami sociali e delle attività volte a soddisfare il ben vivere dei suoi membri, perseguono attivamente l’attuazione dei principi della solidarietà, della reciprocità, del dono, del rispetto dell’ambiente”.
* Testo dell’intervento al workshop “DEStinazione Economia Solidale” tenuto a Trento il 21 settembre 2018
Riferimenti
Giacomo Becattini, La Coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, 2015.
Davide Biolghini, DES come Distretto, in Tavolo RES, Un’economia nuova, dai Gas alla zeta. Altreconomia, 2013.
Aldo Bonomi, Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora. Derive Approdi, 2015.
Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Bollati Boringhieri, 2000.
Francesco Orazi, Matteo Belletti, Toni Montevidoni, Il modello DES, in F. Orazi, ADESso. Economie solidali e cittadini consapevoli. Le determinanti culturali, economiche e politiche che caratterizzano i Gas e il mondo del consumo critico. Cattedrale, Ancona, 2011.
Ripess, Visione globale dell’economia sociale solidale: convergenze e differenze nei concetti, nelle definizioni e nei sistemi di riferimento, 2015. Disponibile a questo link: http://www.economiasolidale.net/content/visione-globale-delleconomia-soc…
Enzo Rullani, Il capitale sociale per la seconda modernità, in “Sviluppo locale”, Vol. X n. 23-24, 2003.
Andrea Saroldi, I Distretti, in: I dialoghi dell’economia solidale. Scenari e concetti per una trasformazione possibile, Asterios, 2016.
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