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Di lavoro faccio la maestra e vado in giro parlando e scrivendo di scuole possibili. Ma dentro di me lo so, è di mondi possibili che racconto, mondi che da maestri teniamo davanti a noi, come bussola per ciò che siamo e facciamo dentro le aule e anche a spasso fuori dalle mura scolastiche con i nostri bambini. Ho letto e scritto migliaia di parole sul compito della scuola, di una scuola luogo del pensiero e dell’animo, di una scuola capace di mettere insieme pezzi di comunità che non sentano il bisogno di proteggersi alzando muri o chiudendo porti, comunità i cui membri non si sentano detentori di alcun diritto in più rispetto al resto dell’umanità. Migliaia di parole che sbattono quasi ogni giorno contro notizie più o meno eclatanti che raccontano una storia diversa, che ci ricordano quanto sia forte la corrente che muove i tantissimi che invece urlano: “Porti chiusi, muri alti e prima Noi!” e di quanta ostinazione ci voglia per continuare a navigare nel senso opposto con un numero di compagni di viaggio che fatichiamo a quantificare, passando dall’ottimismo allo sconforto in brevissimo tempo.
E quante parole si sono scritte e dette in queste ore sul bambino senza nome di dieci anni ritrovato morto di freddo e di ipossia nella stiva di un volo partito da Abidjan con destinazione Parigi. Tanti hanno scritto di avere alunni e figli della stessa età stimata per quel piccolo coraggioso/disperato fuggitivo. Anche io, si chiama Irene, la mia primogenita e poi ci sono i miei alunni, che compiranno tutti dieci anni in questo 2020 iniziato con immagini terribili in arrivo da vicino lontano e lontanissimo. Sono circondata da questi sguardi bambini che iniziano ad esplorare i loro progetti per il futuro.
Ma non voglio parlare di loro per agire sulla compassione e sul senso di colpa (mio prima di tutto) verso quel bambino senza nome, a cosa servirebbe, soprattutto per chi legge le pagine su cui sto scrivendo e che già è allenato alla rabbia, alla tristezza, alla frustrazione, alla responsabilità (per quello che ci riesce)?
Preferisco allora ripercorrere il racconto di un viaggio fatto al contrario, per raggiungere nello scorso luglio un villaggio in un angolo remoto della Costa d’Avorio. Due Ong, Terre Gemelle e Naduk, avevano contattato qualche mese prima Fondazione Montessori Italia, l’ente con cui collaboro come formatrice, perché in un villaggio dal nome irripetibile vicino al confine con il Ghana, a cinque ore di viaggio da Abidjan potesse nascere una scuola dove i bambini potessero essere guardati come maestri, con un ambiente predisposto adatto ai loro bisogni di apprendimento e venisse offerta loro un’opportunità di imparare e crescere accompagnati da persone per le quali fosse centrale la dignità e il rispetto per la loro persona.
Il racconto di Claudio, collega e amico a cui ho proposto di partire per quel viaggio, e delle fotografie mentali scattate in quelle lunghe ore e anche nei primi momenti dopo l’arrivo vanno lette per sapere cosa poteva spingere quel ragazzino a un tentativo disperato; da cosa fuggiva?
Con le teste traballanti e gli occhi sbarrati, dal cassone del pickup che percorre lo sterrato molto dissestato, della strada del villaggio, osserviamo muti. Lo spaesamento che ci pervade conferma che certamente non siamo più in Europa. Muovendoci tra le caotiche accozzaglie di casupole, capanne, baracche e postazioni di vendita di prodotti vari, sotto un maleodorante cielo aperto, vediamo un formicaio umano muoversi: bambini intenti a lavarsi e a lavare una pecora in una putrida pozza d’acqua, bestiame vario che passeggia per le strade o bruca erba secca su rovine non identificabili, gruppetti di adolescenti e di uomini che sembrano tramare fra loro, buttati lì sulla terra rossa africana o sul ciglio delle loro baracche senza porte.
Vedere una foto di questi venditori di pane, di pannocchie, di manioca e verdure, di pesce e di carne, di attrezzi da lavoro o di stoffe farebbe pensare alla possibile esistenza della tecnica fotografica nel neolitico, se l’autenticità dell’immagine non fosse resa dubbia dalla presenza qua e là di banchetti arancioni che pubblicizzano e vendono schede e connessioni telefoniche, così come dalla presenza continua di contenitori e scarti di plastica nell’immondizia varia, presente e dispersa ovunque su strade, campi, foreste e villaggi.

Strade brutte e pericolose, solitarie e lunghissime dove viaggiano autobus carichi all’inverosimile di materiali, persone e animali e sul cui ciglio ogni tanto appaiono anche ragazzi e uomini raccoglitori di legna, a piedi o in bici, che ad un certo punto svoltano dalla via per entrare nella fittissima boscaglia e sparire. Per chiunque di noi, pensiamo, sarebbe un suicidio! Non c’è da scherzare.
In questo Paese, anche se non ci sono gli animali feroci, le sabbie mobili o i pericoli dei film di Tarzan, esiste uno fra i più velenosi serpenti al mondo: il Mamba. Ed esiste nelle sue versioni verde, invisibile sugli alberi, e nero, ma quando vedi che è nero … è troppo tardi. Tremendo! Nonostante ciò, non sono questi pericolosi rettili la principale fonte di preoccupazione per la popolazione locale. Qui si vivono e temono la povertà estrema che non permette alle persone di curarsi dalle malattie mortali (malaria, febbre gialla o tifo) a causa di un sistema sanitario a pagamento e pressoché inesistente, il degrado sociale e morale che mette donne, bambini e persone deboli alla mercé dei più forti, siano essi padri, fratelli, amici o poliziotti e militari corrotti, il potere politico ed economico sia degli africani sia dei bianchi. Ai nostri sguardi sbigottiti, al sicuro sulle nostre auto, spesso rispondono dalle strade occhi scuri umidi di una miscela fatta di odio, sottomissione, desiderio. Non ci si sente i benvenuti.
Si avverte una pace precaria, greve e malata che affonda in un tempo infinito. Non c’è la fretta che abbiamo noi europei. Corpi sdraiati per terra, stanno lì nella polvere rossa per ore, scavalcati dai cani che li annusano passando oltre e schivati dall’altra umanità, in un perpetuo movimento lento. Le donne con enormi carichi sul capo, in vestiti sgargianti, unica macchia di colore in questo paesaggio quasi tetro, camminano come se fossero senza speranza, quella di potersi liberare prima o poi del loro fardello. Da sole o con bambini di diverse altezze al seguito, più uno avvolto sulla schiena, paiono le uniche a portare avanti il peso dell’Africa. (Claudio Lucco)
Non ci si sente i benvenuti in quel girone infernale.
Allora o si usa il pugno di ferro della sottomissione agita con il potere o si regalano caramelle gettate sulla strada come in ogni vecchio copione del colonialismo pietistico (leggi anche Frontiere e politiche di inimicizia, intervista ad Achille Mbembe, ndr).
Odio, sottomissione, desiderio, tutte gabbie costruite nel tempo da chi non ha seguito l’imperativo sovranista attuale che vorrebbe i confini di ciascuno Stato ben chiusi e protetti, imperativo valido solo ora quando la direzione dei viaggi è cambiata.

Chissà cosa aveva in mente quel bambino arrivato senza vita a Parigi, cosa provava davanti al passaggio di un pulmino di uomini e donne europei con in tasca un biglietto di andata e ritorno per e dall’inferno.
Penso sia un grande privilegio poter fare quel viaggio, da qui ad Abidjan. Non per turismo solidale o per aumentare i sensi di colpa ma per due principali motivi. Per capire, ma capire davvero, che avere dieci o cinquant’anni qui o lì è questione di poche ore di volo e che i confini tra me e quella donna o suo figlio, coetanei di me e Irene non esistono nella realtà, che sono convenzioni o peggio costrutti di chi qui e là gioca a fare Mangiafuoco. E poi, anzi prima, per dare una possibilità a chi vive su quelle strade e in quelle baracche; andando senza gettare caramelle ma formando maestre e genitori capaci di dare un orizzonte ai figli di quel villaggio che nessuno ha mai sentito nominare (però lo scriviamo, si chiama Agnibilekru perché non tutto può rimanere senza nome) e chissà che quel bambino non arrivasse da lì. Ora novanta piccoli hanno lì una Casa dei Bambini che li attende ogni giorno, chissà che non possano anche grazie a quella scuola speciale che persino qui in Italia è un privilegio per pochi, fare una strada diversa, lontana da un aereo senza destinazione.
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*Sonia Coluccelli è un’insegnante di scuola primaria, coordinatrice Rete scuole Montessori dell’alto Piemonte e Responsabile formazione della Fondazione Montessori Italia è autrice di Un’altra scuola è possibile? (Ed. LeoneVerde), Il metodo Montessori oggi e Montessori incontra…. (Ed. Erickson). Fa parte del consiglio direttivo della Rete di cooperazione educativa. Ha aderito alla campagna di Comune “Ricominciamo da tre“.
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Gentile Sonia, sono un nonno, in attesa da bisnonno, che sta provando a immaginare una particolare Casa dei Bambini, che potrebbe somigliare a quella citata nel tuo articolo. Anch’io vivo in Piemonte e sarebbe utile e bello migliorarla scambiandoci sogni o ipotesi verso i bambini sin dalla loro prima infanzia. Se mi invii una tua mail alla mia (), ti mando la mia ipotesi per una “Casa dei Bambini”