L’ultima drammatica crisi che ha investito in queste settimane Cuba ha cause economiche pesantissime scatenate in modo particolare dall’impatto del coronavirus. Per fare solo un esempio, si pensi al crollo del turismo che rappresenta moltissimo nella fragile economia devastata da 60 anni di embargo. Ma non tutti i problemi della cultura politica del regime castrista possono essere certo ricondotti all’embargo. Uno di quelli di cui non si vuol parlare, non solo a Cuba, è quello della rivoluzione come problema. Vale a dire, dello Stato come leva per la costruzione di un mondo nuovo. È quella la sola possibilità di tener viva oggi l’idea di rivoluzione? Una riflessione di Raúl Zibechi
Appartengo alla generazione che è cresciuta con l’influenza del clima politico e culturale della rivoluzione cubana. Sono stato contagiato dall’entusiasmo che generava, in particolare, la figura del Che, che non esitò a lasciare le comodità della vita urbana post-rivoluzionaria per riprendere il cammino tra selve e montagne, perché “il dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione».
Cuba attraversa oggi una situazione complessa, che mi porta a riflettere in tempi diversi sulla congiuntura, la struttura e il concetto stesso di rivoluzione.
I
La sovranità di una nazione è intoccabile, tanto quanto il diritto delle nazioni alla propria autodeterminazione. Non dipende da chi sta al governo. Nessuno ha il diritto di intervenire o sovvertire il governo di una nazione straniera.
L’embargo su Cuba è inaccettabile, così come i tentativi di far cadere la rivoluzione, che si susseguono sistematici e continui da sei decenni. Non abbiamo mai chiesto un intervento straniero per porre fine alle dittature del Cono Sur, perché pensiamo che siano i popoli a dover decidere il loro futuro. Per questo stesso motivo non abbiamo mai chiesto neppure che regimi orribili e responsabili di genocidio (come quello dell’Arabia Saudita, tra i molti altri) siano abbattuti con invasioni militari.
Cuba ha il diritto di essere lasciata in pace, come succede in tutte le nazioni del mondo. Solo due paesi appoggiano l’embargo: Israele e gli Stati Uniti.
II
La crisi attuale ha cause precise. Nel 2020 l’economia ha fatto registrare una contrazione dell’8,5 per cento, secondo la Comisión Económica para América Latina y el Caribe. L’industria ha avuto un calo dell’11,2 per cento e il settore agricolo del 12. La crisi del turismo è tremenda e si ripercuote su tutta la società: nel 2019 Cuba ha ricevuto 4,2 milioni di turisti, nel 2020 appena 1,2 milioni. Nel primo semestre di quest’anno i turisti sono stati solo 122 mila, secondo i dati raccolti dalla giornalista cilena Francisca Guerrero.
Il turismo contribuisce al Pil per un valore intorno al 10 per cento, occupa l’11 per cento della popolazione attiva ed è la seconda fonte di valuta. La scarsità di valuta crea enormi difficoltà per l’importazione di alimenti: Cuba deve importare il 70 per cento del cibo che consuma, mentre i prezzi internazionali sono cresciuti del 40 per cento in un solo anno.
Il cosiddetto “ordinamento cambiario” deciso in gennaio, che ha eliminato i tassi differenziati con cui si cambiavano i pesos cubani in dollari, sebbene necessario e auspicabile, è arrivato tardi e in un momento di acuta scarsità di dollari. Quel che è certo è che la popolazione ha grandi difficoltà ad accedere ai beni primari.
L’inflazione e i black out di elettricità sono il corollario di vecchi problemi mai risolti (come il deterioramento delle infrastrutture) e di improvvisazioni nell’applicazione di cambi lungamente rimandati.
L’embargo è un grande problema per Cuba. Ma non tutti i problemi possono essere ricondotti all’embargo. Uno di quelli di cui non si vuol parlare, non solo a Cuba, è quello della rivoluzione come problema. Vale a dire, dello Stato come leva per un mondo nuovo.
III
Abbiamo creduto che la rivoluzione fosse la soluzione ai mali del capitalismo. Non lo è stata. Forse il lavoro maggiore delle rivoluzioni è stato quello di spingere il capitalismo a riformarsi, limando per un certo periodo i suoi spigoli più estremi, quelli che affidano tutto al mantra del mercato che si autoregola e che conduce milioni di persone alla povertà e alla disperazione.
Rivoluzione è sempre stato sinonimo di conquista dello Stato, come strumento per andare verso il socialismo. Originariamente, il socialismo doveva essere, né più né meno, il potere dei lavoratori per superare l’alienazione che comporta la separazione tra i produttori e il prodotto del loro lavoro. Tuttavia, il socialismo si è trasformato in sinonimo di concentrazione dei mezzi di produzione e di cambiamento nello Stato, controllato da una burocrazia che, in tutti i casi, è poi diventata una nuova classe dominante, quasi sempre inefficace e corrotta.
Il pensiero critico si è sottomesso a questa nuova borghesia, o comunque si voglia chiamare questa casta burocratica che, non essendo proprietaria, mantiene la capacità di gestire i mezzi di produzione a suo piacere, senza render conto a nessuno se non ad altri burocrati, senza che i lavoratori, privi di forme di organizzazione e di espressione autonome, possano incidere nelle decisioni. Senza libertà democratiche, gli Stati socialisti (contraddizione semantica evidente) sono diventati Stati autocratici e totalitari, non molto differenti dalle dittature che abbiamo subito e dalle democrazie che non ci permettono di scegliere il modello economico che ci governa ma a malapena i rappresentanti “consacrati” grazie a costose campagne pubblicitarie.
Le rivoluzioni socialiste e quelle di liberazione nazionale, e anche i movimenti di emancipazione, si sono autodistrutti nei frangiflutti degli Stati: nell’istituzionalizzarsi perdendo il proprio carattere trasgressivo teso a superare lo stato delle cose presenti; nel ri-legittimare un sistema-mondo che pretendevano superare; nel trasformare, attraverso la via istituzionale, la potenza ribelle delle classi popolari nella spinta per la conversione dei burocrati in nuovi oppressori.
Come hanno sostenuto Fernand Braudel e Immanuel Wallerstein, e più recentemente anche Abdullah Öcalan, lo Stato nazione è la forma di potere specifica della civilizzazione capitalista. Pertanto, dice il leader curdo, la lotta antistatale è più importante della lotta di classe, e questo non ha niente a che vedere con l’anarchia, ma con l’esperienza di oltre un secolo di socialismo. È rivoluzionario il lavoratore che resiste a farsi proletario, che lotta contro lo status di lavoratore, perché quella lotta mira a superare e non a riprodurre il sistema attuale.
Per fare una politica centrata nello Stato, le categorie di egemonia e omogeneità sono centrali. La prima è una forma di dominazione, c’è poco da fare, sebbene il progressismo e la sinistra credano che possa superare il leninismo. La seconda è un’ambizione da parte di chi, dall’alto, vuole prendere in giro la popolazione. Incrinati il patriarcato e il colonialismo interno, oggi è impossibile creare una società omogenea, perché le donne, i giovani e ogni tipo di dissidenza (da quelle culturali fino a quelle sessuali) rifiutano l’appiattimento delle differenze e delle diversità.
Imporre omogeneità fondandosi sull’egemonia è una scommessa sull’autoritarismo, che lo si faccia attraverso il mercato o attraverso il partito di Stato. La forma ideale di dominazione è quella che si presenta come democratica (semplicemente perché ci sono elezioni) ma imprigiona la popolazione in un modello economico che rende vulnerabile la stessa vita.
IV
La rivoluzione socialista è questione del passato, non è il futuro dell’umanità. Non lo è neppure il capitalismo. La formula binaria oppositiva capitalismo/socialismo non funziona più come organizzatore e ordinatore dei conflitti sociali.
Mentre le sinistre restano prigioniere della loro visione “statocentrica”, i settori più attivi e creativi delle società latinoamericane (femministe, popoli originari, giovani critici) non hanno più Cuba come riferimento, come accadeva per la mia generazione, ma guardano a lotte concrete come le rivolte cilena e colombiana, all’esperienza zapatista e ai mapuche, ai ritmi da “rapper” e a sogni di libertà impossibili nel Nicaragua di Ortega e nella Cuba del Partito, nella Colombia dei paramilitari o nel Brasile di Bolsonaro.
Fonte originale: Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Nicola dice
Concordo in gran parte sull’analisi. Il problema è che se cade anche il cosiddetto “modello Cuba”, ennesima vittima delle proprie (datate) contraddizioni, diventa sempre più complicato rispondere alla domanda delle domande a proposito di “un altro mondo è possibile”: quale?
Piero Manconi dice
Non concordo con l’analisi. Se dopo sessanta anni David non cede alla forza sovrastante di Golia è perché David rappresenta una rivoluzione di popolo. Il popolo cubano nella sua grande maggioranza è per la difesa della propria libertà e quindi è la rivoluzione. Chi cede allo scoramento dato dalla forza dell’avversario e alla ineluttabilità della sconfitta è una quinta colonna dell’imperialismo che cerca di minare la compattezza del popolo. La rivoluzione cubana mostra che la compattezza del popolo è un’arma invincibile e necessità solo di concreta solidarietà e non di critica strumentalmente vestita di
creatività inconcludente. Paragonare la rivoluzione cubana al Brasile di Bolsonaro o alla Colombia dei paramilitari è una bestemmia inaccettabile per qualsiasi democratico, non dico rivoluzionario. Questo sito non merita questo.